Le scoperte di giacimenti di gas nel Mediterraneo orientale 10 anni fa hanno cambiato la geografia politica dei Paesi che si affacciano sulla sponda orientale di ciò che fu il Mare Nostrum.
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Tali esplorazioni hanno dato vita sia a nuove forme di cooperazione che a nuovi conflitti.
Tali conflitti si sono innestati su mai sopite rivalità come l’ostilità greco-turca su Cipro o sullo scontro rispetto alla pretesa sovranità di superficie marina di cui dovrebbero godere le rispettive Zone Economiche Esclusive.
Come afferma Thierry Bros, professore associato di Sciences Po: “quando non siamo d’accordo su un confine terrestre, i confini marittimi sono ancora più complicati”, tra i due diritti equivalenti infatti decide la forza, talvolta l’astuzia.
I costi dello sfruttamento dei giacimenti di gas e l’abbassamento del prezzo degli idro-carburi non hanno certo sopito le rivalità ,alla cui base risiede la possibilità per i vari Stati coinvolti di godere di una risorsa strategica per la propria autonomia energetica – in soldoni dipendere meno dagli altri Paesi in particolare dall’OPEC e gli USA – e divenire veri e propri HUB rivendendo il surplus estratto.
È certo che gli alti costi, il prezzo basso e l’instabilità politica non costituiscono, in questo momento, un incentivo agli investimenti, come sembra dimostrare la parabola dell’ambizioso progetto di pipe-line East Med.
Non è un solo un conflitto tra Stati, ma una competizione tra differenti compagnie o la possibilità di configurare nuove alleanze, in cui l’Italia è direttamente coinvolta, considerato il ruolo svolto dall’ENI.
Un gioco politico che può tendere anche alla “somma zero”, vantaggiosa se si riesce ad impedire al proprio avversario – come ha cercato di fare la Turchia con Cipro – di godere di una risorsa su una fascia di mare contestata. E se si considera la porzione di mare rivendicata direttamente dalla Turchia e dalla parte settentrionale di Cipro “occupata” dal 1974 da Ankara – e solo da lei riconosciuta – ci si rende contro che, tranne uno piccolo e poco significativo spicchio di mare a sud, questo spazio circonda praticamente tutta l’isola, un’altra zona “contestata” è quella dello specchio di mare tra Libano ed Israele.
Questo conflitto si è esteso poi più ad Occidente con le mire turche sulla Libia ed ha assunto toni molto accesi quest’estate, mobilitando le marine militari coinvolte in questa contesa tra cui quella turca, greca e francese: uno scontro inedito, tenuto conto che si tratta di tre Paesi afferenti alla stessa alleanza militare, la NATO, che non sembra più rivestire il ruolo di camera di compensazione tra questi frizioni.
La scommessa turca sulla Libia si basava su uno scambio che ha proprio nel controllo dei mari e nell’aggiramento dell’isolamento la sua ratio: “In cambio del sostegno militare dato al Governo di Accordo Nazionale (GAN) a Tripoli contro le forze del maresciallo Haftar, il presidente Erdogan ha ottenuto dal suo alleato libico una ridefinizione delle zone di condivisione nel Mediterraneo. Firmato il 27 novembre 2019, l’accordo marittimo estende le acque territoriali della Turchia alle zone ricche di giacimenti di gas, a scapito di Cipro, della Grecia e delle sue isole, che le rivendicano anch’esse, danneggiando così i grandi progetti energetici della regione – anche se il suo valore legale è nullo in assenza di ratifica da parte del Parlamento libico”, affermano giustamente Imbert, Jégo, Sallon e Wakim.
Last but not least, ha avuto ripercussioni sulla politica estera della UE, in generale, tenendo conto che proprio Cipro – membro dell’Unione Europea – si è pronunciata contro le annunciate sanzioni contro la Bielorussia fino a che Bruxelles non prenderà prima lo stesso tipo di provvedimenti contro la Turchia; cosa assai difficile, considerato che Ankara è un partner fondamentale della NATO ed è pronta ad usare il ricatto dei profughi siriani presenti nel proprio territorio – bloccati dentro i propri confini – ed è per questo lautamente ripagata dall’Unione.
