Partiamo dal principio. Il Decreto Rilancio comporta un indebitamento netto aggiuntivo rispetto al quadro preesistente
che ammonta a 55 miliardi di euro. Le dimensioni del deficit aggiuntivo
– un altro modo per definire l’indebitamento netto – risultano
significative, soprattutto perché i 55 miliardi vanno a sommarsi ai 20 già previsti nel Decreto Cura Italia e, naturalmente, all’indebitamento netto programmatico, che era stato stimato nella Nota di Aggiornamento al DEF (NADEF) intorno ai 40 miliardi di euro
per il 2020. Insomma, il disavanzo di bilancio complessivo per il 2020 è
considerevole e stimato al 10,4% del PIL dai più recenti indicatori di finanza pubblica elaborati dal MEF, al netto di ipotetici nuovi interventi del Governo.
Depurando il disavanzo di bilancio dalla spesa per interessi (circa 60 miliardi, il 3,7% del PIL) – che sappiamo avere un effetto macroeconomico trascurabile – otteniamo un disavanzo primario pari al 6,8% del PIL.
Siamo di fronte a uno stimolo fiscale netto di circa 110 miliardi di euro e, nonostante uno stimolo di tale portata non si verificasse da decenni, questo è ancora insufficiente vista l’enorme caduta della produzione, che l’Istat ha stimato al 29% nel mese di marzo.
C’è voluta una pandemia globale per costringere la classe dirigente di questo Paese a ricorrere a politiche fiscali espansive,
possibili, peraltro, solo finché permane la ‘sospensione’ delle regole
europee di Maastricht e del Fiscal Compact. Purtroppo, la dimensione di
questo stimolo rischia di risultare insufficiente di fronte alla portata
della crisi economica, senza precedenti in termini qualitativi e
quantitativi. Si consideri che il nuovo Documento di Economia e Finanza
(DEF) stima una caduta dell’8% del Pil, anche al netto dell’importante stimolo fiscale appena varato.
Quando i guardiani dell’austerità nostrani chiederanno il ritorno allo status quo, ossia alla disciplina di bilancio, con l’appoggio delle istituzioni europee, sarà dunque importante battersi per far sì che le misure di stimolo fiscale non restino solo episodiche toppe
per le emergenze, ma diventino uno strumento strutturale per perseguire
la piena occupazione e un miglioramento generalizzato delle condizioni
di vita. Questo è un primo campo di battaglia per chi si pone a difesa degli interessi di chi ha bisogno di lavorare per vivere.
Ma ce ne sono molti altri. Al di là della dimensione dell’intervento pubblico, ciò che conta è anche la destinazione
delle risorse stanziate, i diversi capitoli di spesa, che ci aiutano a
comprendere chi beneficia delle diverse misure previste dal Decreto
Rilancio. Cerchiamo di fornire innanzitutto un quadro il più possibile
esaustivo. Grossolanamente, il Decreto Rilancio destina circa 25,5
miliardi a lavoro e famiglie (pari al 46% della misura), 15,5 miliardi
alle imprese (28%) e i restanti 14 miliardi alla Pubblica
Amministrazione (26%), all’interno dei quali sono conteggiate le risorse
destinate a scuola, sanità ed enti locali.
La quota principale delle risorse dedicate al lavoro (16 miliardi) è assorbita dalla proroga di 9 settimane della Cassa Integrazione Guadagni
(CIG). Il Decreto Cura Italia aveva finanziato la CIG per marzo e
aprile, ma si è rivelato insufficiente dal punto di vista degli
stanziamenti (5 miliardi), tant’è che 3 miliardi su 16 del Decreto
Rilancio sono destinati a coprire questi ammanchi. Le restanti risorse
servono a prolungare di 5 settimane la CIG nel periodo che va da maggio
ad agosto – solo qualora i datori abbiano già usufruito delle prime nove
settimane – e di altre 4 settimane nel periodo settembre-ottobre.
L’elemento più rilevante qui è la suddivisione in due tranche
delle risorse, frutto soprattutto delle pressioni della Ragioneria dello
Stato per garantire le coperture. Rimane da verificare se il meccanismo
stabilito sia adeguato a garantire le risorse necessarie, senza
precludere il ricorso alla CIG per i lavoratori delle imprese che
potrebbero richiederla per periodi più estesi. C’è da aggiungere che
l’erogazione della CIG ha subito ritardi nei primi mesi dell’emergenza,
in particolare per quella in deroga, a causa dei diversi passaggi
burocratici tra Regioni e INPS. Questa lentezza si concretizza per i
lavoratori in una perdita secca dello stipendio, senza che questa sia in
alcun modo attutita dal sussidio in questione (si veda, tra i mille
casi, l’esempio degli AEC a Roma).
