martedì 3 novembre 2020

La povertà ai tempi del Covid-19: un reportage dalla provincia di Milano

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Quale il momento migliore per la cena? Se uno è ricco, quando vuole, se uno è povero, quando può” diceva più di duemila anni fa il filosofo Diogene il Cinico. E da allora le cose non sembrano essere cambiate più di tanto. C’è però un fatto inedito: i poveri di oggi non sono quelli di ieri. O almeno non sempre. Perché ci sono mille sfumature, nella povertà: c’è chi dorme in strada e chi sotto a un tetto, c’è chi lavora e chi non lavora più, c’è chi riesce ancora a sorridere e chi, questo sorriso, lo ha perso da tempo. La povertà, oggi, sembra un concetto elastico. Per questo è complesso.

Casa, lavoro, famiglia e proprietà non sono più indice di stabilità e benessere: puoi anche ritrovarti in stato di povertà pur avendo tutto questo. E allora, in questi primi anni Venti del nuovo millennio, ai tempi del Covid, chi sono i poveri? Per formulare una risposta siamo andati alla Casa della Carità di Legnano, in provincia di Milano. Lì, da diciassette anni, chi fatica a tirare avanti può, a determinate condizioni, riempirsi lo stomaco a pranzo. Si tratta di una mensa gestita dai frati e da circa settanta volontari attivi. È uno di quei luoghi aperti tutto l’anno, sette giorni su sette, dal lunedì alla domenica: nemmeno la pandemia è riuscita a fargli abbassare le saracinesche.

E così, per una settimana, abbiamo vestito i panni del volontario, abbiamo servito i pasti agli ospiti della mensa, ci siamo intrattenuti con loro, ne abbiamo osservato i volti e i gesti. Ci siamo sforzati di capire, per quanto possibile, cosa significa la povertà oggi.

La mensa di Legnano

Tra Milano e provincia, le mense non mancano di certo. Ne esistono a decine, gestite per lo più da volontari. E ognuna di queste ha regole proprie. A Legnano, gli ospiti, possono servirsi in una fascia oraria precisa: dalle 10 alle 12. Per accedere al servizio, tuttavia, serve un requisito: un’attestazione Isee che certifichi il reale stato di marginalità economica. Una volta accertato questo, all’ospite viene rilasciata una tessera di accesso che, ogni giorno, dovrà esibire per ottenere il pasto caldo. Il sistema tessere esiste dal 2016: da allora ne sono state rilasciate quasi millequattrocento. La ragione di questo è di garantire il servizio a chi ne ha realmente bisogno. Eppure, a volte, non serve una certificazione per cogliere nei volti il dramma di una vita al margine.

E allora, chi bussa alle porte della Casa della Carità per la prima volta, viene accolto anche senza tessera. Un pasto caldo non si nega mai a nessuno. Mai. E così, da quando ha aperto nel 2003, la mensa ha distribuito ben oltre 300mila pasti. A questo si aggiunga un altro dato: dalla sua apertura ad oggi, la Casa della Carità ha registrato oltre 384mila presenze (situazione a settembre 2020).

Si tratta di pasti che vengono donati da privati, benefattori e associazioni ma anche da realtà commerciali del territorio, come i grossi supermercati. Così, ogni mattina, un furgone pieno di cibo fa il proprio ingresso nel cortile della mensa: pane, focacce, pizzette, crostate, dolciumi. Lì questo cibo viene prelevato e conservato in dispense e frigoriferi. Perché la mensa, di fatto, è sottoposta ai vincoli sanitari previsti dalla legge: i pasti devono essere ben conservati, altrimenti non vengono serviti.

Ospiti, persone, famiglie

Nel corso della nostra settimana di servizio alla mensa, abbiamo visto circa cinquanta persone al giorno bussare alla porta per ottenere un pasto caldo. Cinquanta persone al giorno. La gran parte uomini. E, a sentire i volontari più “longevi”, nei mesi precedenti al lockdown, il numero era decisamente più alto. Poi è arrivato il Covid e tanti ospiti sono letteralmente spariti dalla circolazione. Forse hanno cambiato località, o sono andati altrove, da amici o parenti. Queste le ipotesi. La realtà è che nessuno lo saprà mai. Altri, invece, sono tornati o, per dirla in altri termini, non se ne sono mai andati.

Ci sono tante storie qui – ci racconta Bruno Bosetti, responsabile della mensa -. Negli ultimi tempi, dopo aver riaperto, da noi si sono servite anche quattro famiglie con bambini a carico. Tutta gente per bene e con un’entrata economica. Peccato che questa non sia sufficiente per garantirgli il cibo. Noi, queste famiglie, le abbiamo accolte. Con il loro reddito possono permettersi un affitto e un mezzo di trasporto ma non del cibo. Questo è il problema”.