Come affermano gli autori dell’inchiesta di «Le Monde» che abbiamo qui tradotto: “Se il confronto è nato dal gas, si è spostato rapidamente sul terreno geopolitico”, ri-bilanciando le relazioni tra Stati con strappi alternati a disponibilità al dialogo, come ha dimostrato proprio la Turchia che prima sembrava voler far precipitare gli eventi e poi ha riaperto – nella seconda metà di settembre – una corsia diplomatica con la Grecia, spostando nuovamente l’asse del suo protagonismo nella riapertura del conflitto armeno-azero
In questo quadro, è chiaro che la “proiezione di potenza” dei singoli Stati è anche una questione di politica interna ad ognuno di essi; un modo per recuperare o consolidare il proprio consenso nell’opinione pubblica o procacciarsi l’appoggio delle forze ultra-nazionaliste, un’utile ginnastica sciovinista per i venti di guerra che si profilano all’orizzonte.
L’impasse nello scontro tra vari attori geo-politici non è stasi, ma assomiglia più al cupo rumore di ingranaggi meccanici sul punto di rompersi.
La fine dell’egemonia statunitense sta portando all’affermazione di un quadro frammentato dove più protagonisti, sganciati da una configurazione di rapporti stabili che li agglutini, persegue i propri interessi e tesse le proprie relazioni “a geometria variabile”: Egitto ed Israele ne sono un esempio, rispetto alla questione delle risorse energetiche.
Ed è la modalità di cooperazione tra questi due Paesi – allargata alla Giordania – che è servita come base per un ulteriore normalizzazione dei rapporti tra l’entità sionista ed i paesi arabi.
La diplomazia del gas sarà senz’altro un volano per questa strategia israeliana, come affermano giustamente gli autori: “Israele intende ora spingere il suo vantaggio diplomatico attraverso gli storici accordi di normalizzazione conclusi il 15 settembre a Washington con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein. Aspettandosi un effetto domino tra le monarchie del Golfo, Israele può sperare di utilizzare, ancora una volta, il gas come ponte verso la penisola arabica.”
Spesso nella complicata fenomenologia degli avvenimenti geo-politici si rischia di perdere di vista la sostanza che li fa muovere: il controllo delle risorse strategiche e la loro valorizzazione.
Come diceva un tale “l’età della pietra non è finita perché si sono esaurite le pietre”.
Buona Lettura
*****La fine dell’egemonia statunitense sta portando all’affermazione di un quadro frammentato dove più protagonisti, sganciati da una configurazione di rapporti stabili che li agglutini, persegue i propri interessi e tesse le proprie relazioni “a geometria variabile”: Egitto ed Israele ne sono un esempio, rispetto alla questione delle risorse energetiche.
Le scoperte di giacimenti dal 2009 hanno acuito le tensioni tra Cipro, Grecia e Turchia, che quest’estate sono state molto elevate. Tuttavia, lo sfruttamento degli idrocarburi ha anche innescato una discreta cooperazione tra Egitto e Israele.
Prendete un posto lacerato dalle tensioni militari, aggiungete un forte odore di gas e la situazione rischia di aggravarsi. A volte il pragmatismo può anche prevalere sui vecchi antagonismi. In ogni caso, la presenza di idrocarburi rischia di ribaltare la situazione… Le scoperte di giacimenti di gas nel Mediterraneo orientale dal 2009 potrebbero essere state una benedizione per questo tormentato bacino. Le riserve stimate non sono paragonabili a quelle della ricca Norvegia?
“Queste scoperte hanno il potenziale per cambiare la storia”, ha scritto l’ex segretario alla Difesa tedesco Friedbert Pflüger, allora direttore del Centro europeo per l’energia e la sicurezza delle risorse (Eucers) del King’s College di Londra, nel 2013. “Potrebbero portare prosperità a Israele, Cipro e alla Turchia, o far sprofondare la regione, già afflitta dal conflitto turco-cipriota e dalla guerra in Siria, in una crisi ancora più profonda.“
Lo sviluppo della tecnologia di perforazione in acque profonde e ultra-profonde, unito alla tenacia di una manciata di compagnie petrolifere e del gas, ha permesso di raggiungere queste aree finora inesplorate. Tuttavia, l’effettivo – e molto costoso – sfruttamento di questi giacimenti dipenderà soprattutto dall’instaurarsi di delicati equilibri geopolitici in quest’area che si estende da Cipro all’Egitto, passando per il Libano, Israele e i territori palestinesi.
