ilfattoquotidiano.it Luisiana Gaita
Se diversi studi mostrano come chi respira aria inquinata potrebbe sviluppare forme più gravi di Covid-19, anche se non c’è evidenza di un collegamento diretto con la pandemia, un’analisi di Greenpeace Italia, elaborata in collaborazione con Ispra, indaga su quali siano i settori maggiormente responsabili dell’inquinamento in Pianura Padana e a livello nazionale. Cosa ha portato determinate aree del Paese a perdere contro il coronavirus? “In Lombardia si registra il 7% dei decessi mondiali di Covid-19 e oltre il 50% dei decessi in Italia – si spiega nel dossier – mentre aggiungendo l’Emilia-Romagna, si vede come nelle due regioni del Bacino Padano è avvenuto il 64% dei decessi nel nostro Paese”. Agricoltura intensiva e condizioni meteorologiche sono principali cause dei problemi di una regione, spiega Guido Lanzani, responsabile della qualità dell’aria di Arpa Lombardia, “dove abbiamo tante attività zootecniche e una orografia che porta al ristagno degli inquinanti”. Arpa, però, sottolinea anche il ruolo di “elevati flussi di traffico, riscaldamento domestico, in particolare a legna e attività industriali” come causa di “polveri sottili”.
Il limite di Lombardia ed Emilia-Romagna – Una valutazione, quella di Arpa Lombardia, sostenuta anche in un recente studio pubblicato su Science Direct, dove si evidenzia che l’inquinamento da smog di Lombardia ed Emilia-Romagna è tra i peggiori in Europa e, certamente, il peggiore in Italia in termini di particolato. Un triste primato dovuto anche “a specifiche condizioni geografiche che determinano la stagnazione degli inquinanti”, precisa Lanzani. Lombardia ed Emilia-Romagna sono aree che possono sopportare uno specifico limite di inquinanti atmosferici, oltre il quale la situazione può diventare pericolosa per chi vi abita. “Ogni Comune dovrebbe domandarsi quale carico ambientale può sopportare il suo territorio e agire di conseguenza”, precisa Ispra.
Le cause dell’inquinamento – Per individuare i settori responsabili dell’inquinamento dell’aria, Arpa Lombardia ha integrato i dati del particolato primario (le polveri sottili direttamente emesse dalle auto, per esempio) con quelli del particolato secondario che si produce in atmosfera attraverso processi chimico-fisici che coinvolgono diversi gas. Dallo studio, con focus su Milano, si evince che in questa regione il PM2,5 secondario, generato maggiormente da allevamenti e agricoltura, è più elevato del primario. Infatti, il 31% del particolato a Milano è costituito da PM2,5 primario, mentre il 69% da secondario. Di quest’ultimo, il 40% è inorganico e causato soprattutto dagli allevamenti. Lo smog della Pianura Padana, dunque, dipende solo in parte dalle emissioni dirette, mentre centrali sono i processi chimici che coinvolgono – oltre a ossidi di azoto e di zolfo – l’ammoniaca (NH3) che, liberata in atmosfera, si combina con altri componenti generando le polveri sottili.
Il ruolo degli allevamenti in Lombardia – Cruciale, dunque, il ruolo degli allevamenti, responsabili di circa l’85% delle emissioni di ammoniaca in Lombardia. L’ammoniaca che fuoriesce dagli allevamenti, infatti, “concorre mediamente a un terzo del PM della Lombardia, ma durante gli episodi acuti tale contributo aumenta”. Solfato e nitrato di ammonio arrivano anche a superare il 50% della massa totale di PM10 e PM2.5. D’altronde in passato Arpa ha già misurato come la componente di PM secondario sia in media relativamente più bassa a dicembre e gennaio, periodo in cui normalmente è vietato lo spandimento di liquami. Al contrario, registra picchi a ottobre-novembre e febbraio-marzo, quando siamo nel pieno dello spandimento dei reflui.
La serie storica dei settori inquinanti – A livello nazionale la ricerca dell’Unità investigativa di Greenpeace Italia in collaborazione con Ispra mostra, dal 1990 al 2018, una media di quali settori abbiano maggiormente contribuito alla formazione del particolato PM2,5. Nell’analisi viene scattata anche una fotografia del 2018, anno in cui i settori più inquinanti si confermano essere il riscaldamento residenziale e commerciale (37 per cento) e gli allevamenti (17 per cento). Questi due settori, insieme, sono la causa del 54 per cento del PM2,5 nazionale. La percentuale del contributo degli allevamenti non è mai diminuita, anzi è passata dal 7 per cento nel 1990 al 17 per cento nel 2018. “Gli allevamenti intensivi non solo si confermano la seconda causa di polveri sottili, ma si può osservare come dal 1990 al 2018, il loro contributo sia andato crescendo. Paradossalmente, però, una gran quantità di soldi pubblici continua a foraggiare questo sistema, a cominciare dai sussidi della PAC”, commenta Federica Ferrario, responsabile Campagna Agricoltura di Greenpeace Italia. Per ridurre le emissioni di ammoniaca e, quindi, le concentrazioni di particolato il settore allevamenti potrebbe fare molto: “Puntare sulla qualità invece che sulla quantità – sottolinea Greenpeace – è una priorità: dopo questa difficile fase emergenziale, strategie future, come il Green Deal europeo e Farm to Fork, e strumenti come la PAC devono prevedere risorse adeguate per aiutare le aziende agricole a ridurre il numero degli animali allevati e nel passaggio a metodi di produzione ecologici”.
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