martedì 24 novembre 2020

Comunisti… of Course!

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Conversazione con Mauro Casadio, della Rete dei Comunisti

Nelle prossime settimane sarà pronto il secondo volume de “Una storia anomala. Dall’Organizzazione Proletaria Romana alla Rete dei Comunisti“. Il volume affronterà un arco temporale collocato dalla fine degli anni Settanta fino ai primi anni Duemila. Un decennio e più zeppo di avvenimenti che hanno profondamente mutato il volto politico, economico e l’intera società italiana ma, senza ombra di dubbio, dell’intero mondo occidentale.

In quegli anni la soggettività comunista (a cominciare dal vecchio PCI ma con riverberi politici ed organizzativi in tutte le forme organizzate dell’epoca) fu travolta dal rapido susseguirsi di quegli avvenimenti con conseguenze, a vario titolo, che arrivano fino ai giorni nostri.

A distanza di circa 30 anni da quella stagione politica – che per i cantori del capitale doveva sancire la fine della Storia – le teste d’uovo dell’informazione mainstream continuano la loro crociata, a testa bassa, contro le ragioni e la funzione dei comunisti.

In queste settimane stiamo registrando un crescendo di interviste, reportage e rievocazioni in cui l’obiettivo esplicito è, di nuovo, il funerale del Comunismo.

Evidentemente l’attuale palesarsi delle forme della crisi sistemica del capitale – a cominciare dai limiti e dai disastri derivanti dalla Pandemia Covid 19 – fa scattare un campanello di allarme circa l’urgente necessità, storica ed immediata, di un nuovo modello sociale e di una generale alternativa di sistema.

Come interpretare, altrimenti, l’osceno revival dei vari “storici” Paolo Mieli, Ezio Mauro e – senza alcune timore di vergogna – dello stesso Matteo Renzi, i quali ritornano, affanosamente, sui temi afferenti la “scissione di Livorno”, la fondazione del PCd’I e l’intera storia dei comunisti lungo il Novecentom con un intento demolitorio e, soprattutto, inibente verso una possibile nuova stagione di lotta ed organizzazione politica.

Su alcuni snodi di quel periodo storico (gli anni un poco prima ed un poco dopo l’89/’91) abbiamo incontrato Mauro Casadio con cui abbiamo intrattenuto questa conversazione che rilanciamo tra i nostri lettori e tra i compagni e gli attivisti tutti.

(Michele Franco)

Il 12 novembre del 1989 l’allora segretario del Partito Comunista Italiano, Achille Occhetto, si recò a Bologna – al rione Bolognina, nel quartiere Navile – per la commemorazione di un episodio della Resistenza (la battaglia di Porta Lame) e, ad una platea composta in gran parte da Partigiani, pronunciò un discorso in cui annunciava l’avvio di un processo politico di scioglimento del Partito e la formazione di “una nuova formazione politica di sinistra”.

Tale evento scosse, profondamente, la società italiana (e non solo) e produsse una autentica slavina che travolse quello che era “il più grande partito comunista dell’occidente capitalistico”.

Da quasi un mese era venuto giù il Muro di Berlino, la Repubblica Federale Tedesca stava avviando quella che si è rivelata poi come l’annessione della DDR; e l’Unione Sovietica, guidata da M. Gorbaciov, era ai titoli di coda.

Da compagno militante dell’allora OPR (Organizzazione Proletaria Romana) come percepiste quegli eventi e quali furono le prime (sicuramente parziali) riflessioni che elaboraste in quel complesso snodo della storia contemporanea?

Una risposta a caldo era impossibile, considerando il potente “strattonamento” a cui eravamo sottoposti. Seguivamo, convulsamente, gli eventi per capire ciò che accedeva.

Certamente la svolta di Occhetto non ci meravigliò in quanto il nostro giudizio sul PCI era consolidato da tempo, e già dalla segreteria di Berlinguer la svolta socialdemocratica era evidente. Anzi per noi era la fine di un equivoco protratto troppo a lungo, cui la “base” del PCI era “aggrappata” in quanto si diceva che “il Partito sapeva quello che faceva”, a prescidere.

Motivo questo addotto largamente, fin dagli anni ’70, per digerire tutte le svolte fatte a cominciare dalla cosiddetta strategia del “compromesso storico”.