Il Mediterraneo orientale, un mare di gas
I giacimenti scoperti dal 2009 in un’area in cui i confini non erano stati ancora chiaramente delineati, stanno rimescolando le carte delle alleanze e riaccendendo fortissime tensioni geopolitiche in questa parte del Mediterraneo.
È il nome della dea greca dell’amore che è stata scelta per dare il nome al giacimento di gas naturale scoperto nel sud di Cipro nel 2011 dal gruppo petrolifero texano Noble Energy. Dopo “Afrodite” è arrivata l’irresistibile ninfa “Calypso”, il nome dato ad un altro blocco esplorativo realizzato dal gruppo italiano ENI, con il supporto di Total e della ExxonMobil americana.
Questi campi possono essere promettenti, ma il loro sfruttamento massiccio non sta per iniziare da questa isola divisa, dall’invasione turca del 1974, tra un’entità meridionale, membro dell’Unione Europea (UE), e un’entità settentrionale riconosciuta solo dalla Turchia. Gli ottimisti – e le compagnie petrolifere – avevano sperato che le prospettive di arricchimento avrebbero incoraggiato entrambe le parti a raggiungere un accordo, dopo il fallimento dell’ultimo referendum sulla riunificazione dell’isola nel 2004.
“La Turchia non ha trovato riserve significative nelle sue acque. Quindi sta cercando di estendere la sua ZEE, nella speranza di trovare idrocarburi, e di mantenere la sua influenza regionale”. Alessandro Bacci, consulente della IHS Markit
Tuttavia, è accaduto il contrario, e le tensioni tra Nicosia e Ankara sono aumentate notevolmente, con Ankara che ha costantemente intensificato i suoi sforzi per impedire a Cipro di sfruttare queste risorse. Nel 2018 la marina turca ha bloccato una nave da esplorazione italiana. L’anno successivo, la Turchia ha annunciato l’intenzione di esplorare al largo dell’isola, con la disapprovazione dell’Unione Europea e degli Stati Uniti.
L’esempio più recente, il 10 agosto, ha portato la regione sull’orlo del collasso: una nave da esplorazione sismica turca, la Oruç-Reis, è stata inviata da Ankara sotto scorta militare per esplorare le acque della zona economica esclusiva della Grecia (ZEE) al largo dell’isola di Kastellorizo. Atene ha risposto mettendo in allerta il suo esercito e la sua marina.
La Francia si è immediatamente posizionata a favore della Grecia e di Cipro, dispiegando le sue navi da guerra e i suoi aerei da combattimento nel Mediterraneo orientale. Dopo questa estate molto tesa, Atene e Ankara hanno finalmente annunciato, martedì 22 settembre, una timida ripresa del dialogo sulle loro controversie marittime.
La Grecia sostiene che ciascuna delle sue isole, per quanto piccola, ha una propria piattaforma continentale (cioè una propria zona economica esclusiva), in conformità con la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, che ha firmato nel 1982 – a differenza della Turchia. Ankara, dal canto suo, ritiene che la piattaforma continentale di un paese debba essere misurata in proporzione alla lunghezza del suo lungomare. La posizione di alcune isole greche annidate nella costa turca, a volte a pochi chilometri dalle sue coste, rende questo conflitto marittimo quasi inestricabile.
In ogni caso, i giacimenti di gas non sono stati scoperti vicino alla Turchia, ma molto più a sud, al largo della costa di Cipro. “Ankara è rimasta indietro nella battaglia del gas”, dice Alessandro Bacci, consulente di IHS Markit, una delle più grandi società di consulenza al mondo nel settore del petrolio e del gas. “La Turchia non ha trovato riserve significative nelle sue acque. Quindi sta cercando di estendere la sua ZEE, nella speranza di trovare idrocarburi, e di mantenere la sua influenza regionale. “
Le intenzioni espansionistiche di Erdogan
La Turchia aveva, almeno prima del tentativo di colpo di stato del 2016 – e della repressione che ne è seguita – tutte le carte in regola per diventare uno dei principali attori del gas nella regione, centralizzando la produzione del bacino e mantenendo relazioni diplomatiche con i suoi vicini. Membro della NATO, il Paese ha mantenuto a lungo accordi di cooperazione con Israele e si è avvicinato all’Egitto dopo la caduta del presidente Hosni Mubarak nel 2011.
