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Secondo lo studio redatto dalle due organizzazioni, banche, assicurazioni e investitori italiani attraverso i loro finanziamenti all’industria fossile nel solo 2019 hanno causato l’emissione di 90 milioni di tonnellate di CO2, un volume di gas a effetto serra superiore a quello prodotto dall’Austria in un singolo anno. Altro che “scelte green”. A leggere i dati il contributo del comparto finanziario italiano alla crisi climatica appare fin troppo rilevante.
Entrando nel dettaglio, scopriamo che prestando miliardi alle aziende più inquinanti al mondo, come Eni, Gazprom e Shell, UniCredit e Intesa Sanpaolo sono responsabili dell’80% dei 90 milioni di tonnellate di emissioni del comparto finanziario, pari a quattro volte quelle generate da tutte le centrali a carbone in Italia.
Così come era già successo per UniCredit, anche Intesa Sanpaolo ha deciso di tenere l’assemblea degli azionisti a porte chiuse, senza la possibilità di partecipazione diretta di alcun investitore, sebbene proprio l’istituto di credito torinese si vanti di essere “la banca di sistema italiana”, come spesso ricorda il suo management. E in effetti il suo ruolo sta acquistando ancora più rilevanza nella fase attuale visto che per superare la crisi provocata dal coronavirus SARS-CoV-2 il governo ha affidato alle banche le chiavi del paese con garanzie pubbliche senza precedenti concesse dalla Cassa Depositi e Prestiti e la Sace per ben 400 miliardi di euro. Proprio da Intesa Sanpaolo e dai principali istituti di credito italiani passerà la liquidità per le migliaia di imprese in difficoltà sparse per il Paese.
A gennaio, per bocca del suo amministratore delegato Carlo Messina, Intesa Sanpaolo ha reso pubblica l’intenzione di contribuire al Green Deal europeo, mettendo a disposizione 50 degli eventuali 150 miliardi di euro destinati all’Italia. La comunicazione, avvenuta nell’ambito del forum “Intesa Sanpaolo, motore per lo sviluppo sostenibile e inclusivo”, è solo l’ultimo dei tanti tentativi di gettare fumo negli occhi da parte della banca sulle questioni legate alla crisi climatica.
Basta rileggersi un’altra dichiarazione rilasciata dal presidente Gian Maria Gros-Pietro per comprendere “l’incoerenza ambientale” di Intesa Sanpaolo. «Gli incendi in Australia […] hanno dato una misura della devastante dimensione dei rischi che si corrono. Chi esercita un’attività economica su grande scala, come una banca, deve chiedersi in che modo può contribuire a un’evoluzione positiva della società».
Peccato che Gros-Pietro si fosse dimenticato dei prestiti concessi dalla sua banca al gruppo indiano Adani, tra i più inquinanti del pianeta, che vorrebbe costruire la più grande miniera di carbone dell’Australia, andando a inserirsi all’interno di un’ecosistema già fortemente sotto pressione a causa dei cambiamenti climatici, come stanno a testimoniare le decine di incendi registratisi fra giugno 2019 e febbraio 2020.
Inoltre Intesa Sanpaolo è una delle ultime banche in Europa a non aver adottato alcuna misura di restrizione riguardo i finanziamenti ai combustibili fossili. Una “dimenticanza” che le permette di continuare a sostenere – tra gli altri – la società tedesca RWE, il più grande inquinatore d’Europa, con 188 milioni di euro nel solo 2019.
Non solo estero ma anche tanta Italia, nel portafoglio di Intesa Sanpaolo e di Unicredit come testimoniato dagli 893 milioni di euro elargiti all’ENI nel 2019. Allargando lo spettro a tutti gli altri istituti finanziari italiani, il totale dei finanziamenti che il Cane a sei zampe ha ricevuto nel 2019 è pari a 1,2 miliardi di euro: in termini di emissioni siamo a 5 milioni di tonnellate di CO2, un dato di poco inferiore a quelle prodotte lo stesso anno dalla centrale a carbone di Brindisi, la più grande d’Italia.
a cura di Simone Ogno, esponente di Re:Common, associazione impegnata in inchieste e campagne contro la corruzione e la distruzione dei territori in Italia, in Europa e nel mondo. L’articolo è stato pubblicato su Valori.it
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