venerdì 1 maggio 2020

Quando la finzione contagia la realtà.

Il caso di Contagion, il film di Steven Soderbergh che ha “previsto” la pandemia che stiamo vivendo con sbalorditiva precisione, è diventato materia leggendaria durante la quarantena.



Il film del 2011 racconta di un virus letale che passa dai pipistrelli ai maiali macellati e infine agli esseri umani nei ristoranti della Cina, per poi diffondersi nel resto del mondo, infettando e uccidendo milioni di persone mentre le autorità stentano a contenerlo.
Forse per i suoi sorprendenti paralleli con la crisi attuale (e magari per una sorta di masochismo collettivo), Contagion ha di recente scalato le classifiche fino a diventare il settimo film più popolare su iTunes (prima era 270esimo). A marzo, quando il flusso delle notizie reali sembrava ricalcare la sua sceneggiatura, è diventato il titolo più visto su Hbo e i suoi download illegali sono aumentati di 50 volte.
Dieci anni fa il film è stato proposto a Soderbergh dallo sceneggiatore Scott Burns, che è stato inflessibile nel voler dare una rappresentazione plausibile di una pandemia virale. Nello script l’agente patogeno non è un coronavirus ma un paramyxovirus, e il suo tasso di mortalità è più alto rispetto a quello del Covid-19. Ma la sua origine e il modo in cui si trasmette sono sorprendentemente simili a ciò che vediamo oggi.
Questo grazie alla ricerca meticolosa di Burns e ai consigli che ha ricevuto da consulenti scientifici come il virologo Ian Lipkin.

