Nonostante da più parti si cerchi di convincerci del contrario, l'educazione non è neutra né equidistante, ed educare è un'azione politica.
Benchè i
sistemi di potere cerchino in diversi modi di escludere dall'aula ogni
discorso perturbatore e critico sull'ordine sociale (e sul fine stesso
della scuola), puntando sull'idea di una scuola tecnicamente,
didatticamente e burocraticamente perfetta che sia oasi artificiale
situata in un limbo, estraneo alle conflittualità del tempo, del luogo e
delle relazioni in cui viviamo, gli stessi sistemi di potere si
adoperano in realtà per veicolare, all'interno delle aule, una visione
del mondo a tutto vantaggio del sistema capitalistico globale, o
perlomeno a eliminare qualsiasi visione altra, antagonista a quel
modello. Dunque, mentre parlano di “neutralità”, di “lasciare la
politica fuori dalla scuola”, tutto nella scuola è politica, dalle
modalità di gestione di studenti e insegnanti ai programmi ai contenuti.
L'aveva capito Don Milani
(che cito benchè non sia uno dei miei preferiti), o Paulo Freire, e
perfettamente l'aveva capito Howard Zinn, storico radicale statunitense,
che appunto per questo nel suo “Storia del popolo americano” tenta (e
in gran parte riesce) di spostare la narrazione storica dalla
prospettiva, consueta nei libri scolastici, dei governanti, dei
conquistatori, dell' “interesse nazionale”, verso quella dei “perdenti”,
degli oppressi, dei lavoratori, delle minoranze, delle donne, poiché
“la storia di qualunque paese, presentata come fosse la storia di una
famiglia, nasconde la realtà di feroci conflitti di interesse (che
talvolta esplodono, ma più spesso vengono repressi) tra vincitori e
vinti, padroni e schiavi, capitalisti e lavoratori, tra gli oppressori
razziali e sessuali e gli oppressi”1.
La semplificazione e la selezione storiografiche sono inevitabili, e
Zinn lo sa bene; ma sa anche che, a differenza della cartografia, “la
distorsione dello storico, invece, non è tecnica ma ideologica; viene
diffusa in un mondo di interessi contrastanti, dove scegliendo di
sottolineare un certo aspetto si sostiene (che lo storico voglia o no)
qualche interesse economico, politico, etnico, nazionale o sessuale”2.
L'importanza del punto di vista, dunque. Non per eliminare i punti di
vista avversi al proprio, ma quantomeno per l'onestà intellettuale di
rendere nota al lettore la propria posizione, che è comunque sempre “di
parte”. Onestà ancor più importante se il lettore è uno studente.
Questa selezione dei
contenuti ideologica e strumentale al potere avviene in modi diversi.
Parlando dell'invasione europea delle Americhe, Zinn afferma: “Sul
passato si può mentire direttamente, oppure si possono omettere fatti
che suggerirebbero conclusioni inammissibili” ma si tratta di tecniche
pericolose per il potere perchè “la menzogna aperta, così come
l'omissione, rischia infatti di essere scoperta e di indurre il lettore a
diffidare dell'autore. Esporre i fatti seppellendoli sotto una massa di
altre notizie, invece, è come dire al lettore con una noncuranza
contagiosa: sì, lo sterminio c'è stato, ma non è poi così importante;
non deve pesare troppo sul nostro giudizio finale, né influenzare ciò
che facciamo”3.
Queste modalità sono
tipiche dei testi di storia e di economia politica dedicati agli
studenti delle scuole superiori o dell'università, ma anche di testi
apparentemente “neutrali” come quelli di geografia per le scuole medie.
