Il caso di Contagion,
il film di Steven Soderbergh che ha “previsto” la pandemia che stiamo
vivendo con sbalorditiva precisione, è diventato materia leggendaria
durante la quarantena.
Il
film del 2011 racconta di un virus letale che passa dai pipistrelli ai
maiali macellati e infine agli esseri umani nei ristoranti della Cina,
per poi diffondersi nel resto del mondo, infettando e uccidendo milioni
di persone mentre le autorità stentano a contenerlo.
Forse per i suoi sorprendenti paralleli con la crisi attuale (e magari per una sorta di masochismo collettivo), Contagion ha di recente scalato le classifiche fino a diventare il settimo film più popolare su iTunes
(prima era 270esimo). A marzo, quando il flusso delle notizie reali
sembrava ricalcare la sua sceneggiatura, è diventato il titolo più visto
su Hbo e i suoi download illegali sono aumentati di 50 volte.
Dieci
anni fa il film è stato proposto a Soderbergh dallo sceneggiatore Scott
Burns, che è stato inflessibile nel voler dare una rappresentazione
plausibile di una pandemia virale. Nello script
l’agente patogeno non è un coronavirus ma un paramyxovirus, e il suo
tasso di mortalità è più alto rispetto a quello del Covid-19. Ma la sua
origine e il modo in cui si trasmette sono sorprendentemente simili a
ciò che vediamo oggi.
Questo
grazie alla ricerca meticolosa di Burns e ai consigli che ha ricevuto
da consulenti scientifici come il virologo Ian Lipkin.
Oltre
all’epidemiologia, il film immagina le dinamiche sociali di una
pandemia, comprese le quarantene, gli assalti ai supermercati e la
disinformazione dilagante (fatta su internet da un blogger complottista
interpretato da Jude Law).
Quando gli scienziati riescono finalmente a creare un vaccino per contenere il virus, Contagion
mette in scena il caos ulteriore legato al compito colossale di
produrre il vaccino in grandi quantità, e di stabilire le priorità nella
sua distribuzione alla popolazione – temi fin troppo plausibili in un
futuro in cui la curva del contagio sarà ulteriormente scesa rispetto ad
adesso.
Gli
autori del film non hanno previsto una cosa: gli effetti nefasti
dell’assoggettamento del potere scientifico a un’amministrazione
autoritaria e populista, cultrice dell’ignoranza e negazionista –
proprio nel momento in cui la competenza e una adeguata leadership
sarebbero state fondamentali. E il fatto che gli Stati Uniti siano
diventati l’epicentro della pandemia più virulento al mondo.
Questo, forse, sarebbe stato considerato un racconto fantascientifico troppo improbabile.
Abbiamo
parlato del film e della sua attinenza con la situazione attuale con
Burns e Lipkin in una recente conferenza stampa a Los Angeles.
Come è nato Contagion?
Scott Burns: Da ragazzo ho visto Outbreak,
e c’era qualcosa nel finale e nella sua parte scientifica che mi ha
sempre dato fastidio, sia come sceneggiatore che come semplice persona
pensante. E ricordo di aver pensato di voler fare un film su una
pandemia, ma che fosse guidato dalle scoperte scientifiche più recenti. E
volevo che si svolgesse in un mondo improntato sulla globalizzazione, i
viaggi, e con una grande disparità economica.
Una
delle domande che mi hanno fatto più spesso da quando è comparso questo
virus è come mai il film è così preveggente e accurato. La risposta è
molto semplice: quando ho presentato il progetto a Steven Soderbergh gli
ho detto di voler fare il film solo se fosse stato preciso e basato sui
fatti, perché ero consapevole che viviamo in un’epoca di pandemie. Così
sono riuscito a mettermi in contatto con Ian, il miglior virologo del
nostro Paese.
E
lui mi ha detto la stessa cosa: ti aiuterò solo se il film è
estremamente realistico e non una stronzata complottista su un virus
creato in laboratorio o proveniente da un’antenna telefonica. Sapevo
dunque che la storia del film si sarebbe avverata dieci anni più tardi?
No. Ma ogni esperto con cui ho parlato mi ha detto che la questione non
era se sarebbe successo, ma quando.
E i fatti vi hanno dato ragione.
Ian Lipkin:
Questa non è la prima pandemia e non sarà l’ultima, non sono neanche
certo che sarà la peggiore. E’ qualcosa che dobbiamo poter anticipare:
ci battiamo da tempo per poter sviluppare un sistema immunitario
internazionale che ci consenta di individuare questi agenti patogeni
prima che si trasmettano alla comunità umana.
Se
si guarda alla frequenza di queste epidemie, a me sembra che stiano
aumentando, che ce le potremo aspettare ogni tre o cinque anni. Se
riusciamo a controllare un focolaio come abbiamo fatto in Sudafrica, con
un virus chiamato Lujo – il più letale arenavirus mai conosciuto, che
dubito voi abbiate mai sentito nominare – allora la gente dà per
scontato che non c’è bisogno di preoccuparsi.