Oltre all’epidemiologia, il film immagina le dinamiche sociali di una pandemia, comprese le quarantene, gli assalti ai supermercati e la disinformazione dilagante (fatta su internet da un blogger complottista interpretato da Jude Law).
Quando gli scienziati riescono finalmente a creare un vaccino per contenere il virus, Contagion mette in scena il caos ulteriore legato al compito colossale di produrre il vaccino in grandi quantità, e di stabilire le priorità nella sua distribuzione alla popolazione – temi fin troppo plausibili in un futuro in cui la curva del contagio sarà ulteriormente scesa rispetto ad adesso.
Gli autori del film non hanno previsto una cosa: gli effetti nefasti dell’assoggettamento del potere scientifico a un’amministrazione autoritaria e populista, cultrice dell’ignoranza e negazionista – proprio nel momento in cui la competenza e una adeguata leadership sarebbero state fondamentali. E il fatto che gli Stati Uniti siano diventati l’epicentro della pandemia più virulento al mondo.
Questo, forse, sarebbe stato considerato un racconto fantascientifico troppo improbabile.
Abbiamo parlato del film e della sua attinenza con la situazione attuale con Burns e Lipkin in una recente conferenza stampa a Los Angeles.
Come è nato Contagion?
Scott Burns: Da ragazzo ho visto Outbreak, e c’era qualcosa nel finale e nella sua parte scientifica che mi ha sempre dato fastidio, sia come sceneggiatore che come semplice persona pensante. E ricordo di aver pensato di voler fare un film su una pandemia, ma che fosse guidato dalle scoperte scientifiche più recenti. E volevo che si svolgesse in un mondo improntato sulla globalizzazione, i viaggi, e con una grande disparità economica.
Una delle domande che mi hanno fatto più spesso da quando è comparso questo virus è come mai il film è così preveggente e accurato. La risposta è molto semplice: quando ho presentato il progetto a Steven Soderbergh gli ho detto di voler fare il film solo se fosse stato preciso e basato sui fatti, perché ero consapevole che viviamo in un’epoca di pandemie. Così sono riuscito a mettermi in contatto con Ian, il miglior virologo del nostro Paese.
E lui mi ha detto la stessa cosa: ti aiuterò solo se il film è estremamente realistico e non una stronzata complottista su un virus creato in laboratorio o proveniente da un’antenna telefonica. Sapevo dunque che la storia del film si sarebbe avverata dieci anni più tardi? No. Ma ogni esperto con cui ho parlato mi ha detto che la questione non era se sarebbe successo, ma quando.
E i fatti vi hanno dato ragione.
Ian Lipkin: Questa non è la prima pandemia e non sarà l’ultima, non sono neanche certo che sarà la peggiore. E’ qualcosa che dobbiamo poter anticipare: ci battiamo da tempo per poter sviluppare un sistema immunitario internazionale che ci consenta di individuare questi agenti patogeni prima che si trasmettano alla comunità umana.
Se si guarda alla frequenza di queste epidemie, a me sembra che stiano aumentando, che ce le potremo aspettare ogni tre o cinque anni. Se riusciamo a controllare un focolaio come abbiamo fatto in Sudafrica, con un virus chiamato Lujo – il più letale arenavirus mai conosciuto, che dubito voi abbiate mai sentito nominare – allora la gente dà per scontato che non c’è bisogno di preoccuparsi.
E’ questo il problema con la sanità pubblica: se un lavoro viene fatto bene, non lo sa nessuno e a nessuno importa. Ma quando tutto va male allora è un problema. Spero quindi che le persone faranno tesoro della lezione che abbiamo dovuto apprendere sui mercati di animali selvatici, la condivisione dei dati, i miglioramenti necessari agli studi sui vaccini. Così quando arriverà il prossimo virus potremo farci trovare più preparati.
Ma prima dobbiamo affrontare quello attuale.
IL: Il virus è stato scoperto alla fine del 2019. Abbiamo i test diagnostici, ma non sono sufficienti. I paesi che sono riusciti a controllare la pandemia – la Germania, Singapore, la Cina – avevano accesso a questi test e li hanno usati con successo. Negli Stati Uniti siamo rimasti indietro. E lo stesso è accaduto in Italia, Spagna e altri posti.
Ci stiamo servendo di tecnologie vecchie – come l’isolamento, il tipo di strategia utilizzata nel medioevo per tenere sotto controllo un’epidemia. Finché non avremo un vaccino, o farmaci accessibili a tutti, saremo limitati nelle nostre strategie di risposta al virus. E dovremo limitarci all’isolamento, i test, i tracciamenti, la ricerca di persone che sono venute a contatto con individui infetti.
SB: Ricordo di aver avuto una conversazione con Ian sulla necessità di sviluppare un vaccino universale contro il Coronavirus. Sono quindi sorpreso di vedere sempre più virus che vengono in contatto con gli esseri umani? Niente affatto. Per me questo ha a che fare con problemi più grandi, relativi al fatto che gli esseri umani stanno invadendo gli spazi degli animali. Così entriamo sempre più in contatto con i loro virus.
E’ il nostro comportamento ad aver causato questi problemi, come la predilezione cinese per i wet market e come vengono gestiti. In Contagion la compagnia che abbatteva gli alberi – il motivo della migrazione dei pipistrelli – è americana. Spesso l’aggressione di questi luoghi selvaggi avviene in paesi poveri, ma ad opera del colonialismo industriale.
Che ne è stato del sistema di allerta tempestiva?
IL: Alla metà degli anni Duemila, quando ci fu l’epidemia di Sars, George Bush istituì il National Bio Surveillance Advisory Sub Committee, che forniva linee guida specifiche su come evitare questi focolai. Poi è arrivato Obama e ne ha fondato un altro ancora, che ha stilato un rapporto a cui nessuno ha prestato attenzione.
Non c’è niente che mi sorprenda in quanto sta accadendo: i nostri servizi sociali sono in cattive condizioni, il centro per il controllo delle malattie riceve meno finanziamenti di quanti ne servirebbero – a differenza della Cina, dove il budget per la ricerca scientifica viene aumentato del 20% all’anno, mentre il nostro continua a scendere. Non ci sono abbastanza persone, né risorse.
La carenza di studi epidemiologici, di test efficienti, di finanziamenti alle persone che vivono in povertà affinché possano stare in isolamento, sono cose che mettono in pericolo tutti noi, non solo localmente ma a livello internazionale. E addossare le colpe alla Cina, come si sta facendo, non aiuta. Sono stati molto più trasparenti con noi rispetto al 2003, quando personalmente sono stato coinvolto nella lotta all’epidemia di Sars.