Tra le altre misure più consistenti, c’è il rinnovo dell’indennità per gli autonomi (4
miliardi) – che include un nuovo trasferimento di 600€ per il mese di
aprile, e un ulteriore aiuto di 1.000€ per maggio, quest’ultimo,
tuttavia, condizionato a una perdita del 33% del fatturato nel secondo
bimestre 2020, rispetto al medesimo periodo del 2019. Questa condizionalità
pare incomprensibile, innanzitutto per la mancanza di una soglia
massima di reddito per accedere alla misura, in secondo luogo perché
penalizza gli autonomi che non hanno subito perdite gravi tra marzo e
aprile, ma potrebbero subirle nei mesi estivi.
Per il Reddito di Emergenza
si stanziano poi 960 milioni, destinati alle famiglie con un ISEE
inferiore ai 15.000€. Oltre alle scarse risorse stanziate, questo
trasferimento è soggetto a una stringente condizionalità e dà diritto ad
una erogazione massima di 800€ in due quote mensili. Troviamo infine
l’indennità per i lavoratori domestici (500€ mensili per aprile e
maggio), il rifinanziamento della NASPI e dei congedi parentali e un bonus vacanze per le famiglie (valore complessivo di ben 2,4 miliardi).
Il Decreto Rilancio prevede infine l’estensione del blocco dei licenziamenti fino a metà agosto, al netto del vergognoso vuoto giuridico
che si è creato dal 16 maggio – data in cui si esauriva quello
precedente, imposto dal Cura Italia – alla definitiva pubblicazione in
Gazzetta, così come la sospensione del Decreto Dignità
per quanto riguarda il rinnovo dei contratti a termine (300.000 al mese,
ad oggi), che potrà essere effettuato senza apporre le causali,
previste nel suddetto decreto. Due fattori da tenere bene a mente.
Per quanto riguarda le imprese, la misura più cospicua è costituita dai contributi a fondo perduto per le piccole imprese
(6 miliardi), un trasferimento per le aziende con un giro d’affari
inferiore ai 5 milioni, che varia in una forbice tra 1.000€ e 40.000€ a
seconda della perdita di fatturato subita, rispetto agli stessi mesi del
2019.
Un’altra misura – richiesta e infine strappata da Confindustria – è il taglio una tantum dell’IRAP (4 miliardi), ossia
la cancellazione a giugno dell’imposta regionale per le attività
produttive per le imprese con un fatturato inferiore ai 250 milioni,
relativa al saldo 2019 e all’acconto 2020. Questa misura appare in tutta
la sua gravità se si considera che queste mancate entrate riducono il
gettito a disposizione delle Regioni per finanziare il Sistema Sanitario
Nazionale, cui l’IRAP contribuiva nel 2017 con 20 miliardi (17%), di cui 13 a carico delle imprese. Per come è organizzato il finanziamento al SSN,
questa misura implica che, per mantenere inalterata la spesa in Sanità,
il minor gettito sarà compensato da un impegno maggiore da parte dello
Stato. Si tratta di una riorganizzazione che non servirà ad aumentare
complessivamente il finanziamento al SSN, bensì a coprire l’ammanco
dovuto al taglio dell’IRAP. Una riduzione del contributo dei
profitti alla sanità pubblica che assume i tratti di una politica
redistributiva dal basso verso l’alto, e che rischia di aprire le porte al ricorso al MES, sempre più in discussione dopo la decisione di Francia e Spagna di evitare questo strumento.
Tra le altre misure dedicate alle imprese, troviamo una serie di crediti d’imposta
previsti in diverse fattispecie, dall’adeguamento dei luoghi di lavoro
alle nuove prescrizioni sanitarie (2 miliardi) allo sconto sull’affitto
dei locali (1,5 miliardi), cui si aggiunge uno sconto sulle bollette dal
valore di 600 milioni. Tra queste misure anche l’ecobonus,
una detrazione IRPEF al 110% per interventi di efficientamento
energetico a beneficio del settore edile, con la novità della cessione
del credito.
Il mondo imprenditoriale è infine riuscito ad aggiudicarsi un pacchetto di differimento nel pagamento delle imposte, che in alcuni casi diventano cancellazioni definitive,
come nel caso del settore turistico, dove si prevede l’eliminazione
dell’IMU per alberghieri e balneari. E poi, ancora, 450 milioni
destinati alla filiera agricola e altrettanti all’internazionalizzazione
delle imprese.
La terza gamba del Decreto Rilancio è costituita dalle misure previste per la Pubblica Amministrazione. Tra queste figurano i 3,5 miliardi per gli Enti Locali (tra cui 500 milioni per il trasporto pubblico) e 1,5 miliardi per le Regioni. Allo stesso modo, il Decreto stanzia 3,5 miliardi per la Sanità
– finalizzati all’assunzione di 9.600 infermieri, all’incremento di
quasi 6.000 posti letto di terapia intensiva (+115%) e al potenziamento
del servizio domiciliare – e 1,5 miliardi per la Protezione Civile.
Una buona notizia a fronte della crisi sanitaria e delle sue possibili
ricadute, che rischia però di essere completamente insufficiente per
controbilanciare la contrazione costante della spesa sanitaria in termini reali, causata dall’applicazione delle severe politiche di austerità di matrice europea avviate dal governo Monti.
