Il popolo dei forgotten radunatosi attorno a Trump non è un soggetto contendibile né antisistema. L’unico modo di batterlo è decostruirne i presupposti, come hanno capito femministe e antirazzisti.
jacobinitalia.it Ida Dominijanni
Sono riuscita ad andare negli Stati uniti lo scorso gennaio, un attimo prima che il Coronavirus serrasse le frontiere del mondo globale e ci obbligasse a riscoprire le gioie – si fa per dire – della stanzialità locale. C’era già l’allarme in Cina, ma non in Europa né negli Usa: un solo caso di Covid in California, dove ero diretta e dove nessuno, salvo gli asiatici, portava la mascherina, peraltro sold out dappertutto esattamente come in Italia, dove sono rientrata a metà febbraio. Da quel breve viaggio sono passati sei mesi che sembrano un secolo: non c’è una sola cosa che non si sia ribaltata nel suo contrario.
Provo a mettere in fila i ricordi: gli aerei di andata e ritorno pieni zeppi, la macchina economica statunitense che girava al massimo col tre per cento di disoccupati, Trump saldamente in sella, il suo elettorato più convinto e fanatico di quattro anni prima, Sanders in ascesa alle primarie che ci faceva sognare anche in Europa una rinascita della sinistra, l’Oscar assegnato a Parasite, prima volta di un film non statunitense, che faceva gioire il quartiere coreano di Los Angeles. Sei mesi dopo, mentre scrivo, gli aerei si sono svuotati, gli Stati uniti sono sull’orlo di una catastrofe economica che è l’altra faccia di quella sanitaria innescata dalla gestione demenziale della pandemia, i disoccupati sono trenta milioni, Trump scende in picchiata nei sondaggi, la sua base sociale è incattivita, il conflitto razziale è esploso con l’assassinio di George Floyd, Sanders ha dovuto rinunciare alla sua corsa alla Casa bianca, rimpiazzato dal più rassicurante Biden, proprio nel momento in cui la sua battaglia per la sanità pubblica avrebbe dovuto trionfare, Hollywood è paralizzata dai protocolli anti-Covid e solo Black Lives Matter salva il corpo e l’anima, l’eredità e il progetto del secolo americano che fu.
Sul piano interno, quella che fu la più grande e gloriosa democrazia novecentesca è devastata da una crisi di identità che ne mette a rischio i valori portanti, e rischia una crisi costituzionale senza ritorno innescata dall’alto della Casa bianca. E sullo scacchiere geopolitico la promessa di make America great again si infrange su un andamento della storia che inesorabilmente pende a favore dell’egemonia cinese su ciò che del mondo globale sopravviverà al Covid.
Non è stato solo né prevalentemente il lavoro del virus: negli Stati uniti come in altre parti del mondo la pandemia ha consentito al capitalismo neoliberale di «naturalizzare» una crisi economica, sociale e culturale che ne stava erodendo dall’interno ogni premessa e ogni promessa. Ancora qualche appunto dall’ultimo viaggio, e dai penultimi: un tasso di contraddizione mai visto in una democrazia occidentale fra accumulo di ricchezza e vecchi e nuovi poveri marginali senza tetto né legge. Un mercato del lavoro saturo ma fortemente precarizzato, con gli essential workers massimamente sfruttati. La pluralità multietnica e multiculturale compromessa dalle politiche di respingimento, confinamento, discriminazione dei migranti e dall’eterno ritorno di un razzismo di sistema, più forte dopo «l’onta» della prima presidenza nera subita dai bianchi. Metropoli cariche di energia come New York ridotte, nel giro di pochissimi anni, a città-vetrina buone per la rendita immobiliare dei miliardari russi e cinesi. L’isolamento come forma di vita antisociale nei suburb della middle class agiata, spontaneamente autoconfinatasi per evitare il contagio con le masse urbane. La performance competitiva come norma esistenziale nei college, ottemperata al caro prezzo del consumo compulsivo di alcool e psicofarmaci. Eccetera.
