giovedì 21 maggio 2020

Uno splendido cinquantenne.

Il 20 maggio del 1970, dopo il biennio di lotte di classe precedenti, venne approvato lo Statuto dei diritti dei lavoratori, dando tardiva attuazione alla nostra Costituzione fondata sul lavoro. Nonostante gli attacchi subiti oggi mostra tutta la sua vitalità.

– Noodles, che cosa hai fatto in tutti questi anni?
– Sono andato a letto presto.


Oggi lo Statuto dei lavoratori compie cinquant’anni. La notizia, però, è un’altra: le sue rughe sono meno visibili di ieri. 
Difatti, mentre per lungo tempo le sue disposizioni sono state schivate come i pugni di un vecchio pugile un po’ prevedibile, oggi è successo qualcosa che, in termini di stretto diritto, potrebbe restituirgli un rinnovato vigore.

Ma andiamo per gradi, domandandoci cosa ha rappresentato la legge n. 300 del 20 maggio 1970 cinquant’anni or sono e cosa potrebbe rappresentare domani.
C’è da dire, in primo luogo, che nessuna normativa ha costituito una legge di attuazione costituzionale quanto lo Statuto dei diritti dei lavoratori. In rapporto a una Costituzione che pone il lavoro alle fondamenta dell’edificio repubblicano (art. 1) e, coerentemente, impegna la Repubblica a tutelare il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35), si è sovente constatata una sua attuazione molto tardiva ed estremamente parziale, concretamente avviata, riguardo al tema della democrazia industriale e della tutela della persona che lavora, solo con la legislazione lavoristica degli anni Settanta.