E’
questo il problema con la sanità pubblica: se un lavoro viene fatto
bene, non lo sa nessuno e a nessuno importa. Ma quando tutto va male
allora è un problema. Spero quindi che le persone faranno tesoro della
lezione che abbiamo dovuto apprendere sui mercati di animali selvatici,
la condivisione dei dati, i miglioramenti necessari agli studi sui
vaccini. Così quando arriverà il prossimo virus potremo farci trovare
più preparati.
Ma prima dobbiamo affrontare quello attuale.
IL:
Il virus è stato scoperto alla fine del 2019. Abbiamo i test
diagnostici, ma non sono sufficienti. I paesi che sono riusciti a
controllare la pandemia – la Germania, Singapore, la Cina – avevano
accesso a questi test e li hanno usati con successo. Negli Stati Uniti siamo rimasti indietro. E lo stesso è accaduto in Italia, Spagna e altri posti.
Ci
stiamo servendo di tecnologie vecchie – come l’isolamento, il tipo di
strategia utilizzata nel medioevo per tenere sotto controllo
un’epidemia. Finché non avremo un vaccino, o farmaci accessibili a
tutti, saremo limitati nelle nostre strategie di risposta al virus. E
dovremo limitarci all’isolamento, i test, i tracciamenti, la ricerca di
persone che sono venute a contatto con individui infetti.
SB:
Ricordo di aver avuto una conversazione con Ian sulla necessità di
sviluppare un vaccino universale contro il Coronavirus. Sono quindi
sorpreso di vedere sempre più virus che vengono in contatto con gli
esseri umani? Niente affatto. Per me questo ha a che fare con problemi
più grandi, relativi al fatto che gli esseri umani stanno invadendo gli
spazi degli animali. Così entriamo sempre più in contatto con i loro
virus.
E’ il nostro comportamento ad aver causato questi problemi, come la predilezione cinese per i wet market e come vengono gestiti. In Contagion
la compagnia che abbatteva gli alberi – il motivo della migrazione dei
pipistrelli – è americana. Spesso l’aggressione di questi luoghi
selvaggi avviene in paesi poveri, ma ad opera del colonialismo
industriale.
Che ne è stato del sistema di allerta tempestiva?
IL:
Alla metà degli anni Duemila, quando ci fu l’epidemia di Sars, George
Bush istituì il National Bio Surveillance Advisory Sub Committee, che
forniva linee guida specifiche su come evitare questi focolai. Poi è
arrivato Obama e ne ha fondato un altro ancora, che ha stilato un
rapporto a cui nessuno ha prestato attenzione.
Non
c’è niente che mi sorprenda in quanto sta accadendo: i nostri servizi
sociali sono in cattive condizioni, il centro per il controllo delle
malattie riceve meno finanziamenti di quanti ne servirebbero – a
differenza della Cina, dove il budget per la ricerca scientifica viene
aumentato del 20% all’anno, mentre il nostro continua a scendere. Non ci
sono abbastanza persone, né risorse.
La
carenza di studi epidemiologici, di test efficienti, di finanziamenti
alle persone che vivono in povertà affinché possano stare in isolamento,
sono cose che mettono in pericolo tutti noi, non solo localmente ma a
livello internazionale. E addossare le colpe alla Cina, come si sta
facendo, non aiuta. Sono stati molto più trasparenti con noi rispetto al
2003, quando personalmente sono stato coinvolto nella lotta
all’epidemia di Sars.
E’ vero ciò che ha detto il Dr. Fauci: che non saremo noi, ma il virus, a dettare i tempi?
IL:
Tony è un mio buon amico e farò solo un piccolo appunto a ciò che ha
detto. Perché in parte siamo proprio noi a stabilire i tempi: possiamo
appiattire la curva con l’isolamento, migliorando i test, accelerando il
perfezionamento di farmaci e vaccini. Fino a un certo punto, siamo
padroni del nostro destino.
Da
un punto di vista culturale complessivo, torneremo a quel genere di
esperienze che non comportano assembramenti – bar, ristoranti, teatri,
cinema rappresenteranno invece un problema più complesso, perché finché
non avremo un vaccino sarà molto più difficile proteggere le persone.
Ma
se si lavora in un ufficio, credo sarà possibile tornare a farlo
indossando una mascherina – o andare a fare la spesa, cose di questo
tipo. E identificheremo le persone che sono state esposte al virus, e si
spera siano immuni, che potranno lavorare in prima linea nelle squadre
mediche, fra i pompieri, la polizia e altre attività che richiedono di
stare contatto con un gran numero di persone.
Ma
non potremo tornare alla situazione in cui eravamo fino all’anno scorso
finché non avremo un vaccino che sia stato ampiamente distribuito.
E quando pensa che sarà?
IL:
Generalmente ci sono tre fasi nella realizzazione di un vaccino: test
di sicurezza, dell’efficacia e infine test sulla sicurezza e l’efficacia
a lungo termine per un gran numero di persone. Solo dopo aver
attraversato queste tre fasi si investe nella produzione e nella
distribuzione, perché è una spesa da miliardi di dollari.