E’ vero ciò che ha detto il Dr. Fauci: che non saremo noi, ma il virus, a dettare i tempi?
IL: Tony è un mio buon amico e farò solo un piccolo appunto a ciò che ha detto. Perché in parte siamo proprio noi a stabilire i tempi: possiamo appiattire la curva con l’isolamento, migliorando i test, accelerando il perfezionamento di farmaci e vaccini. Fino a un certo punto, siamo padroni del nostro destino.
Da un punto di vista culturale complessivo, torneremo a quel genere di esperienze che non comportano assembramenti – bar, ristoranti, teatri, cinema rappresenteranno invece un problema più complesso, perché finché non avremo un vaccino sarà molto più difficile proteggere le persone.
Ma se si lavora in un ufficio, credo sarà possibile tornare a farlo indossando una mascherina – o andare a fare la spesa, cose di questo tipo. E identificheremo le persone che sono state esposte al virus, e si spera siano immuni, che potranno lavorare in prima linea nelle squadre mediche, fra i pompieri, la polizia e altre attività che richiedono di stare contatto con un gran numero di persone.
Ma non potremo tornare alla situazione in cui eravamo fino all’anno scorso finché non avremo un vaccino che sia stato ampiamente distribuito.
E quando pensa che sarà?
IL: Generalmente ci sono tre fasi nella realizzazione di un vaccino: test di sicurezza, dell’efficacia e infine test sulla sicurezza e l’efficacia a lungo termine per un gran numero di persone. Solo dopo aver attraversato queste tre fasi si investe nella produzione e nella distribuzione, perché è una spesa da miliardi di dollari.
Al momento stiamo portando avanti delle collaborazioni in tutto il mondo che ci consentiranno di investire in un numero limitato di vaccini che comincino a dimostrarsi validi, utili: non tutti saranno sviluppati. Questo richiede gli sforzi congiunti degli studiosi, dell’industria e dei governi di tutto il mondo. La maggior parte delle persone sostiene che ci vorranno 18 mesi o anche due anni, io credo che ci arriveremo in circa un anno.
Altri dicono che ce la faremo entro la fine del 2020, ma credo sia una stima troppo ottimistica. E questo cosa ci dice in termini politici? Che prima avremo un vaccino e più coloro che sono a rischio politicamente potranno dire di avercela fatta, di aver trovato il vaccino, quando in realtà sappiamo che non è così. Noi virologi stiamo collaborando, condividendo i dati come mai prima d’ora.
State lavorando sulla terapia a base di plasma?
IL: Sto cercando di puntare molto su questa terapia. L’ho fatto quando ero in Cina: è stato il governo cinese a fare le prime sperimentazioni con il plasma. Attualmente abbiamo appena cominciato una sperimentazione al New York Presbyterian con 450 pazienti. E c’è un vasto studio nazionale che sta venendo condotto in merito.
Credo che nelle prossime tre o quattro settimane saremo in grado di sapere se la terapia col plasma funziona con le persone molto malate, o se può prevenire la malattia negli operatori sanitari.
Contagion affrontava anche il tema della disinformazione, che complica la lotta alla pandemia.
SB: Quel problema è peggiorato. E purtroppo ora non si tratta solo di blogger, ma di rappresentanti del governo federale. E’ già abbastanza difficile combattere la malattia, ma avere a che fare con la disinformazione – specialmente quella che fa leva sulla xenofobia, sull’incredibile divisione politica di questo paese – rende il lavoro di persone come Ian incredibilmente difficile.
Non capisco affatto perché dovremmo dire cose come “liberate il Michigan”, quando in quello stato ci sono tante persone molto malate. E non capisco perché quella gente abbia il “diritto” di ammalarsi e mettere in pericolo la vita di altre persone, alcune delle quali potrebbero avere delle malattie pregresse: per loro sarebbe una sentenza di morte.
Contagion immaginava anche altre tensioni sociali: le sommosse per il cibo. Non siamo ancora arrivati a quella parte del film?
SB: Per quanto sia stata messa a dura prova, la filiera di rifornimento in questo paese non ha ceduto. Per cui non credo che dovremo preoccuparci del cibo. La malattia del nostro film era molto più letale di questa, per cui le persone impiegate nei servizi essenziali possono svolgere il loro lavoro se vengono protette in modo adeguato, se i protocolli sono efficienti.
Credo quindi che questi disordini non faranno parte del film che stiamo vivendo, o almeno lo spero. Ma purtroppo nel nostro paese siamo testimoni dell’influenza che questa crisi sta avendo sulla divisione che già c’era prima – e c’è gente a cui sta bene che le persone anziane o vulnerabili muoiano per la nostra economia: abbiamo eletto dei politici che hanno detto cose di questo tipo. E più passa il tempo più questo rappresenterà un problema, a meno che non riusciamo a trovare un approccio condiviso.
Pochi giorni fa una notizia mi ha spezzato il cuore: un’infermiera che affronta un gruppo di manifestanti armati in Colorado, che le urlano che se vuole il comunismo dovrebbe andarsene in Cina.
E’ deprimente che sia questo il livello della discussione e dell’ignoranza nel nostro paese, tanto da arrivare a minacciare i lavoratori sanitari di cui abbiamo bisogno. E di certo l’infermiera non ha alcun secondo fine politico: vuole solo impedire che le persone si ammalino. Questo è il genere di divisioni che se continuano ad inasprirsi potranno portare ad una escalation dell’instabilità sociale.
IL: Ci sono parti del subcontinente indiano dove ci sono state insurrezioni. Quindi possono anche non esserci nella costa ovest degli Stati Uniti, o a New York, ma ci sono parti del mondo in cui questo sta già accadendo.
Nel film un altro momento di tensione arriva quando il vaccino viene sviluppato, ma la produzione e la distribuzione restano una sfida.
SB: Sapevo che in questi casi il vaccino viene dato in primo luogo a chi lavora in prima linea, ai militari, ai membri del governo. E poi mi sono inventato l’idea della lotteria. Viviamo in una società in cui i ricchi, o chi ha delle conoscenze politiche, riceve dei trattamenti preferenziali.
Non so se ciò influirà sulla distribuzione del vaccino, ma non credo sia da escludere che questo genere di abitudini corrotte si manifesteranno, perché sono comuni in tutto il mondo. Ma spero che le persone più a rischio saranno le prime a ricevere il vaccino, subito dopo il personale sanitario.
* da ilmanifesto

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