“Lo scontro di civiltà basato sulla religione,
come se si potessero classificare gli abitanti del pianeta sulla base di
una identità unica, è l’arte con cui gli “istigatori della violenza –
scrive Amartya Sen (Identità e violenza, Laterza 2006) –
costruiscono contrapposizioni immaginarie, destinate a trasformarsi con
una rapidità sorprendente in guerre reali”.
Per come è comparso nel
dibattito pubblico dopo l’11 settembre si potrebbe dire che la
semplificazione è stata ancora più radicale: è diventato civiltà e
barbarie, Bene e Male, Occidente e terrorismo islamista.
La liberazione
di Silvia Romano, dopo diciotto mesi di sequestro da parte del gruppo di
jihadisti somali di al-Shabaab, lo ha fatto tornare improvvisamente di
attualità, insieme a una campagna violenta di insulti in cui si
sono mescolati e confusi il suo essere donna, la scelta di cooperante in
un Paese africano, e la sua conversione all’Islam, confermata
dall’abito con cui si è presentata al suo arrivo a Ciampino davanti ai
rappresentanti dello Stato italiano: il presidente del consiglio Conte e
il ministro degli Esteri, Di Maio.
Che quel “barracano verde” – come lo ha definito su La Stampa
Domenico Quirici – portasse il peso della lunga prigionia e della
violenza del sequestro, e al medesimo tempo la volontà esplicita di
Silvia di mostrarlo come “simbolo” di un cambiamento profondo avvenuto
in lei, è stato evidente.Più difficile da portare allo scoperto è l’intreccio o la sovrapposizione tra i pregiudizi con cui si guarda a una donna che non si conforma a ruoli considerati per la sua appartenenza di sesso “naturali”, e quelli che appartengono a differenze etniche, culturali, razzializzate.
Si può dire che l’aggressione di stampo sessista e razzista Silvia l’ha conosciuta e retta con forza due volte: nel suo sequestro in Africa e al suo ritorno in Italia. In modo, si potrebbe dire speculare, la “patria” e il “paese straniero”, l’Italia e le sue ex-colonie, considerate un tempo luogo di sfruttamento e “civilizzazione”, hanno mostrato una parentela che sembra attraversare la storia senza variazioni e cambiamenti, e cioè la centralità che ha sempre avuto il corpo femminile nelle guerre tra popoli, come difesa di presunte identità nazionali o “purezze” etniche, oltre che terreno di conquista. Generatrici di “martiri” per i guerrieri della jihad e di “eroi” per la “civile” Europa, l’offesa imperdonabile che le donne potevano arrecare all’“onore” dei padri e alla salvaguardia dei valori patriottici, è sempre stata la “contaminazione” col nemico sotto ogni aspetto, sessuale, culturale, religioso, di patteggiamento o sottomissione.
È accaduto, volendo citare solo alcuni casi su cui si è molto discusso, per Hina Salem e per Sanaa Cheema, uccise dai famigliari per aver scelto modi di vivere occidentali e aver desiderato sposare un italiano.
Non sono forse mossi dallo stesso violento pregiudizio, patriarcale e razzista, gli insulti rivolti alla giovane cooperante che, dopo aver deciso di portare la sua opera umanitaria a quelle stesse popolazioni che il governo italiano vorrebbe fuori dai suoi confini, ritorna con un nome straniero e con l’abito di una religione che per molti italiani significa terrorismo?
Di che cosa parlano le illazioni sul suo sorriso, la mano sul ventre, la dichiarazione di essere stata trattata con rispetto, se non di una relazione o sottomissione all’“altro” – il diverso, il “barbaro” torturatore -, a cui il sesso femminile sembra più incline, ancora una volta per sua “natura”?
Qualche commentatore ha parlato, a questo proposito, di Sindrome di Stoccolma, senza tener conto che è già chiara, nella definizione che ne viene data, la chiave di lettura che ci conduce al rapporto di potere tra i sessi, a quel perverso annodamento tra amore e violenza che è il sessismo, intreccio di potere e vita intima – sessualità, maternità, legami famigliari -, tale da far sì che le donne, sia pure forzatamente, facessero propria la visione del mondo di chi è per loro un “tenero figlio”, prima che un padrone e aggressore.
“Il soggetto affetto dalla Sindrome di Stoccolma – si legge su Wikipedia – durante i maltrattamenti subiti prova un sentimento positivo nei confronti del proprio oppressore, che può spingersi fino all’amore e alla totale sottomissione volontaria (…) viene ritenuta un caso particolare del fenomeno più ampio dei legami traumatici, ovvero quei legami fra due persone delle quali una gode di una posizione di potere nei confronti dell’altra che diviene vittima di atteggiamenti aggressivi o di altri tipi di violenza”.
Anche senza riferimento agli “stupri etnici” – l’arma di guerra per umiliare il nemico, colpirlo nella “purezza” della sua progenie -, per far cadere sulle donne la vergogna e la colpa del tradimento della patria e dei suoi valori, basta il pregiudizio sessista, antico quanto la nostra storia greco-romano-cristiana, che attribuisce alle donne una “immensa vulnerabilità” e una “profonda organica mendicità”.
“… bisogna rammentarsi dell’immensa influenzabilità, meglio, benché più brutto a dirsi, imprimibilità della donna. In questo libro non abbiamo fin qui ancora dato peso a tale facile accettazione delle opinioni altrui (…) questa capacità di impregnarsi delle opinioni maschili, questa accettazione di un imperativo per lei completamente eteronomo” (Otto Weininger, Sesso e carattere, 1903)
Il fatto che Silvia Romano, dopo mesi di sofferenza fisica e psichica non abbia avuto parole di rabbia e disprezzo per i suoi sequestratori, espressione del peggior fondamentalismo islamico, è stato interpretato non a caso come una possibile relazione sentimentale con qualcuno di loro.
La parola “impregnarsi”, pur non essendo stata usata, si può dire che è ricomparsa di fatto nel suo duplice significato: di gravidanza e di interiorizzazione del pensiero e della volontà dell’altro.
Le tante congetture sulla conversione di Silvia Romano – se sia stato obbligo o scelta – hanno senso solo se riportate a un interrogativo più generale: che significato abbia per le donne un “consenso” posto all’interno di un dominio del tutto particolare, che passa attraverso le vicende più intime e che forse per questo emerge alla coscienza con tanta lentezza.
Pubblicato su Il Riformista del 22 maggio e qui con l’autorizzazione dell’autrice. Altri articoli di Lea Melandri sono leggibili qua.
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