I tempi in cui ci troviamo non sono
facili: i popoli europei sono stretti tra la morsa a tenaglia della
pandemia da un lato, e delle pericolose strade che portano al Mes dall’altro. Al momento, ad essere chiaramente visibili sono il terribile effetto del virus, e l’intransigente attaccamento delle istituzioni europee all’austerità
che, seppur apparentemente ammorbidita da provvedimenti di corto
respiro dettati dall’eccezionalità del momento, è pronta a riprendersi
la scena non appena l’emergenza si sarà attenuata. Eppure, non c’è da star sereni
neanche per l’immediato futuro. Se infatti tutti speriamo che il
Coronavirus possa via via divenire un avversario più gestibile, già
vediamo chiare avvisaglie dell’inasprimento dei toni per quanto riguarda
la gestione delle spese necessarie alla gestione della crisi.
Si prospetta per l’Italia, così come per
praticamente tutte le nazioni fortemente colpite dal virus, un fine
d’anno segnato da cospicui aumenti dei deficit pubblici (il rapporto
deficit/PIL salirà dall’1.6% all’11.1% per Italia, dal 2.8% al 10.1% in
Spagna, e da un avanzo dell’1.4% a un disavanzo del 7% in la Germania).
Questo comporta, insieme alla rovinosa caduta del Pil, un aumento
considerevole del rapporto debito/Pil, stimato per l’Italia intorno al
150-160% a fine 2020. Con opportunistico pudore, le armate
dell’austerità non si sognano di ostacolare i programmi di spesa in
deficit nell’immediato. Tuttavia, strisciante, già serpeggia una
velenosa e sibillina domanda: “Saremo indebitati, sarà un problema?”.
Le voci dell’austerità sul tema si stanno moltiplicando, come possiamo ben vedere dalle parole di Lucrezia Reichlin, nota economista liberista e membro dei CdA di importanti aziende e banche italiane, e di Carlo Messina,
CEO di Banca intesa San Paolo. Tuttavia, seppur forti e molto
ascoltate, questo tipo di invettive hanno perso parte della loro forza
virulenta. D’altro canto eravamo stati abituati a sentirci promettere i miracoli dell’austerità.
E già dopo qualche anno, viste le tremende conseguenze, era avvenuta
una mutazione del discorso dei ‘competenti’, che non era più incentrato
sui miracoli dell’austerità quanto sulla sua necessità,
dettata dal tenere i conti in ordine. Ecco che, come dicevamo, seppur
non meno pericolose, le favole incentrate su un messaggio già conosciuto
e screditato dovrebbero attecchire meno. Ciò che invece rappresenta un
vero e proprio nuovo ceppo del virus dell’austerità è quello
‘ambientalista-zen’, ben rappresentato dalle recenti parole di Enrico Giovannini,
ex ministro del Lavoro del Governo Letta. Il discorso di quest’ultimo
si basa sulle seguenti considerazioni: per fortuna, grazie
all’intervento in deficit dello Stato “l’impatto sui redditi delle
famiglie sarà molto contenuto e verrà quasi completamente recuperato nel
2021”, ma questo comporterà un enorme aumento del rapporto debito/PIL. A
questo punto a Giovannini sembra ineluttabile domandarsi se “nel
decidere come usare i ‘loro’ soldi, i decisori politici hanno
considerato il fatto che sono anni che i giovani chiedono una sterzata
decisa nelle politiche pubbliche a favore di un modello di sviluppo
diverso, basato sul concetto di sostenibilità?”. La conclusione è che la
sostenibilità va assicurata in termini di capitale ambientale (tutela
di natura e suolo, lotta all’inquinamento), umano (assicurare la
formazione e istruzione delle persone), sociale (emersione del lavoro
nero e dell’evasione fiscale) ed economico (corretta gestione delle
finanze pubbliche). Chi si sognerebbe mai di essere contro questa ricetta?
Tuttavia, poiché il diavolo risiede nei
dettagli, Giovannini ci serve una polpetta avvelenata esprimendo una
preoccupazione per le future generazioni. E’ una
preoccupazione, questa, che fa emergere tutta la logica che anima il
discorso dominante, sul tema del debito pubblico. Giovannini, infatti,
presenta il debito pubblico come un fardello insostenibile per le future
generazioni che saranno costrette a ripagarlo tramite maggiori tasse.
Il punto, però, è che il debito pubblico, tanto più in una situazione di
alta disoccupazione, permette a uno Stato di crescere, creare lavoro e
ricchezza tanto per le generazioni presenti quanto per le generazioni
future. Come al solito, non esiste alcun conflitto intergenerazionale
che possa giustificare le politiche di austerità le quali, invece,
generano povertà e miseria tanto tra le generazioni presenti che tra
quelle future. Al contrario, le finanze pubbliche sono assolutamente
necessarie all’interno del discorso sulla sostenibilità ambientale,
economica e sociale, esse sono il volano della sostenibilità per il
mondo futuro. Il settore pubblico, proprio per assicurare una
transizione verso una produzione sostenibile, proprio per consentire a
tutti l’accesso ad istruzione e sanità gratuite, dovrebbe impegnarsi a
conseguire deficit sostenuti come importo e continui nel tempo. Insomma,
concordiamo con Giovannini sulla necessità di garantire la
sostenibilità in senso lato, ma proprio a tal fine le finanze pubbliche
devono essere usate come mezzo per raggiungerla e non subdolamente
presentate come fine in sé, da tutelare mediante rigore sui conti
pubblici. Le politiche espansive e un ruolo attivo dello Stato in economia sono, infatti, la sola via per garantire sostenibilità e uguaglianza.
Questo discorso ci porta a concludere due
cose. La prima è che possiamo tranquillamente fare a meno di un
discorso che si vorrebbe socialmente impegnato, quando in realtà è
disegnato apposta per dare alla austerità una patina benevolente. Dipingere di verde l’austerità
non ci consegnerà un Pianeta più sostenibile, ma di qualsiasi colore
essa sia, lascerà solo macerie e non intaccherà l’ordine costituito. La
seconda è che, ancora una volta, per capire perché il debito pubblico
sia un problema tocca rivolgersi non a fatiscenti principi di equità
intergenerazionale, quanto piuttosto ai meccanismi istituzionali di una
gabbia europea che non smette di soffocare neanche di fronte a drammi
economici e sociali senza precedenti.
Nessun commento:
Posta un commento