giovedì 22 ottobre 2020

Quanto è letale il Covid-19? “Le ultime stime si assestano attorno allo 0,6% ma le variabili da considerare sono tante”. Intervista a Timothy Russell (Londra) e Eskild Petersen (Basilea)

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 di Camilla de Fazio

Stimare il tasso di letalità del Covid-19 non è così semplice. Si tratta di un parametro che varia molto da un Paese all'altro, in base all'età della popolazione e alla presenza di comorbidità e dipende anche da come vengono calcolati i casi e i decessi. Ne abbiamo parlato con l'epidemiologo Timothy Russell della London School of Hygiene and Tropical Medicine e il Professor Eskild Petersen, dell’European Society for Clinical Microbiology and Infectious Diseases di Basilea

22 OTT - Per stabilire quanto sia grave una malattia infettiva, e quindi quali misure prendere per far fronte al problema, è necessario conoscere dei dati epidemiologici che ci sono ormai familiari, come la trasmissibilità dell’infezione o la letalità della malattia. Il tasso di letalità corrisponde al numero di decessi correlati alla patologia diviso il numero di casi totali. Un calcolo apparentemente semplice, eppure valutare il tasso di letalità del Covid-19 è tutt’altro che facile, come hanno spiegato a Quotidiano Sanità Timothy Russell, epidemiologo matematico della London School of Hygiene and Tropical Medicine e il Professor Eskild Petersen, dell’European Society for Clinical Microbiology and Infectious Diseases di Basilea.

Qual è il tasso di letalità stimato al momento per il Covid-19?
Russell: Il tasso di letalità del Covid-19 varia molto da un luogo all’altro e dipende da diversi fattori. È correlato in particolare all’età (più si è anziani più è elevato), quindi alla distribuzione demografica. Questo aspetto rende complicato perfino fare delle stime europee perché l’età media non è la stessa tra un Paese e l’altro. Comunque si calcola un range che va dallo 0,3% all’1%. Nel Regno Unito siamo intorno allo 0,9%.

Petersen: Infatti. Naturalmente India e Africa, in cui la popolazione è molto più giovane, non hanno lo stesso tasso di letalità dell’America del nord, del Giappone e di molti Paesi Europei dove la popolazione è più anziana e con più comorbidità. In Lombardia, per esempio, è stato calcolato un tasso di letalità dello 0% fino ai 40 anni e del 16,6% tra le persone di più di 80 anni.

Come è stato calcolato fin ora questo parametro e cosa si dovrebbe fare per avere stime più accurate?
Russell: Le stime dell’epidemiologia di questa patologia sono sono state calcolate in modo piuttosto accurato e molto rapidamente. A febbraio/marzo abbiamo immaginato un range, per quanto riguarda la letalità, che variava dallo 0,2 all’1%. Intorno ad aprile/maggio abbiamo potuto confrontare queste stime con gli studi clinici ed erano piuttosto coerenti. Empiricamente, il modo migliore per valutare l’epidemiologia della malattia saranno comunque i test sierologici estesi.

Inizialmente ci sono state delle sovra-stime e poi delle sotto-stime della letalità di Sars-Cov-2 e questi dati, che avete appena fornito, per quanto affidabili, non sono definitivi. Perché è così difficile calcolare il tasso di letalità del Covid-19?
Russell: Calcolare il tasso di letalità per il Covid-19 è complesso per diverse ragioni. Prima di tutto molti soggetti sono asintomatici, quindi il numero di infetti vero è molto più elevato del numero di casi confermati. Bisogna poi tener conto del fatto che l’epidemia è in corso, quindi non si misura esattamente il numero di morti rispetto agli infetti, perché i morti di oggi si sono infettati nel corso delle settimane e dei mesi passati e non si conosce l’esito delle infezioni attuali. Quindi per effettuare questo calcolo occorrono dei modelli statistici, delle distribuzioni che fanno una stima del tempo che intercorre tra l’infezione e il decesso.