Prima dello Statuto dei lavoratori, l’annunciato matrimonio tra lavoro e libertà voluto dalla Costituzione era fermo allo stadio di mera «promessa», tanto che l’approvazione della «legge delle due cittadinanze» – del lavoratore e, al contempo, del sindacato – fu salutato dai più come il primo vero ingresso della Costituzione in fabbrica, ai cui cancelli si era per oltre vent’anni arrestata.
Ci si potrebbe dilungare sul delicato equilibrio che la legge istituisce tra diritti individuali e prerogative collettive, tra limiti all’unilateralismo del datore di lavoro introdotti a difesa della libertà e riservatezza del singolo e bilanciamenti prodotti con lo sdoganamento della presenza sindacale nei luoghi di lavoro. E si potrebbe financo rimproverare alla legge 300 del ’70 un eccesso di fiducia nei confronti del sindacalismo confederale e un deficit di protezione dei rappresentati al cospetto dei rappresentanti.
Ma, andando al cuore della questione, resta scolpita a fuoco, nel ferro delle incudini percosse nelle officine dell’autunno caldo, una filosofia di fondo elementare e attualissima, alla cui stregua l’organizzazione produttiva deve modellarsi sulle esigenze della persona che lavora e non viceversa, imponendo al datore di lavoro di esercitare la propria supremazia giuridica secondo i canoni, non arbitrari, della razionalità produttiva.
È per questa via che, per la prima volta nella storia del popolo dal colletto blu e le mani callose, con lo Statuto s’insinuano, in rapida successione, i limiti al potere di dirigere la produzione e disporre della professionalità dei produttori (art. 13), sorvegliare (art. 2, 3, 4, 5, 6 e 8) e punire (art. 7), rispettando la libertà, la dignità e la riservatezza di chi è costretto a lavorare per vivere.
La matrice della legge è, del resto, tutta quanta nella storia delle lotte di quell’aspra stagione: ne sono dimostrazione «scientifica», per fare due esempi assai significativi, sul piano collettivo la regolamentazione del diritto d’assemblea (art. 20), su quello individuale la procedimentalizzazione del potere disciplinare (art. 7), mutuate, l’una e l’altra, pressoché testualmente, dal contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici che chiuse il secondo biennio rosso, nel dicembre del 1969. 
Ma questo non basta a capire com’è andata dopo. Né basta a capirlo la cronistoria della lunga «restaurazione italiana», con la ristrutturazione del 1980 in Fiat e l’avvio del ciclo neoliberista, accelerato e favorito dal crollo del muro.
Se si potesse individuare un momento esatto in cui il pendolo della storia ha cambiato la propria oscillazione, esso finirebbe per coincidere proprio con l’apice della protezione giuslavoristica, ossia con lo Statuto dei lavoratori e la sua essenziale appendice processuale del ’73, quando il legislatore consegnò a un giudice specializzato (inizialmente il Pretore del lavoro, poi il Tribunale in composizione monocratica) gli strumenti, anche istruttori, utili a scavare dentro una relazione contrattuale a naturale vocazione asimmetrica tra lavoratore e datore di lavoro, in cerca della verità non solo processuale in cui scovare gli abusi e porvi rimedio.
Difatti, mentre un diritto ancora giovane, nato col «secolo del lavoro», guadagnava la maturità promessa dai tempi del suo innalzamento sulle vette alpine del diritto costituzionale, l’agognata riforma del Codice di procedura civile (l. n. 533/1973), per eterogenesi dei fini, indicava pure una via di fuga dal campo d’applicazione dello Statuto e, più in generale, del diritto del lavoro. Il varco veniva aperto, paradossalmente, proprio dall’art. 409 n. 3 c.p.c., disposizione che, guardando oltre i bastioni della subordinazione per assicurare ai lavoratori autonomi coordinati la medesima tutela processuale riconosciuta ai dipendenti, avrebbe sì costituito un indubbio indicatore della vis espansiva della materia ma pure, suo malgrado, segnalato al titolare dell’impresa una vantaggiosa alternativa alla tradizionale forma d’integrazione del lavoro personale nella propria organizzazione. Dal 1973 in poi, per esser chiari, il rapporto di lavoro subordinato non sarebbe stata più la forma esclusiva di un’attività di lavoro personale nell’impresa altrui, prospettandosi al titolare di quest’ultima una conveniente alternativa, sgravata dei costi economici e normativi connessi all’instaurazione di un «normale» contratto di lavoro: le collaborazioni coordinate e continuative.
Guardando all’evoluzione del mercato del lavoro degli anni Ottanta e Novanta e al parallelo contenzioso sulla qualificazione dei rapporti di lavoro, emerge una sorta di divaricazione tra esperienza contrattuale e prassi giudiziaria: mentre gli operatori economici iniziano a integrare prestazioni di lavoro nell’organizzazione d’impresa con grande disinvoltura, facendo crescente ricorso alle co.co.co. formalmente prive del vincolo di subordinazione benché strutturalmente inscritte nel ciclo produttivo del (talvolta solo formale) committente, i giudici si fanno più esigenti nell’accertare la natura subordinata dei rapporti di qualificazione incerta, pretendendo ordini specifici, puntuali e ripetuti come condizione d’accesso alla campo della tutela.
Così, con la complicità della dottrina e giurisprudenza, il lavoro autonomo continuativo ha finito per divenire un valido sostituito commerciale del lavoro dipendente, permettendo alle imprese di fuggire dal raggio d’azione delle garanzie dello Statuto e, in fondo, della stessa Costituzione.