Ferite e paranoie
Non una di queste contraddizioni è stata alleviata, e tutte sono state scientemente e programmaticamente esasperate, dalla presidenza Trump, la più divisiva che la società americana ricordi. A onta della sua retorica populista rivolta ai forgotten della globalizzazione, il tycoon ha fatto regolarmente gli interessi dei plutocrati, di Wall Street e della upper class. Ha praticato il suo sovranismo dichiarando una guerriglia a base di dazi alla Cina e all’Europa che non ha provocato effetti positivi sull’economia statunitense né effetti di correzione dell’economia globale, e una guerriglia a base di accuse non provate contro la stessa Cina e l’Organizzazione mondiale della sanità, rei di avere «infettato» il popolo americano, che non ha risparmiato alla sua amministrazione il primato per la peggiore prestazione occidentale nella gestione della pandemia: mentre scrivo siamo a più di 5 milioni di casi e circa 200 mila morti, effetto e contrappasso dell’impasto, quintessenzialmente neoliberale, di darwinismo sociale e individualismo libertarian (e no-mask). Ha presieduto un’Unione federale accentuando i contrasti fra il governo centrale e gli stati democratici, fra città e campagna, fra coste cosmopolite e multietniche e hinterland bianchi e integralisti. Ha attaccato per il proprio tornaconto gli equilibri dello stato di diritto – i famosi pesi e contrappesi di cui la democrazia a stelle e strisce è andata fiera per un paio di secoli, ma che non hanno retto all’offensiva di un outsider autocratico: e come meravigliarsene in Italia, col precedente di Berlusconi? – violando le regole e nominando giudici di parte, e si appresta a tentare di far saltare il banco delle prossime presidenziali demolendo quello che resta della fiducia nella trasparenza del rito elettorale.
Da buon populista ha evocato l’unità del popolo americano attizzando in realtà sistematicamente, di tweet in tweet, ogni focolaio di divisione e conflitto, etnico, sociale, culturale, per eleggere a «popolo» la propria parte, radicalizzandone le pulsioni più aggressive – e consentendo talvolta finanche che si armassero, come nelle milizie «spontanee» di fan del presidente, o militarizzandole istituzionalmente, come nei reparti speciali sguinzagliati contro i migranti e gli «irregolari». E da buon sovranista ha evocato la nostalgia di una sovranità perduta – degli Stati uniti sul mondo, del popolo americano sui propri destini, di ciascuno su sé stesso, sull’altra e sul diverso – innestandola sul recupero di una paccottiglia d’altri tempi, l’originaria pulsione suprematista bianca che da sempre, nella storia americana, accompagna il mito della conquista e dell’espansione a ovest come il rovescio della trama della narrativa progressista dell’accoglienza e del melting pot.
I risultati sono sotto gli occhi del mondo. Lungi dall’arrestare il declino degli Stati uniti, il programma America First l’ha accelerato, minando al contempo qualunque prospettiva di governance multilaterale del pianeta globale, e lungi dal proteggere il popolo dagli effetti della globalizzazione ne ha fomentato le paranoie e riaperto le ferite, prime di tutte la ferita del razzismo sempre ritornante, fino ad attivare l’immaginario politico della guerra civile, ipotesi periodicamente evocata in questi anni anche sui giornali mainstream. Niente meglio di «I can’t breath», il grido terminale di George Floyd gemello della sindrome da Covid e diventato non per caso lo slogan dilagante di Black Lives Matter, rende meglio il senso di soffocamento che si è sostituito all’ariosità dell’American dream.
Tutto questo, sia chiaro, non è solo opera di Trump e del trumpismo. Come in altri paesi, la stretta sovran-populista ha avuto l’effetto di portare al pettine, ingarbugliandoli ulteriormente, tutti i nodi irrisolti di quarant’anni di egemonia neoliberale: nient’affatto scalzandola, ma imprimendole una torsione disciplinare, se non autoritaria, e neoconservatrice, in una sorta di resa dei conti ultima e ultimativa che potrebbe essere, per la democrazia a stelle e strisce, senza ritorno. Il che però, essendo gli Stati uniti pur sempre il luogo di riferimento dell’immaginario politico occidentale, ci porta a fare qualche considerazione di carattere più generale: de nobis fabula narratur.