Nessuno stupore, dal momento che da sempre il controllo, fisico ma anche
simbolico, dello spazio ha chiare implicazioni politiche, ma è
interessante notare come testi diversi utilizzino a grandi linee le
stesse tecniche citate da Zinn: fornire informazioni di parte e/o
menzogne ma, in misura maggiore, eludere informazioni importanti o
eliminare dal discorso qualsiasi cenno di problematizzazione di eventi o
situazioni, utilizzando un linguaggio astratto, falsamente neutrale ed
equidistante e, per questo, ancor più pericoloso. Il tutto al fine di
far assumere il punto di vista dominante, cioè quello del capitalismo
globale, utilizzando l'efficace tecnica del, per dirla con Chomsky,
dibattito inutile tra posizioni che vengono fatte passare per opposte ma
che in realtà sono solo sfumature diverse all'interno della medesima
posizione, che è l'unica consentita (il falso dibattito che peraltro è
l'unico accettato e propugnato anche nei media mainstream).
Ho analizzato tre testi di geografia per la terza media4,
tutti pubblicati nel 2009-2010. Si tratta di testi che, come da
programma, trattano il mondo e gli stati extraeuropei. Molto
interessanti dunque per farsi un'idea di quale visione del mondo,
appunto, si voglia veicolare.
Tutti i testi, seppure
con modalità differenti, distinguono i paesi in una specie di classifica
che, sia essa basata sul Pil o sul più politicamente corretto Isu
(indice di sviluppo umano), si risolve in una dicotomia a scelta fra
paesi ricchi/paesi poveri, Sud del mondo/Nord del mondo, paesi
sviluppati/paesi arretrati. La classifica più completa la offre Il pianeta dell'uomo,
che propone paesi sviluppati, paesi avviati a uno sviluppo maturo,
paesi a sviluppo debole, paesi sottosviluppati. Si tratta di termini
ormai entrati a far parte del linguaggio usuale e che quindi, purtroppo,
raramente vengono problematizzati. Sarebbe essenziale, invece, anche
come proposta didattica e soprattutto considerato che la classe standard
è composta da alunni di provenienze diverse, chiedersi cosa si intenda
per “sviluppo”: sviluppo di chi, di cosa? Della qualità di vita della
popolazione, o dell'economia, o degli scambi commerciali, o delle
libertà politiche? Sviluppo verso cosa? l nuovo geoviaggi ci dice che “il
termine sviluppo è spesso usato come sinonimo di crescita: è un po'
come riferirsi allo sviluppo di una persona nell'età in cui si continua a
crescere […].
In campo economico,
infatti, ci si aspetta che il Pil segnali ogni anno la crescita o
mancata crescita di un'economia. In realtà, anche nel linguaggio
quotidiano, siamo abituati ad associare il concetto di sviluppo
economico non solo alla crescita ma pure all'identità dell'economia di
un Paese, in particolare al fatto che essi sia prevalentemente agricola o
industriale, o che gli stabilimenti industriali siano a tecnologia
avanzata o arretrata” (p.86), definizione che, al di là dell'idiozia
dell'esempio “corporale” iniziale, evidenzia come il punto di vista sia
quello astratto dell'economia, non quello della vita delle persone. Il pianeta dell'uomo
invece ci illumina con “i paesi in via di sviluppo sono avviati sulla
strada del progresso, disponendo delle risorse politiche, sociali ed
economiche necessarie a entrare in una fase di sviluppo maturo e
stabile” (p.119). L'assurdità linguistica e l'inutilità concettuale di
questa definizione sono evidenti; questo è ciò che insegniamo ai nostri
alunni.
I vari paesi, comunque,
si situano all'interno di questa suddivisione come se fossero entità
sociali uniche e monolitiche (la grande “famiglia” di cui parla Zinn),
come se al loro interno non vi fossero enormi contraddizioni sociali ed
economiche. Il dilemma è piuttosto “come classificare per esempio la
forte ascesa di potenze come la Cina che fanno parte del Sud del mondo?”
(Mondi & paesaggi p.59). Basterebbe forse dire che
all'interno di ogni paese, Sud o Nord che sia, esistono élites ricche
che, controllando i sistemi di produzione e finanza, li rendono
“ricchi”, dal punto di vista di questa classifica; questo non viene
fatto perchè, appunto, le differenze di reddito, e quindi di classe
sociale, all'interno della popolazione di ogni paese non sono prese in
considerazione. Il testo Il pianeta dell'uomo giunge ad affermare
che “nelle nostre città si sta bene: l'aria non è sempre pulita, ma la
vita scorre abbastanza tranquilla e abbiamo molto più di quello che ci
serve per vivere” (p.113). Ora, io vorrei che questa frase la leggessero
i milioni di disoccupati, senza-casa, cassa-integrati che vivono nelle
nostre città per sapere cosa ne pensano.