Ma la radicalizzazione del regime di Recep Tayyip Erdogan e le difficoltà economiche del Paese hanno minato il suo ruolo centrale nella regione. “L’atteggiamento del presidente Erdogan può essere spiegato da questioni di politica regionale, ma anche dalla politica interna della Turchia, in un momento in cui la situazione politica è difficile per lui”, osserva Francis Perrin, direttore della ricerca dell’IRIS e specialista in idrocarburi. Il presidente turco usa spesso la questione cipriota – così come il conflitto curdo – per lusingare l’elettorato nazionalista e il Partito d’azione nazionalista di estrema destra (MHP), che sostiene il governo.
Una strategia che risveglia anche i voli di fantasia nazionalisti del primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis.
Se il confronto è nato dal gas, si è spostato rapidamente sul terreno geopolitico. Erdogan non nasconde più le sue ambizioni nel Mediterraneo, convinto che il suo Paese “è abbastanza forte politicamente, economicamente e militarmente per strappare mappe e documenti immorali”, come ha martellato dall’inizio di settembre. La messa in discussione del Trattato di Losanna del 1923, che definisce i confini attuali della Turchia, è diventata la nuova moda del governo islamico-conservatore.
L’altro concetto in voga è la dottrina militare nota come “Patria Blu”, che prevede un’estesa sovranità turca su una vasta area marittima che comprende il Mar Nero, il Mar Egeo e il Mediterraneo orientale. Secondo questa tesi espansionistica, la Grecia è considerata un “paese occupante” nelle isole del Dodecaneso, così come in altre due isole del Mediterraneo.
Le rivendicazioni turche non si limitano più alla condivisione delle risorse, ma includono ora lo status delle isole greche, la loro smilitarizzazione e la divisione della piattaforma continentale. “Chi sfrutterà il gas cipriota in un contesto simile?” chiede Thierry Bros, professore associato di Sciences Po, che sottolinea che “quando non siamo d’accordo su un confine terrestre, i confini marittimi sono ancora più complicati”.
Ora Cipro e la Turchia avranno bisogno di compagnie petrolifere e del gas pronte a investire diversi miliardi di dollari per costruire le infrastrutture necessarie. Il clima attuale è molto sfavorevole: quasi tutti gli operatori del settore hanno congelato i loro progetti a causa della crisi sanitaria legata all’epidemia di Covid-19, e l’escalation tra Turchia e Grecia è sufficiente a raffreddare l’ardore degli investitori.
Più in generale, le relazioni di Ankara con quasi tutti i suoi vicini sono peggiorate. Infine, il mercato mondiale del gas altamente competitivo non ha bisogno di capacità di produzione supplementare nell’immediato futuro.
EastMed, l’oleodotto della discordia
Per Nicosia, che da tempo sperava di poter raccogliere i frutti del gas di Afrodite e Calypso, la situazione è altrettanto complessa. Secondo la ditta specializzata Wood Mackenzie, Cipro non sarà in grado di esportare gas fino al – nella migliore delle ipotesi – 2027. A tal fine, l’isola deve trovare il modo di inviare il suo gas in Egitto o in Europa. Anche in questo caso, Ankara può svolgere un ruolo decisivo nell’arresto dei progetti di gasdotti. Il più avanzato di questi si chiama EastMed.
Il futuro tracciato di questo gasdotto, promosso da Grecia, Cipro e Israele, si sovrappone alle aree rivendicate da Ankara. Questo tubo lungo 1.900 km non vedrà probabilmente la luce del giorno: in primo luogo perché l’Europa non ha carenza di fonti di approvvigionamento di gas e, soprattutto, perché il suo consumo complessivo è in calo.
Inoltre, nel dicembre 2019 l’UE si è impegnata a raggiungere la “neutralità climatica” entro il 2050, il che implica una riduzione ancora più drastica. Pertanto, da un punto di vista economico, l’utilità di un tale gasdotto è più che discutibile.