Equivoci di una vittoria
Quando Trump fu eletto nello sconcerto del mondo e dei sondaggisti, non mancarono, nella sinistra radicale Usa come in quella italiana, analisi tutto sommato rassicuranti della sua vittoria, vista come segnale inequivocabile di una crisi del e di una rivolta contro il neoliberalismo, che la sinistra non era stata in grado di intercettare e rappresentare e che trovava invece interpreti e leader a destra. A suffragare questa ipotesi, le prime analisi del voto che sottolineavano il contributo decisivo portato alla vittoria di Trump dal voto della Rust belt, la cintura delle zone deindustrializzate del Midwest, a sua volta segnale inequivocabile di un comprensibile e prevedibile «tradimento» di classe: due volte forgotten, dalla globalizzazione e dalla sinistra neoliberale che si ostinava a magnificarne le sorti, ciò che restava della classe operaia si era girata dall’altra parte, dando fiducia al populista che le prometteva confini, protezione e nuovi primati nazionali. Confortata da mappe analoghe del voto britannico che pochi mesi prima aveva deciso la Brexit con l’apporto determinante dei ceti e delle aree marginali, ma corretta dalle più accurate analisi successive che evidenziavano il sostegno decisivo venuto a Trump dai suburb della middle class agiata, questa lettura del voto americano non era priva di ancoraggi reali ma presentava alcuni limiti non poco fuorvianti.
In primo luogo, e sulla scorta di un vizio di economicismo sempre ritornante in ambito marxista, si basava sul primato della dimensione economico-sociale nei processi di soggettivazione politica, tralasciando come meramente «culturali» altri fattori – razzismo, suprematismo bianco, machismo e sessismo, revanchismo – che si erano rivelati decisivi nella «seduzione» trumpiana dell’elettorato. In secondo luogo, e di conseguenza, presupponeva un «popolo» basato su questa sorta di evidenza «strutturale» dell’economico-sociale, tralasciando di interrogarsi su quanto e come esso fosse costitutivamente attraversato e forgiato dai fattori «sovrastrutturali» di cui sopra, e dunque da linee di divisione e conflitto di razza e di genere oltreché di classe, e su che cosa questo comportasse per un discorso politico di sinistra che volesse riconquistarlo. In terzo luogo, e implicitamente, finiva col fidarsi dello stile populista di Trump (la stessa cosa è accaduta del resto in Italia con Salvini), assumendo che malgrado i suoi «eccessi» suprematisti, razzisti e veteropatriarcali fosse tutto sommato in grado di cogliere «la verità» del popolo e di esprimerne la volontà di cambiamento e protesta più e meglio di una sinistra mainstream definitivamente consegnata alla religione neoliberale, e che avesse persino qualcosa da insegnare a una sinistra radicale imperniata sulla critica del neoliberalismo e della globalizzazione.
Illusioni populiste
Quell’analisi della vittoria di Trump ha avuto infatti la sua importanza nell’alimentare e corroborare la tesi teorico-politica del «momento populista» che negli ultimi anni ha goduto di una certa fortuna nella sinistra radicale statunitense ed europea, come dimostra del resto egregiamente il numero 5 di Jacobin Italia. Nella sostanza, questa tesi si basa su due assunti. Il primo è un assunto temporale: la crisi economico-finanziaria del 2008 è vista come un evento periodizzante che provoca contemporaneamente la crisi interna del e la protesta dal basso contro il neoliberalismo. Si apre di conseguenza – secondo assunto – una nuova configurazione e dislocazione del campo politico, attorno alla contraddizione fra politiche neoliberali (di destra e di sinistra) da una parte e sollevazione popolar-populista anti-neoliberale dall’altra: quest’ultima, prevalentemente capitalizzata da formazioni e leader di destra, potrebbe e dovrebbe tuttavia essere diversamente interpretata e rappresentata da sinistra. Il «momento populista» sarebbe dunque una congiuntura caratterizzata dalla costruzione – anzi dalla ricostruzione, dopo la sua distruzione neoliberale – di un popolo antagonista rispetto al neoliberalismo, differenziato nelle sue domande e nella sua composizione sociale ma unificato dalla condivisione del conflitto basso vs alto e mobilitato dal discorso populista: il quale si colorerebbe di destra se accompagnato da una strategia nazionalista e xenofoba e da valori tradizionalisti, di sinistra se volto alla rivitalizzazione della democrazia, della rappresentanza, delle politiche di redistribuzione egualitaria e di welfare.