Ma perchè, secondo questi
testi, questi paesi sono “poveri”/”sottosviluppati”/ecc...? Come hanno
fatto a perdere la competizione nella gara globale per lo “sviluppo”, o a
rimanere indietro rispetto agli altri? Quali fattori determinano questo
“arretramento”? Il testo Il pianeta dell'uomo spiega “perchè
esistono tante differenze di benessere tra i popoli” (p.118); ovviamente
la formulazione corretta sarebbe dovuta essere “perchè esistono tante
differenze di benessere tra le classi sociali che compongono la
popolazione di un paese”, ma le classi sociali non vengono mai
menzionate. Ebbene, le cause individuate sono per esempio l'alto tasso
di natalità (“In Asia, Africa e America Latina è concentrato oltre l'80%
della popolazione mondiale, in continua crescita a causa di un alto
tasso di natalità”), tale per cui “i loro abitanti dovranno quindi
spartirsi una ricchezza assai limitata”.
In soldoni: queste
persone sono povere perchè sono troppe e non ci sono ricchezze per
tutti. Infatti, “le risorse naturali sono limitate, mentre la
popolazione mondiale e le sue necessità – prima di tutto alimentari e
idriche – crescono continuamente, e di più nei Paesi poveri”. E'
interessante analizzare questo discorso perchè convoglia elementi di
verità (la finitezza delle risorse, che riporta peraltro a tutto il
discorso delle energie rinnovabili, green economy ecc.. caro alle élites
capitaliste progressiste) con falsità evidenti, cioè che le risorse
alimentari e idriche sarebbero assorbite in misura sempre maggiore dai
Paesi poveri (ancora considerati peraltro come un tutto omogeneo). Mica
dalle industrie, allevamenti, impianti turistici di Usa ed Europa dei
cui prodotti e servizi beneficiano le classi benestanti di tutto il
mondo. Andiamo a dire a un contadino africano o sudamericano che ha
troppe necessità alimentari e idriche e vediamo se ci prende a bastonate
come dovrebbe.
Per amor di mezza verità,
il testo continua dicendo che però “la parte maggiore di queste risorse
sono sotto il controllo degli Stati più ricchi del mondo, che si
trovano nel Nord della terra. Non sono quindi immediatamente disponibili
nel Sud, dove ce n'è più bisogno. Anche in questo caso c'è un rapporto
iniquo tra ricchezza e necessità”. Ora, qui dal punto di vista
linguistico e concettuale questa frase è illogica, di per sé e rispetto a
quanto detto prima. Prima ci dicono che la popolazione dei paesi poveri
è troppo numerosa rispetto alle poche risorse, e che queste persone
hanno troppe necessità, poi che però queste risorse sono “controllate”
(sia mai dire “sfruttate, rubate”) dai paesi ricchi (ancora una volta,
come se la popolazione di questi paesi fosse tutta composta da
“ricchi”), ma il problema di fondo non è questa ruberia, bensì in
generale che dove c'è poca “ricchezza” c'è molta “necessità”. Cosa
significa? Che chi è meno ricco ha più necessità? E ricco di cosa, di
risorse o dal punto di vista del reddito?
A me, francamente, il
significato di questa frase rimane oscuro; e penso lo sia anche per un
alunno di terza media. Parole vuote per non dire che il problema sono le
enormi diseguaglianze nelle possibilità di accedere alle risorse e al
reddito. Ancora, prosegue il testo, “molto dipende dalla diversa
organizzazione delle economie dei singoli paesi”. Giusto, diciamo noi:
serve un sistema economico che permetta a tutti di avere secondo le
proprie necessità e che garantisca una equa distribuzione della
ricchezza… Macchè: serve “un'economia ben funzionante [?] che promuove
lo sviluppo della popolazione [che non si sa cosa significhi] e le
garantisce un più alto livello di reddito [per chi? anche per quelli già
ricchi?]”; tale economia necessita di “conoscenze scientifiche e
tecnologiche, intraprendenza [il mito nordamericano del “siate
imprenditori di voi stessi”], una classe dirigente competente, un
apparato dello Stato efficiente [a fare cosa?] e una società pacifica [o
pacificata?]”.