Petersen: C’è anche una quota d’incertezza dovuta a come ogni Paese valuta il numero di casi. Le prime stime cinesi sul tasso di letalità erano molto alte probabilmente perché il numero dei casi era sotto-stimato. Ci sono Paesi in cui vengono effettuati screening estesi, altri in cui questo non avviene e magari vengono considerati come infetti solo i pazienti ospedalizzati.

All’inizio del mese di ottobre Mike Ryan, direttore esecutivo del Programma per le emergenze sanitarie dell'Organizzazione mondiale della sanità, ha affermato che, secondo le stime dell’Oms,  il virus potrebbe aver infettato, in questi mesi, il 10% della popolazione mondiale, ovvero 780milioni di persone. Se si rapporta questa stima al numero dei morti sinora registrato (circa 1,1 milioni) il tasso di letalità mondiale medio si assesterebbe sullo 0,14%. È possibile?
Russell: In generale, le stime dell’Oms sono ragionevoli. Ma il tasso di letalità che emergerebbe dal calcolo mi sembra troppo basso. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che potrebbero esserci state delle difficoltà nella valutazione del numero dei decessi al livello globale, in particolare in America del Sud e in Africa, in generale in quei Paesi che vengono definiti a medio e basso reddito. Sono usciti di recente degli articoli che suggeriscono che molti decessi associati al Covid-19, in alcuni Paesi (ad esempio in Siria) non sono stati segnalati nei rapporti ufficiali. Credo che se si prendesse in considerazione anche questo aspetto, dall’1,1 milioni di morti, si potrebbe passare ad un numero abbastanza più alto, forse si arriverebbe ad 1,6-1,7 milioni. In ogni caso ritengo che lo 0,14% sia davvero un tasso troppo basso e che dovremmo aspettarci un tasso di letalità di 0,6% circa se si considera tutto il mondo.

Quindi, comunque, nonostante il fatto che i casi reali sono molti di più di quelli confermati, non c’è paragone tra Covid-19 e influenza..
Russell: No, non c’è paragone. Certo, l’impatto dell’influenza varia molto da un anno all’altro e a volte può essere molto grave, basta ricordare cosa ha fatto la Spagnola. La letalità annuale comunque è dello 0,1%, mentre per il Covid-19, come dicevamo, siamo intorno allo 0,6%. C'è poi un'altra importante differenza: in entrambi i casi la gravità e la mortalità dell'infezione è legata alla presenza di comorbidità precedenti, il Covid-19 però provoca effetti a lungo termine anche nelle persone che prima erano sane, come danni polmonari, ictus e insufficienza renale.

Petersen: La gravità delle due patologie è molto diversa. In un articolo che abbiamo pubblicato di recente sulla rivista The Lancet confrontiamo i dati dell’influenza del 2009 con la mortalità del Covid-19 in Lombardia. Ne emerge che il Covid-19 in quella realtà è stato 100 volte più mortale. Quindi, almeno in una popolazione in cui l’età media è elevata, si tratta di una patologia molto più severa dell’influenza stagionale.

Ci aspetta un lungo inverno. Sulla base di queste riflessioni e di questi dati, quale credete dovranno essere le misure da adottare per limitare i contagi?
Petersen: Le stime dell’Oms vogliono dire che dopo 10 mesi il 90% della popolazione mondiale continua a non avere nessuna immunità contro questo virus: l’unica via d’uscita resta il vaccino. Nel frattempo bisogna continuare a fare ciò che siamo facendo: mascherine, distanze, evitare situazioni di aggregazione, tamponi, tracciamento dei contatti.

Russell: Abbiamo capito quali misure funzionano e quali no, ed è importante continuare con i test e il contact tracing. È difficile dire cosa sarebbe giusto fare e ovviamente, anche in questo caso, bisognerebbe fare delle valutazioni che variano da un Paese all’altro.
 
Nella foto: Timothy Russell a sinistra, Eskild Petersen a destra
 
Camilla de Fazio

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