Le obiezioni che si possono – a e mio avviso si devono – portare a questa tesi (sistematizzata da Chantal Mouffe e ispirata a un Ernesto Laclau semplificato) sono più d’una.
La più facile è che essa mette insieme e confonde, sotto la fattispecie del populismo, movimenti di rivolta dal basso e mobilitazioni del popolo dall’alto, dimenticando che la mobilitazione dall’alto di un popolo (costruito o presupposto) a opera di un leader è una condicio sine qua non del populismo, non riscontrabile nei movimenti di contestazione autorganizzati e acefali. Una seconda obiezione è che essa, anche qualora parta da una nozione desostanzializzata e differenziata di popolo, finisce col riproporre il dispositivo classico di reductio ad unum che è costitutivo del popolo nel paradigma politico moderno, e col riattivare la classica sequenza popolo-rappresentanza-stato, che è precisamente la sequenza non da oggi in discussione in tutte le democrazie occidentali. Ma l’obiezione principale è a mio avviso un’altra, e riguarda l’analisi del neoliberalismo e del rapporto fra neoliberalismo e populismo che sottostà all’ipotesi del «momento populista» e della sua genesi temporale.
Come la migliore letteratura sulla crisi del debito ha argomentato, la tempesta economico-finanziaria del 2008 e seguenti non segna la crisi finale, ma una crisi evolutiva del neoliberalismo, che passa dalla sua prima stagione espansiva, dissipativa e libertaria basata sul dispositivo del credito e sull’etica del godimento, a una seconda stagione restrittiva, austera, securitaria, basata sul dispositivo del debito e sull’etica della colpa. D’altra parte, non è solo a quella tempesta che si deve far risalire l’epidemia populista in occidente: come il laboratorio italiano dimostra inequivocabilmente, nelle democrazie occidentali la torsione populista della politica comincia assai prima (in Italia la Lega nasce alla fine degli anni Ottanta, Berlusconi scende in campo nel ‘94) e accompagna il lungo processo neoliberale di smantellamento della democrazia costituzionale, della rappresentanza e dei soggetti politici novecenteschi. Crucialmente, dunque, l’espansione del populismo è coestensiva al neoliberalismo, non alla sua fine; è il rovescio e non lo strappo della trama neoliberale, il suo prodotto e non la sua alternativa antagonista.
È vero infatti che la crisi del 2008 intensifica ed espande l’onda populista in Europa e la porta al governo negli Usa e altrove. Ma è falso che questa onda esprima di per sé una protesta anti-neoliberale. Il soggetto che nella seconda fase del neoliberalismo si consegna al populismo chiedendo protezione, confini, sicurezza, conferme identitarie, primati di razza e di sesso, sovranità è lo stesso soggetto individualista, proprietario, accumulativo e consumista che nella prima stagione cavalcava i vantaggi della globalizzazione armato dell’etica autoimprenditoriale e del principio di prestazione: solo che sotto i colpi della crisi è diventato impaurito e insicuro, rancoroso e revanchista. Non è un soggetto che combatte contro il capitalismo neoliberale; piuttosto si ribella al rischio di diventarne, appunto, un forgotten marginale. E quel che più conta, non è un soggetto la cui condizione economico-sociale possa essere considerata a prescindere dai frames razzisti, xenofobi, suprematisti, veteropatriarcali che la incapsulano. Per la semplice ragione che questo suo, chiamiamolo così, spartito sentimentale è parte integrante del suo romanzo di formazione neoliberale, ed è il prodotto di dispositivi di soggettivazione strutturali, non accessori. Ragion per cui è del tutto illusorio pensare che questo soggetto possa essere disponibile alternativamente a un discorso politico di destra o di sinistra, a seconda dell’offerta disponibile sul mercato politico. Il punto, casomai, è modificare radicalmente questa offerta, costruendo un discorso politico in grado di decostruire quei frames, di smontare quei dispositivi e di capovolgerli in altrettante leve di presa di coscienza e ribellione.