Eccoci al mantra del
capitalismo globale: tecnologia e intraprendenza manageriale finalizzati
allo “sviluppo”, apparati statali efficienti nel pacificare la società.
Il testo Il nuovo geoviaggi,
ad onor del vero, talvolta assume una linea più sfumata del considerare
le nazioni come entità omogenee all'interno delle quali stanno o tutti
bene o tutti male: trattando il dopoguerra, afferma che un “crescente
benessere si estese a una parte dei cittadini dei paesi industrializzati (corsivo mio)” [cosa successe all'altra parte
non importa] e, più avanti, che, per esempio nel continente americano,
“il controllo, l'accesso e il consumo di tutta questa ricchezza non sono
garantiti a tutti in modo omogeneo, neppure all'interno di uno stesso
paese” (p.302). Ma il discorso non cambia, perchè deve essere lo
sviluppo il fine del controllo/accesso/consumo di ricchezze: ecco allora
che “l'America Latina, pur essendo ricca di risorse, ha un 'deficit
energetico' molto grande, in quanto non riesce a sfruttarle anche per
mancanza di infrastrutture. Questo costituisce un serio ostacolo allo
sviluppo” (p.302). Oltre ad essere falso (il problema dell'America
Latina sono le multinazionali estere che si accaparrano le ricchezze del
sottosuolo, e che costruiscono infrastrutture devastando territori e
popolazioni), il discorso continua a ruotare intorno a un aleatorio e
astratto concetto di sviluppo economico, come si parlasse di una qualche
divinità a cui sacrificare risorse naturali, necessità, diritti e
benessere dei popoli e non, come invece è, di un sistema economico,
quello del capitalismo globale, che è strutturalmente fatto per
permettere il maggiore profitto per pochi proprio a spese di risorse
naturali, necessità, diritti e benessere dei popoli.
Comunque, molti paesi
sono “poveri” o “sottosviluppati” non a causa di questo capitalismo
strutturalmente di rapina, bensì a causa dell' “alto tasso di incremento
demografico; l'assenza di infrastrutture necessarie allo sviluppo
economico” o della corruzione di governi e istituzioni che non ha
permesso di investire in modo appropriato il denaro proveniente dagli
aiuti esteri (Mondi & paesaggi p.110-111). Esempio di tutto
questo è la Nigeria: le sue “enormi ricchezze non bastano però a far
decollare l'economia nigeriana [la divinità-sviluppo], perchè la
corruzione e l'instabilità politica, insieme all'insufficienza delle
infrastrutture, frenano gli investimenti esteri” (p.227).
Ecco qui delineata anche
la soluzione al “sottosviluppo”, cioè gli investimenti esteri: girando
la frase, infatti, il senso risulta essere che gli investimenti esteri
potrebbero far “decollare l'economia”, la quale economia invece rimane
frenata a causa di corruzione e instabilità politica di governi che non
garantiscono nemmeno le adeguate infrastrutture. Ecco qui ancora la
ricetta del capitalismo globale: i paesi “poveri” devono aprire le loro
economie agli investimenti stranieri, garantendo però una relativa
stabilità delle istituzioni, necessaria affinchè i guadagni delle grandi
imprese siano assicurati, e agevolando la realizzazione di
infrastrutture che, appunto, rendano possibile le attività e i profitti
di queste imprese.
