(Questo post è a cura di Andrea Muratore, laureato magistrale in Economia alla Statale di Milano, e Alessandro Bonetti, laureando triennale in Economia alla Bocconi).
Nei mesi scorsi, commentando l’ipotesi di un massiccio aumento del debito pubblico in seguito alla risposta politica al Covid-19, l’economista di scuola (neo)liberista Alberto Mingardi ha pubblicato su Huffpost una dura analisi sulla presunta “riesumazione ipocrita di Keynes” nell’attuale frangente storico e politico da parte di “politici col gusto del debito”. Questi politici avrebbero frenato così il meccanismo di mercato, mentre le conseguenze economiche della pandemia si manifestavano.
Per Mingardi Keynes significa spesa pubblica e spesa pubblica significa debito. “Il guaio dei debiti è che a un certo punto si debbono ripagare”, ha commentato Mingardi. Ma, come diceva David Graeber, questa non è un’affermazione economica: è un’affermazione morale. Ragionando rigorosamente, un prestatore deve accettare un certo grado di rischio. Se tutti i prestiti venissero ripagati sempre, i risultati sarebbero disastrosi. Quale ragione avrebbe un prestatore per non fare un prestito stupido?
Per pensarla così, non serve essere teorici del potere taumaturgico della moneta e della cascata di soldi infiniti come panacea anticrisi.
E poi siamo così sicuri che l’equazione tra politiche keynesiane e debito pubblico sia biunivoca? O forse anche il neoliberismo si è rivelato un produttore sistemico di debiti a ogni livello?
Se il keynesismo si misurasse esclusivamente col livello di debito pubblico creato da uno Stato, la palma di keynesiano più incosciente andrebbe a uno dei padri della rivoluzione neoliberista, Ronald Reagan, durante la cui presidenza di otto anni (1981-1989) il debito pubblico degli Stati Uniti esplose, toccando la quota di 2.850 miliardi di dollari alla fine del secondo mandato (era pari a 907 miliardi nel dicembre 1980) per i deficit aperti dalla corsa agli armamenti e dalle riforme fiscali permissive.
Lo stesso vale per il primo Stato neoliberista della storia, il Cile della dittatura di Augusto Pinochet che gli economisti-taumaturghi della scuola di Chicago, i cui ultimi esponenti sono oggi a fianco di Jair Bolsonaro in Brasile, si riproponevano di salvare dal presunto inferno socialista dell’era Allende. Nel 1982, dopo anni di riforme sociali, tagli alla spesa pubblica e politiche volte a favorire i redditi superiori, ricorda Naomi Klein in Shock Economy “l’economia cilena crollò: il debito esplose, il Paese ripiombò nell’iperinflazione e la disoccupazione salì al 30 per cento, dieci volte più alta che ai tempi di Allende […] L’unica cosa che impedì il collasso economico completo del Cile nei primi anni Ottanta fu il fatto che Pinochet non privatizzò mai la Codelco, la compagnia mineraria del rame nazionalizzata da Allende”.
E vogliamo parlare delle centinaia di miliardi di dollari bruciati in tutto il mondo per ovviare alla crisi bancaria del 2007-2008, alimentata dal mito neoliberista della deregulation e del primato assoluto delle logiche di mercato? Degli effetti sulla spesa pubblica per assistenza sanitaria, servizi sociali, buoni pasto, sussidi di disoccupazione e misure anti-povertà di vario tipo imposta in tutto il mondo come conseguenza delle politiche neoliberiste?
È sicuramente vero che sotto il profilo dell’efficienza economica (ammesso che questa sia un parametro assoluto) le politiche keynesiane di ampliamento della spesa pubblica nelle principali economie occidentali durante i “Trenta Gloriosi” del secondo dopoguerra portarono a situazioni problematiche come la stagflazione. Ma è anche vero che su queste politiche economiche fu costruita, in tutta Europa, la rinascita di un continente uscito distrutto dalla guerra; furono edificati la pace sociale, i servizi sanitari nazionali, l’educazione pubblica, gli Stati-strateghi che in Italia e Francia crearono occupazione, sviluppo tecnologico e benessere.
Fu insomma costruito un grande progetto politico che ha garantito il mantenimento delle economie europee tra le prime della Terra. Obiettivi molto diversi dalla sistematica produzione di disuguaglianze dell’era neoliberista, non a caso l’epoca storica in cui il “socialismo per i ricchi” e la produzione di debito pubblico si sono accentuati. Creando incresciose situazioni in cui vincitori assoluti sono stati i percettori dei redditi più alti. A testimonianza del fatto che Lord Keynes aveva ragione sulla necessità di governare i mercati: agli spiriti animali preferiamo la fallibile, ma ben più affidabile, ragione umana.
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