Salto di paradigma
Questo spiega del resto, per tornare al caso statunitense, la centralità che nell’opposizione a Trump hanno avuto in questi anni i movimenti femministi e Black Lives Matter: l’uno contro il dispositivo strutturale che gerarchizza i ruoli di genere e mercifica la libertà femminile nel mercato sessuale e nel mercato del lavoro, l’altro contro il dispositivo strutturale che storicamente negli Usa razzializza i rapporti sociali riproducendo le disuguaglianze necessarie al funzionamento della macchina capitalistica. Non più dunque movimenti single issue o orientati dalla politica dell’identità, bensì coalizioni composite che sotto l’insegna dell’intersezionalità puntano precisamente al cuore dei meccanismi incrociati di dominio, sfruttamento e gerarchizzazione che reggono il funzionamento del sistema e ne riproducono la base sociale divisa e frantumata. Movimenti portatori dunque di una carica controegemonica, non a caso paragonata da più parti a quella delle lotte che negli anni Sessanta ridisegnarono la società e il sogno americani, la sola forza in campo cui sembrano essere affidati oggi l’eredità e il rilancio del nocciolo inclusivo ed espansivo della democrazia più potente del mondo.
Ma se molto è nelle loro mani, ovviamente non tutto è in loro potere. Quello che è mancato, manca e rischia di mancare nel prossimo futuro è una risposta del sistema istituzionale e politico all’altezza della sfida distruttiva lanciata da Trump. Se è vero che la sua presidenza ha portato alle estreme conseguenze tutte le contraddizioni accumulate dell’eccezionalismo americano, occorre allora chiedersi quale è il dopo-Trump che si prospetta, ammesso che le elezioni lo destituiscano e che lui si faccia destituire. I can’t breath: il mito americano non respira più. A intasarne i polmoni sono stati quattro decenni di religione neoliberale, la rivoluzione conservatrice di Reagan, le subalternità al sistema clintoniane, la saturazione a base di guerre e strette securitarie della ferita dell’11 settembre, gli ostacoli e l’eccesso di cautela che hanno depotenziato la forza simbolica del doppio mandato di Obama, il backlash suprematista trumpiano; sotto e sopra tutto questo la smodata onnipotenza di Wall Street e le ingiustizie della gig economy; e infine, a presentare il conto, il prevedibile imprevisto di un virus.
Ritrovare la fairness perduta, come recita il programma del tandem Biden-Harris, è necessario ma insufficiente, e potrebbe perfino rivelarsi impossibile dopo i guasti del trumpismo: che non è affatto riducibile a una «anomalia» – in questo i Dem sbagliano come sbagliarono i Dem italiani con il berlusconismo – essendo piuttosto un rivelatore dello stato del sistema. Tanto più dopo la prova della pandemia, ci vorrebbe precisamente quello che manca negli Usa – malgrado la cura ricostituente di Sanders, di Alexandia Ocasio-Cortez, del femminismo e di Black Lives Matter – tanto quanto in Europa: un’intelligenza riformatrice, come dopo il 1929 di là e dopo la Seconda guerra mondiale di qua dall’Atlantico, capace almeno di delineare, se non di effettuare, un salto di paradigma.
Un tempo si chiamava sinistra, un nome a cui oggi non corrisponde alcuna idea di un futuro plausibile. A destra invece la strada è già tracciata. Fatti fuori gli «eccessi» di Trump, la post-democrazia potrà finalmente cedere il passo a un disciplinamento tecnologico della società governato da un qualche leader moderatamente autoritario. Il secolo americano a quel punto sarebbe davvero sepolto, e anche la lunga odissea dell’Atlantico, black e white.
*Ida Dominijanni, filosofa femminista e giornalista, ha lavorato per il manifesto e scrive attualmente su Internazionale. È stata research fellow presso la Society for the Humanities della Cornell University. Il suo ultimo libro è Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi (Ediesse, 2014).
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