Al
momento stiamo portando avanti delle collaborazioni in tutto il mondo
che ci consentiranno di investire in un numero limitato di vaccini che
comincino a dimostrarsi validi, utili: non tutti saranno sviluppati.
Questo richiede gli sforzi congiunti degli studiosi, dell’industria e
dei governi di tutto il mondo. La maggior parte delle persone sostiene
che ci vorranno 18 mesi o anche due anni, io credo che ci arriveremo in
circa un anno.
Altri
dicono che ce la faremo entro la fine del 2020, ma credo sia una stima
troppo ottimistica. E questo cosa ci dice in termini politici? Che prima
avremo un vaccino e più coloro che sono a rischio politicamente
potranno dire di avercela fatta, di aver trovato il vaccino, quando in
realtà sappiamo che non è così. Noi virologi stiamo collaborando,
condividendo i dati come mai prima d’ora.
State lavorando sulla terapia a base di plasma?
IL:
Sto cercando di puntare molto su questa terapia. L’ho fatto quando ero
in Cina: è stato il governo cinese a fare le prime sperimentazioni con
il plasma. Attualmente abbiamo appena cominciato una sperimentazione al
New York Presbyterian con 450 pazienti. E c’è un vasto studio nazionale
che sta venendo condotto in merito.
Credo
che nelle prossime tre o quattro settimane saremo in grado di sapere se
la terapia col plasma funziona con le persone molto malate, o se può
prevenire la malattia negli operatori sanitari.
Contagion affrontava anche il tema della disinformazione, che complica la lotta alla pandemia.
SB:
Quel problema è peggiorato. E purtroppo ora non si tratta solo di
blogger, ma di rappresentanti del governo federale. E’ già abbastanza
difficile combattere la malattia, ma avere a che fare con la
disinformazione – specialmente quella che fa leva sulla xenofobia,
sull’incredibile divisione politica di questo paese – rende il lavoro di
persone come Ian incredibilmente difficile.
Non
capisco affatto perché dovremmo dire cose come “liberate il Michigan”,
quando in quello stato ci sono tante persone molto malate. E non capisco
perché quella gente abbia il “diritto” di ammalarsi e mettere in
pericolo la vita di altre persone, alcune delle quali potrebbero avere
delle malattie pregresse: per loro sarebbe una sentenza di morte.
Contagion immaginava anche altre tensioni sociali: le sommosse per il cibo. Non siamo ancora arrivati a quella parte del film?
SB:
Per quanto sia stata messa a dura prova, la filiera di rifornimento in
questo paese non ha ceduto. Per cui non credo che dovremo preoccuparci
del cibo. La malattia del nostro film era molto più letale di questa,
per cui le persone impiegate nei servizi essenziali possono svolgere il
loro lavoro se vengono protette in modo adeguato, se i protocolli sono
efficienti.
Credo
quindi che questi disordini non faranno parte del film che stiamo
vivendo, o almeno lo spero. Ma purtroppo nel nostro paese siamo
testimoni dell’influenza che questa crisi sta avendo sulla divisione che
già c’era prima – e c’è gente a cui sta bene che le persone anziane o
vulnerabili muoiano per la nostra economia: abbiamo eletto dei politici
che hanno detto cose di questo tipo. E più passa il tempo più questo
rappresenterà un problema, a meno che non riusciamo a trovare un
approccio condiviso.
Pochi
giorni fa una notizia mi ha spezzato il cuore: un’infermiera che
affronta un gruppo di manifestanti armati in Colorado, che le urlano che
se vuole il comunismo dovrebbe andarsene in Cina.
E’
deprimente che sia questo il livello della discussione e dell’ignoranza
nel nostro paese, tanto da arrivare a minacciare i lavoratori sanitari
di cui abbiamo bisogno. E di certo l’infermiera non ha alcun secondo
fine politico: vuole solo impedire che le persone si ammalino. Questo è
il genere di divisioni che se continuano ad inasprirsi potranno portare
ad una escalation dell’instabilità sociale.
IL:
Ci sono parti del subcontinente indiano dove ci sono state
insurrezioni. Quindi possono anche non esserci nella costa ovest degli
Stati Uniti, o a New York, ma ci sono parti del mondo in cui questo sta
già accadendo.
Nel
film un altro momento di tensione arriva quando il vaccino viene
sviluppato, ma la produzione e la distribuzione restano una sfida.
SB:
Sapevo che in questi casi il vaccino viene dato in primo luogo a chi
lavora in prima linea, ai militari, ai membri del governo. E poi mi sono
inventato l’idea della lotteria. Viviamo in una società in cui i
ricchi, o chi ha delle conoscenze politiche, riceve dei trattamenti
preferenziali.
Non
so se ciò influirà sulla distribuzione del vaccino, ma non credo sia da
escludere che questo genere di abitudini corrotte si manifesteranno,
perché sono comuni in tutto il mondo. Ma spero che le persone più a
rischio saranno le prime a ricevere il vaccino, subito dopo il personale
sanitario.
* da ilmanifesto
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