Non solo singoli individui, dunque. Ma anche interi nuclei famigliari. È questa la nuova povertà: avere tutto per non avere poi abbastanza. Così la mensa di Legnano diventa un osservatorio privilegiato per comprendere come stanno cambiando le cose nella vita della gente.

Chiunque, domani, potrà trovarsi in povertà: forse, tra questi nuovi poveri, potresti ritrovarti proprio tu che stai leggendo. Perché la povertà si è diffusa a macchia d’olio ovunque, soprattutto ai tempi di una pandemia globale. Povero, in questi primi anni Venti, è chiunque non ce la fa a costruire un futuro di stabilità e certezza. La precarietà è diventata la modalità di tante vite.

Molte persone che vedi qui – mi dice Bruno – hanno sempre lavorato. Hanno vissuto una vita a fare più lavori e lavoretti. Fino a quando hanno potuto sono andati avanti così. Oggi, però, soprattutto dopo il Covid, le cose sono cambiate”. E aggiunge, poi: “Non si tratta sempre di gente che non ha nulla. La povertà non è più solo questo. C’è anche chi ha qualcosa ma non è sufficiente per vivere. Queste persone, qui, sono sempre di più”.

Le ragioni della povertà

Gli ospiti di Legnano non sono tutti uguali. Alcuni sono nuovi, altri, invece, frequentano la mensa fin dai primi anni della sua apertura. Alcuni sono giovani, altri più anziani. C’è chi arriva da una parte di mondo, chi arriva da un’altra, chi dorme in strada e chi al caldo. Eppure, nelle loro vite, al di là delle differenze, si sono ritrovati tutti lì in quella mensa alla periferia di Legnano. “Se qualcuno è in questa situazione, non sempre è a causa della sfortuna – racconta uno dei volontari in un momento di pausa -. Alcuni, nella vita, hanno problemi con la droga o con il gioco d’azzardo oppure con l’alcol. Queste dipendenze ti portano a consumare tutto il denaro che hai in tasca. Me ne sono reso conto in tutti questi anni. Ci sono persone che non sono proprio in grado di gestire il denaro, tanto o poco che sia. Il problema povertà riguarda anche la capacità di gestire i propri soldi in modo efficace. A questo è necessario pensare. Le persone possono essere formate anche in questo”.

Povertà, una questione intima

Durante la settimana trascorsa alla Casa della Carità abbiamo incrociato lo sguardo di tante persone. Sguardi che rimandano a storie non sempre felici. Ed è lì, probabilmente, che dobbiamo cercare le ragioni profonde della povertà. Perché non avere un lavoro o una casa, oppure un reddito, porta con sé ben altri problemi. Problemi spesso più drammatici di quanto si possa pensare. Infatti: cosa accade a un uomo, quando perde tutto? Alla Casa della Carità di Legnano è possibile scoprirlo. E noi ci abbiamo provato. “Qui abbiamo tanti uomini divorziati – spiega Bruno con una nota di rammarico nella voce -. Purtroppo, spesso e sovente, a pagare il prezzo più alto in un divorzio è proprio l’uomo. Ci sono persone a cui hai servito il piatto che sono finiti in strada e hanno perso il lavoro per aver divorziato”. Perché quando divorzi puoi stare tanto male. Devi pagare ex moglie e figli e, spesso, sei costretto a lasciare casa. Non puoi però trovarne un’altra perché i soldi sono pochi e con il lavoro che svolgi non porti a casa a sufficienza. Dunque tanti si ritrovano a dormire in macchina. E questo influisce sulla qualità della vita e sulla rendita al lavoro: e alla fine, tanti, il lavoro lo perdono.

Per un uomo che lavora da parecchi anni, anche un solo anno senza occupazione è un vero e proprio dramma. “Non lavorare per un po’ e poi riprendere, può essere traumatico – continua Bruno con la sua spiegazione -. Tanti vanno in panico, nel senso che letteralmente vengono colpiti da attacchi di panico: come puoi lavorare col panico addosso? Come il lavoro lo hai trovato, il lavoro lo perdi anche subito. Stare del tempo in strada significa anche perdere il ritmo e la puntualità: non sono questioni banali ma, al contrario, molto serie. Il problema spesso non è la povertà ma il non sentirsi riconosciuti”.

Questioni che la politica, a livello nazionale, negli ultimi anni non sempre ha fatto proprie. Eppure, oggi, ignorare tutto questo è cosa complicata. Perché quello del riconoscimento è un problema che riguarda tutti indistintamente. E all’orizzonte, una grande folla di nuovi poveri sta avanzando a passo veloce: quel giorno, una mensa, non basterà più.

 a cura di Daniele Pascale

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