L’intervento sulla scuola
dovrebbe produrre 16.000 assunzioni aggiuntive suddivise tra concorso
ordinario e straordinario, senza oneri aggiuntivi per le finanze
pubbliche. Si prevede in ogni caso lo stanziamento di 1,45 miliardi
suddivisi tra 2020 e 2021 e destinati alla didattica a distanza, alla
sanificazione degli ambienti e al digital divide. Poca roba, verrebbe da dire, a fronte delle gigantesche sfide poste dalle problematiche menzionate. Per l’università e la ricerca si
ha infine un intervento da 1,4 miliardi, con l’incremento di 3.333
ricercatori nel reclutamento 2021, 300 milioni per il diritto allo
studio e altri 500 milioni per l’Università.
Il Decreto Rilancio è costituito in larga parte da trasferimenti,
ossia da misure tampone che servono a mettere una pezza sui problemi
strutturali dell’economia italiana che la crisi ha reso lampanti. In un
momento di crisi è sacrosanto che lo Stato intervenga a favore di
lavoratori e imprese in difficoltà. L’insieme delle misure rischia
tuttavia di essere insufficiente, anche a causa della loro iniqua
distribuzione. Colpiscono particolarmente le condizioni stringenti e la
brevità dei sussidi destinati agli autonomi e ai percettori del Reddito
di Emergenza, soprattutto se confrontate ai trasferimenti a pioggia
destinati alle imprese.
Nel caso dell’IRAP, la soglia massima a
250 milioni di fatturato suggerisce che non si stia tutelando la
capacità produttiva in sé, salvando le PMI a rischio fallimento. Si
stanno piuttosto garantendo margini di profitto ad imprese di medie
dimensioni, anche nel caso in cui queste non abbiano subito perdite. I
contributi a fondo perduto mettono poi in luce l’ipocrisia della classe
imprenditoriale, che strilla continuamente contro l’assistenzialismo di
Stato quando questo va a beneficio dei lavoratori o dei disoccupati, ma
si batte fieramente per ottenere fondi senza alcuna condizionalità.
Il Ministro Gualtieri balbettava mentre spiegava la misura, e faceva bene ad aver paura. Diversamente da quanto dichiarato dal segretario del PD Zingaretti,
il cui obiettivo è garantire la pace sociale, questo è piuttosto il
momento di organizzare la rabbia montante nel Paese, soprattutto tra
coloro che non hanno ancora ricevuto i sussidi e tra quelli a cui questi
non bastano per vivere degnamente. Se non lo facciamo, possiamo star
certi che le esigenze dei lavoratori e dei disoccupati non saranno
adeguatamente considerate nella suddivisione delle risorse destinate al
governo della crisi.
Da un punto di vista macroeconomico, sono del tutto insufficienti le misure destinate ad aumentare l’occupazione pubblica:
in Italia mancano 1,5-2 milioni di lavoratori dipendenti per
raggiungere il livello medio dell’Eurozona e dei principali Paesi
europei. In questo quadro 28.000 assunzioni sono poca cosa, anche a
fronte di una disoccupazione a due cifre e destinata a salire.
In aggiunta a ciò, manca un programma di
investimenti destinato ad ammodernare il sempre più inadeguato sistema
infrastrutturale. Il no agli investimenti riflette la volontà di
lasciare lo Stato in disparte, senza che quest’ultimo possa interferire
con il libero funzionamento del mercato per risolvere problemi
strutturali, quali disoccupazione e infrastrutture fatiscenti. Stiamo
sprecando l’ennesima occasione, con la certezza che finita l’insperata
parentesi fiscale espansiva ci troveremo nuovamente sul groppone i
soliti problemi, pesanti come macigni. Qui troviamo un altro grande
campo di battaglia intorno al quale organizzare gli interessi del
lavoro.
C’è poi un ultimo punto su cui vale la
pena tornare, ossia la totale assenza di una visione complessiva per i
prossimi anni, segnalata in particolare dal rifiuto dell’attore pubblico di farsi carico della programmazione e di una politica industriale interventista. D’altro canto Gualtieri lo ha detto in conferenza stampa, “noi
concepiamo la politica industriale come la capacità di dare una
prospettiva nel segno della sostenibilità, dell’innovazione e della
digitalizzazione, non nel segno della governance, non c’è alcun intento
di interferire nella governance delle aziende”.
L’opportunità di ripensare un modello di
sviluppo fallimentare non è contemplata, neanche nel momento in cui una
pandemia senza precedenti accelera il processo di trasformazione
dell’organizzazione produttiva internazionale, producendo in tutto il
mondo un dibattito circa l’urgenza di un ribilanciamento tra Stato e mercato a favore del primo. Non ci stancheremo di ripeterlo, ciò di cui abbiamo bisogno è una programmazione finalizzata alla socializzazione degli investimenti e alla trasformazione della composizione della produzione.
Non uno Stato forte e presente in sé, ma uno che metta la produzione al
servizio della collettività, riducendo la sfera del privato e con essa
lo sfruttamento. Purtroppo, non c’è peggior sordo di chi non vuol
sentire.
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