Ovviamente discorso del tutto diverso era sul piano internazionale. Di fronte al crollo dei paesi dell’Europa dell’Est, non ci sembrava credibile anche quello dell’URSS. Il giudizio sul corso politico di Gorbaciov era per noi consolidato già dal 1988, dopo gli accordi di Reykjavik, ma il referendum che si tenne in quel paese sul mantenimento dell’URSS a Marzo del 1991 aveva dato esiti positivi e in elezioni non di apparato.

Dunque il crollo, intervenuto alla fine del 1991, fu inaspettato, come inaspettato fu il veloce tradimento esplicito di tutto il gruppo dirigente del PCUS, causa politica diretta della fine dell’esperienza sovietica.

Certamente le cause strutturali del crollo erano maturate nel tempo, ma l’esito traumatico fu il prodotto politico della deviazione del gruppo dirigente. Anche qui tale approdo non era affatto scontato, come ha dimostrato – sucessivamente – l’esperienza cubana, nonostante le difficoltà verso le quali andava quel paese ed anche la grande ed importante esperienza cinese.

All’epoca il nostro giudizio fu netto e senza mezzi termini sulle responsabilità del gruppo dirigente del PCUS, differentemente dai giudizi della gran parte del resto dei comunisti e della sinistra i quali rimasero, in gran parte, sedotti dalla “novità/Gorbaciov”.

La discussione in merito alla proposta di scioglimento del PCI mise in moto un processo ampio di riorganizzazione che si è configurato, per oltre un trentennio, come quello della “Rifondazione Comunista”.

In quel contenitore si aggiunsero, mano a mano, non solo quanti nel vecchio PCI non erano d’accordo con “la Svolta”, ma anche gran parte di quella che negli anni Ottanta, e prima ancora in quelli Settanta, si definiva come Sinistra Rivoluzionaria.

Insomma si agglutinò un partito strutturato, con una buona partecipazione operaia e proletaria e con una discreta presenza parlamentare. Questo processo di nuova organizzazione – pur sostenuto da entusiasmo e manifestazioni di orgoglio comunista – non è stato in grado di elaborare una teoria ed una pratica all’altezza dei compiti che il nuovo ciclo della fase, interna ed internazionale, necessitava.

Non è un caso che dopo alcuni anni di crescita quel processo politico si è – lentamente ma costantemente – consumato e dissolto nel tempo fino ai nostri giorni.

In quel periodo – siamo nel 1991 ormai – decideste di non aggregarvi alla Rifondazione Comunista con una decisione coraggiosa e, sicuramente, controcorrente. Puoi spiegarci i motivi di questa vostra scelta e i filoni di lavoro politico su cui, poi, vi siete concentrati e sperimentati?

Intanto va detto che la scissione non fu fatta da coloro i quali hanno dato vita al PRC, ma da Occhetto e il suo gruppo dirigente, in quanto ruppe lui con il PCI e la sua storia.

Chi ha fondato il PRC si è limitato a prendere atto di quello che era avvenuto, di reagire in modo subalterno senza alcuna analisi della drammatica trasformazione e rivendicando una continuità che non stava nella “nuova storia” che si era appena aperta.

Infatti il PCI stesso nella sua interezza aveva le sue responsabilità nell’esito determinatosi, stessa cosa non si può dire ad esempio per altri partiti comunisti come quello Greco o Portoghese, i quali hanno interpretato un percorso politico diverso dal vecchio PCI.

Inoltre noi avevamo fatto una esperienza diretta sulla pratica politica di Cossutta al tempo della rivista Interstampa, nella lotta contro l’installazione degli Euromissili in Italia ed in Europa, in cui avevamo visto direttamente il procedere di un tatticismo estremo che in realtà nascondeva una mancanza di volontà di arrivare a chiare conclusioni di rottura verso la linea del partito.

Ciò sia durante la segreteria di Berlinguer ma soprattutto nella fase successiva, dopo la sua morte nel 1984, dove gli esiti erano divenuti ormai palesi.

Questo stato di cose si è poi concretamente verificato nel corso degli anni successivi, dove si è dimostrato che – nell’azione della Rifondazione Comunista –  c’era ben poco dei caratteri del PCI “storico” dentro quella esperienza in rottura con le stesse radici del comunismo italiano. Non è stato certo un caso che il segretario/manager Bertinotti venisse dall’esperienza della “sinistra socialista”.

Sarebbe politicamente sbagliato leggere quel contesto della storia dei comunisti nel nostro paese solo con le vicende dei gruppi dirigenti. Ricordiamo che i primi anni Novanta registrarono l’implosione non solo del PCI ma – subito dopo – della cosiddetta Prima Repubblica e di tutta l’impalcatura legislativa e partitica che aveva gestito il paese dal dopoguerra fino ad allora.