Non è affatto scontato, del resto, che il Costituente intendesse accordare tutela e protezione al solo lavoro di fabbrica, ripetitivo, esecutivo ed eterodiretto, reso in regime di subordinazione tecnico-giuridica. Anzi. Se per un verso in Costituzione il lemma lavoro e i lemmi derivati ricorrono in ben 23 disposizioni, non compare nel testo costituzionale alcun richiamo esplicito al lavoro svolto «sotto la direzione del datore di lavoro» secondo la formula impiegata dall’art. 2094 c.c., neppure nominato nei pur laboriosi lavori preparatori.
È quanto mai chiara, per converso, l’intenzione di considerare prioritariamente il lavoro reso a favore di altri, da tutelare in tutte le sue forme, per accordarvi specifica protezione tanto di carattere individuale (art. 36 e 37 Cost.) quanto collettivo (art. 39 e 40, Cost.). 
Si trova traccia di tale impostazione nella costante giurisprudenza della Corte costituzionale la quale, pronunciandosi, a vario titolo, sul tema della stabilità dei rapporti di lavoro ha ripetutamente evidenziato che «l’affermazione sempre più netta del “diritto al lavoro” (art. 4, primo comma, Cost.), affiancata alla “tutela” del lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni” (art. 35, primo comma, Cost.), si sostanzia nel riconoscere, tra l’altro, che i limiti posti al potere di recesso del datore di lavoro correggono un disequilibrio di fatto esistente nel contratto di lavoro», il cui connotato personalistico viene sottolineato dal Giudice delle leggi per «il forte coinvolgimento della persona umana» (C. Cost. n. 194/2018) che esso implica, diversamente da altri rapporti di durata.
Nulla lascia intendere, insomma, che tali tutele costituzionali siano da ricondurre al solo lavoro subordinato: del resto, non è certo nella soggezione agli ordini relativi alle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa che trova giustificazione la necessità di un equo compenso o il diritto al riposo (art. 36), la parità di trattamento tra uomini e donne o la stabilità del rapporto (art. 4 e 35), né – come è, da tempo, pacifico – la possibilità di organizzarsi e agire collettivamente tramite la contrattazione (art. 39 Cost.) e il conflitto (art. 40 Cost.), bilanciando, attraverso l’esercizio collettivo di un contropotere, il potere del titolare di un progetto imprenditoriale da cui dipendono le sorti di quanti stabilmente vi collaborano. 
Nulla lascia pensare che il governo Renzi approvando il Jobs Act avesse in mente lo sfondo sin qui descritto quando decise di far seguire al primo articolo del decreto sul riordino delle tipologie contrattuali (d.lgs. n. 81/2015) la disposizione più discussa del diritto del lavoro del nuovo secolo: l’art. 2 in tema di collaborazioni etero-organizzate. Quello sfondo era, invece, molto chiaro ai riders impegnati nella consegna di cibo a domicilio, alla cui mobilitazione si deve, indubbiamente, la più recente versione della norma, che ha il pregio di estendere il campo d’applicazione della protezione lavoristica e, dunque, anche dello Statuto dei lavoratori, a chiunque svolga in via continuativa un’attività di lavoro personale, iscritta in un’organizzazione unilateralmente predisposta dal suo titolare.
Se pensiamo al motto più ricorrente nelle campagne, nelle lotte e nelle vertenze promosse da Riders Union Bologna – «Non per noi, ma per tutti» – si può ben dire che raramente uno slogan di carattere politico-sindacale ha avuto una traduzione normativa più fedele di quanto avvenuto con la legge n. 128 del 2019.
Le formule riassuntive di carattere giornalistico che hanno battezzato l’articolato normativo come «decreto riders» o «legge sui riders» trovano ragione nella sovraesposizione mediatica del lavoro reso attraverso da piattaforme digitali e, in quest’ambito, nella notevole rilevanza assunta dai riders metropolitani. Ma nell’economia della legge essa è più apparente che reale, ed è orientata univocamente ad allargare a tutto il lavoro autonomo che popola i territori  il diritto del lavoro del Novecento.
Oggi, per effetto dell’art. 2 comma 1, d.lgs. n. 81/2015, come modificato dalla legge n. 128/2019, i collaboratori autonomi etero-organizzati risultano finalmente tutelati al pari dei dipendenti, ma sono più liberi di questi ultimi, perché pur destinatari della disciplina del rapporto dei subordinati, non possono essere sottoposti al medesimo vincolo d’obbedienza: tale vincolo è, infatti, consustanziale alla subordinazione, nella misura in cui la sua sussistenza non può che determinare una riqualificazione del rapporto entro lo schema tipico dell’art. 2094 c.c.: ciò che non avviene in applicazione della norma di (sola) disciplina prevista dal d.lgs. n. 81/2015.
Il vero problema di quella disposizione è, semmai, il suo carattere «rimediale»: la qualificazione di «collaboratore etero-organizzato» sarà sempre e soltanto l’effetto di una pronuncia del giudice, perché nessun imprenditore, specie di questi tempi, può avere interesse a qualificare un proprio lavoratore in maniera tale da tutelarlo al massimo livello, senza avere in cambio un vincolo di soggezione gerarchica.
Il movimento che si rintraccia, a cinquant’anni esatti dalla legge di attuazione costituzionale che oggi celebriamo, non è, forse, tanto dissimile dall’idea che muoveva Massimo D’Antona, quando, sul finire dello scorso secolo, invitava il diritto del lavoro a occuparsi dell’intera gamma delle modalità attraverso cui «si realizza, nelle molteplici forme consentite da una organizzazione produttiva oggi assai meno rigida del passato, l’integrazione del lavoro prevalentemente personale nell’attività economica altrui».
Anche per questo, dopo un po’ di letargo, lo Statuto dei lavoratori mostra, oggi, la giovanile vitalità di uno splendido cinquantenne. 

*Federico Martelloni è professore associato di Diritto del lavoro all’Università di Bologna e capogruppo di Coalizione Civica in consiglio comunale.

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