“La Turchia ha perso un’occasione d’oro. Il modo più ovvio per portare il gas da Cipro, dal Libano o da Israele in Europa è attraverso i suoi terminali, osserva Oded Eran, ex ambasciatore israeliano in Giordania e ricercatore presso l’Istituto per gli studi sulla sicurezza nazionale di Tel Aviv. Un tale percorso avrebbe fornito una forma di assicurazione politica tra vicini. L’alternativa di cui si discute oggi – il progetto del gasdotto verso la Grecia o l’Italia attraverso terreni difficili – potrebbe non vedere mai la luce.“
Nel gennaio 2019, i Paesi della regione hanno creato il Forum del gas del Mediterraneo orientale, che mira a gestire il futuro mercato del gas – una coalizione che comprende Cipro, Grecia, Israele, Egitto, Italia, Giordania e Palestina. La Francia ha fatto domanda di adesione un anno dopo. Manca un solo grande Paese: la Turchia, che denuncia uno strumento volto a minacciare i suoi interessi.
Nel tentativo di rompere il suo isolamento, Ankara ha scommesso sulla Libia, dall’altra parte del Mediterraneo. In cambio del sostegno militare dato al Governo di Accordo Nazionale (GAN) a Tripoli contro le forze del maresciallo Haftar, il presidente Erdogan ha ottenuto dal suo alleato libico una ridefinizione delle zone di condivisione nel Mediterraneo.
Firmato il 27 novembre 2019, l’accordo marittimo estende le acque territoriali della Turchia alle zone ricche di giacimenti di gas, a scapito di Cipro, della Grecia e delle sue isole, che le rivendicano anch’esse, danneggiando così i grandi progetti energetici della regione – anche se il suo valore legale è nullo in assenza di ratifica da parte del Parlamento libico.
Israele apre le porte
Se la questione del gas ha portato a un inasprimento delle relazioni greco-turche, è invece diventata una leva inaspettata per la cooperazione tra Egitto e Israele. I due Paesi hanno raggiunto un sorprendente accordo sulla fornitura di gas nel 2018 e la loro discreta alleanza in questo settore non fa che rafforzarsi – come dimostra la loro partecipazione congiunta al Forum regionale del gas. Fu in acque israeliane che furono fatte le prime scoperte, sempre con depositi dai nomi evocativi.
Il più importante, il Leviatano, è stato scoperto nel 2010 ed è entrato in funzione nel 2019, consentendo allo Stato ebraico di limitare la sua dipendenza. Queste risorse forniscono ora i due terzi della produzione locale di energia elettrica.
Israele, invece, ha perso tempo nello sviluppo delle sue strutture. Mentre le scoperte di depositi si sono moltiplicate altrove e il prezzo del gas è crollato, abbiamo dovuto affrontare i fatti: è improbabile che le entrate del Leviatano costituiscano un fondo sovrano sostanziale per le generazioni future. Il modello norvegese si sta allontanando…
“Non importa cosa fanno gli egiziani con il gas in eccesso proveniente da Israele. Entrambi gli Stati sono interessati a questa cooperazione”. Oded Eran, ex ambasciatore israeliano in Giordania.
In mancanza di qualcosa di meglio, però, il Paese ha potuto utilizzare il suo gas per dare, a partire dal 2013, un minimo di sostanza alla “pace fredda” che ha mantenuto con i due vicini più prossimi, Egitto e Giordania, dalla firma dei trattati del 1979 e del 1994. All’inizio del 2020, Israele ha aperto per la prima volta a questi due paesi le cateratte del grande campo del Leviatano, che alla fine dovrebbero ricevere l’85% della produzione – il piccolo e vecchio campo Tamar è attualmente sufficiente per il consumo israeliano.
Nonostante l’opposizione in Giordania alla prospettiva di un tale accordo e un voto di sfiducia a gennaio, la compagnia elettrica nazionale del regno hascemita ha mantenuto il suo impegno ad acquistare 10 miliardi di dollari (8,5 miliardi di euro) di gas israeliano per dieci anni dalla Noble Energy del Texas. Ma questo contratto, limitato in termini di volume di gas, non è in grado di finanziare la continuazione delle esplorazioni israeliane.
Egitto in pole position
Per quanto riguarda l’Egitto, non ha bisogno del gas israeliano per il suo consumo interno, ma ha le strutture necessarie per liquefarlo e riesportarlo – grazie a costose fabbriche, che Israele non è stato in grado di installare. “Non importa cosa fanno gli egiziani con il gas in eccesso. Considerando le quantità, è una goccia nel mare. Ma entrambi gli Stati sono interessati a questa cooperazione”, osserva l’ex ambasciatore giordano Oded Eran.