Del resto sul piano internazionale la dissoluzione dell’URSS spianava un’autostrada ai cantori della Fine della Storia e agli apologeti dell’avvenuta piena globalizzazione capitalistica.

In Italia questi sconvolgimenti non interessarono – unicamente – il cielo della Politica, ma investirono la struttura economica e produttiva, scompaginarono ulteriormente le classi sociali, le regole del gioco (la Riforma Istituzionale) e prepararono le condizioni per un accelerazione della costruzione del Polo Imperialistico Europeo (da Maastricht al varo dell’Euro alla stagione dei Trattati).

Queste forti novità come furono affrontate mentre iniziava – da parte vostra – la ricostruzione teorica di un punto di vista comunista consapevole, però, di agire mentre tutta la Sinistra, compresa quella che amava definirsi radicale, volgeva altrove la sua attenzione?

Furono affrontate con “calma”, nel senso che sia gli eventi internazionali che la nascita del PRC avevano mostrato che un processo di ricostruzione non poteva avere i tempi brevi della politica, ma piuttosto quelli lunghi della Storia.

C’era bisogno di ridefinire i parametri teorici dei comunisti per avere un punto di vista generale sulle dinamiche e bisognava comprendere dove l’insieme delle riforme approntate con la nascita di fatto della Unione Europea ci avrebbero condotti. Ci siamo perciò attrezzati per un lavoro teorico e analitico di lunga lena, che prosegue ancora oggi.

Certamente questo aspetto era fondamentale, ma non bastava per tenere testa alla situazione, e verificare e mantenere in piedi una esperienza come la nostra. Per questo sul piano pratico abbiamo puntato tutto sul conflitto materiale di classe, in altre parole conflitto sociale e sindacale.

Questa condizione fu un importante punto di tenuta perché anche la nascita del PRC non poteva rappresentare la prospettiva del conflitto, essendo interna alle strutture sindacali e associative della sinistra, a cominciare dalla Cgil.

Inoltre lo spazio era anche oggettivo, in quanto i processi di ristrutturazione e di controriforma dell’intero sistema politico andavano ad incidere direttamente sulle condizioni del lavoratori e delle classi popolari, alimentando ulteriore frammentazione e disgregazione.

Ricerca e confronto teorico/politico e conflitto di classe reale sono state le due gambe sulle quali abbiamo tenuto nel tempo la barra della nostra iniziativa a tutto campo.

A distanza di circa trenta anni da tali vicende stiamo attraversando, drammaticamente, una Crisi Pandemica globale in cui si mostra, con nettezza, che il  (MPC) cozza profondamente con le naturali esigenze di vita degli uomini e della natura.

Siamo collocati in un tornante storico in cui l’alternativa a questi odiosi rapporti sociali vigenti è, oggettivamente, all’ordine del giorno. Naturalmente – per i nostri lettori – sottolineo il termine “oggettivamente”!

Come credi che in questo complicato, ed inedito, contesto i Comunisti – un’organizzazione comunista, la Rete dei Comunisti – possa svolgere una funzione di tenuta e, auspicabilmente, di avanguardia nei posti di lavoro, nei territori e nella società? Insomma è possibile essere ed agire da Comunisti oggi?

In realtà questa è una storia tutta da scrivere. Sul piano oggettivo si stanno creando le condizioni per fare emergere la necessità dell’alternativa rivoluzionaria a questo modo di produzione. Tale percorso non sarà un processo breve, in quanto siamo all’inizio della esplicitazione della crisi di egemonia; sul piano della soggettività, purtroppo, le cose stanno in modo ben diverso.

Sappiamo che la cassetta degli attrezzi marxista è in grado ancora oggi di dare le giuste letture delle dinamiche generali, cosa ben diversa è il piano politico, dove l’inadeguatezza dei comunisti in questo fine secolo si è mostrata palesemente.

Si tratta ora di entrare nella realtà concreta in cui siamo stati proiettati – sul piano nazionale ed internazionale – per capire come riconnettere i fili di un progetto politico di alternativa sociale.

Certamente ai fini di questo obiettivo è importante la politica, ma è altrettanto decisivo il radicamento dei comunisti, nelle forme storicamente oggi possibili, dentro le classi sociali subalterne per come materialmente vivono e si manifestano nella realtà del capitalismo del XXI° Secolo.

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