Dal 2019, la partecipazione, accanto a Israele, dei suoi vicini giordani ed egiziani al Forum del gas del Mediterraneo orientale ha rafforzato questa logica di riavvicinamento.
Al Cairo, l’accordo firmato con Tel Aviv è tutt’altro che unanime. Ma sotto il regno del maresciallo Sissi, la strada egiziana, molto contraria alla normalizzazione dei rapporti con il suo vicino israeliano, non aveva voce in capitolo. Mentre il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu aveva accolto con favore un “accordo storico”, le autorità egiziane hanno fatto tutto il possibile per minimizzarne l’importanza, presentandolo come un semplice accordo tra aziende del settore privato.
Certo, gli scambi di gas tra Egitto e Israele non sono una novità. Il Cairo ha da tempo esportato gas a Tel Aviv, anche in periodi di grande tensione tra i due Paesi. La caduta del presidente Hosni Mubarak durante le gigantesche proteste del 2011 e l’ascesa al potere qualche mese dopo di Mohamed Morsi, membro dei Fratelli Musulmani, hanno messo fine a questa politica. F
ino alla scoperta di un nuovo deposito nel Mediterraneo, nell’agosto 2015, da parte del gruppo italiano ENI, la situazione è cambiata ancora una volta. Con 850 miliardi di metri cubi annunciati, il blocco Zhor sarebbe la vena più importante della regione.
Il suo sfruttamento, a partire dal 2017, ha aperto opportunità inaspettate per l’Egitto. “E’ un caso unico nel mercato del gas. In circa dieci anni, il Paese è passato da esportatore netto a importatore netto e poi di nuovo a esportatore netto”, dice Francis Perrin di Iris. Il campo da solo rappresenta oggi circa il 40% della produzione di gas dell’Egitto.
Secondo le stime dell’IHS Markit, l’Egitto dovrebbe avere un’eccedenza di gas fino al 2024-2025, che gli consentirebbe di esportare attraverso i suoi terminali di gas naturale liquefatto (GNL) a Damietta e Idku.
Ognuno spinge i propri vantaggi
L’accordo con Israele permette di rafforzare questa logica di esportazione e pone l’Egitto nel ruolo di hub per l’esportazione dai suoi terminali. Il trasporto del gas via nave è più costoso di quello via gasdotto, ma è anche più flessibile, in grado di raggiungere qualsiasi punto del globo. In un momento in cui questo mercato è altamente volatile, ciò potrebbe consentire al Cairo di aumentare le sue esportazioni se il prezzo del gas dovesse aumentare.
Anche i caciques del regime hanno un vantaggio: secondo un sondaggio del quotidiano online Mada Masr, il principale quotidiano indipendente del Paese, i principali azionisti della società privata egiziana East Gas, che ha firmato l’accordo con Israele, non sono altro che i servizi segreti generali.
Israele intende ora spingere il suo vantaggio diplomatico attraverso gli storici accordi di normalizzazione conclusi il 15 settembre a Washington con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein. Aspettandosi un effetto domino tra le monarchie del Golfo, Israele può sperare di utilizzare, ancora una volta, il gas come ponte verso la penisola arabica. Il gigante del porto di Emirati DP World ha già contattato una compagnia israeliana per studiare l’interesse di un collegamento tra il porto di Jebel Ali e quello di Eilat, in Israele.
Quest’ultimo fu il punto di partenza di un oleodotto, usato prima della rivoluzione islamica iraniana del 1979, per trasportare il petrolio iraniano ad Ashkelon, a sud di Tel Aviv, bypassando il canale di Suez. Ora potrebbe fornire un ulteriore percorso verso il confine tra Egitto e Israele.
Tuttavia, questi progetti sul gas, come le strategie degli Stati interessati, trascurano la grande sfida dei prossimi decenni, ovvero la questione del riscaldamento globale. Lo sfruttamento massiccio delle risorse di gas nel Mediterraneo orientale è incompatibile con la traiettoria dell’accordo di Parigi del 2015, che mira a contenere l’aumento della temperatura globale al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali. Un accordo presumibilmente vincolante, ma firmato da tutti i paesi membri del Forum del gas…
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