A onor del vero, il
medesimo testo accenna anche alle multinazionali come possibile causa di
“povertà e mancato sviluppo” [tra le righe: ciò significa ancora che
l'unica soluzione alla povertà è lo sviluppo stesso], poiché “le
multinazionali che operano nelle regioni più ricche di risorse ne sono
anche proprietarie, quindi le sole di fatto a beneficiare dei guadagni
che ne derivano, sfruttando spesso le popolazioni locali
(neocolonialismo)” (p.110). Tutti e tre i testi riservano una
trattazione più o meno estesa alle multinazionali; ci torneremo poi.
Cosa fanno dunque i
“poveri” dei paesi “poveri”? Come fanno a sopravvivere? Per esempio,
migrano: “A causa della scarsità delle risorse in rapporto alla crescita
della popolazione [ancora], negli ultimi anni, si sono fortemente
intensificati i processi migratori dai paesi più poveri e sovrappopolati
[sic], verso quelli più ricchi e in cui la crescita della popolazione è
minore” (Mondi e paesaggi p.62). Come visione corrente vuole,
vanno a svolgere quei lavori che i cittadini di tali paesi non vogliono
più fare ecc... ecc... Nessun accenno a sfruttamento del lavoro, lavoro
nero né, figuriamoci, nessuna messa in discussione del concetto stesso
di legame tra questo sfruttamento e leggi sull'immigrazione pensate per
rendere ricattabili, quindi appunto sfruttabili, i lavoratori migranti
(e abbassare il costo del lavoro degli autoctoni).
Apprendiamo invece che
queste migrazioni comportano talvolta “problemi nei paesi di
accoglienza” perchè “la legittima richiesta degli immigrati di mantenere
una propria identità culturale giunge in alcuni casi a scontrarsi con
le regole e con le tradizioni dei paesi ospitanti, creando tensioni ed
emarginazione” (p.62). L'unico problema è lo scontro culturale, dunque.
Altro problema:
l'immigrazione clandestina che arricchisce le organizzazioni criminali e
“costringe spesso gli immigrati a vivere in condizioni precarie, senza
alloggio né occupazione e col rischio di cadere vittima di
organizzazioni criminali” (p.63). Come se la “clandestinità” fosse una
condizione indipendente da volontà politiche specifiche, come se fosse
una malattia, un evento naturale, come se a causare questa
“clandestinità” e a rendere impossibile ottenere occupazione e alloggio
non fosse invece la gestione stessa delle modalità di ottenimento dei
documenti di soggiorno (quindi in definitiva della non libertà di
circolazione delle persone).
Oltre al completo
ribaltamento delle cause e degli effetti, appare tra le righe lo
spauracchio di masse di clandestini senza lavoro né casa che assediano
le città e si dedicano ad attività criminali. Con buona pace di tutti i
falsi discorsi su integrazione-tolleranza-ecc... e in ossequio alle
derive securitarie tanto care alle amministrazioni pubbliche odierne.
Il pianeta dell'uomo,
insieme a generalizzazioni che diventano falsità (“a muoversi per primi
sono gli uomini adulti e solo successivamente le mogli e figli”; e le
badanti allora??) arriva a riprendere teorie assimilazioniste che
pensavamo dimenticate affermando che “comincia allora un lungo processo
di inserimento e adattamento alla nuova cultura, che non di rado porta il migrante alla conquista della cittadinanza del paese che lo ospita
(corsivi miei)”, la quale cittadinanza “assicura al cittadino i diritti
politici e civili” (p.87). La cittadinanza dunque come traguardo da
conquistarsi a prezzo di sacrifici (l'adattamento alla cultura del paese
– la cultura dominante, suppongo), o come premio che il paese che ti
ospita ti concede se ti comporti bene; la carota della cittadinanza come
porta che ti apre al meraviglioso mondo dei diritti di cui, è noto,
ogni cittadino gode senza riserve. Ci sarebbe da rotolarsi dal ridere,
se non fosse che questo è ciò che insegniamo ai nostri alunni.
In alternativa alla migrazione verso l'estero, c'è per queste popolazioni la migrazione interna verso la città. Il nuovo geoviaggi
ci dice che, a seguito della Rivoluzione Industriale in Europa, molte
persone già si spostarono dalle campagne alle città poiché “le città
offrivano condizioni e opportunità di lavoro e di maggiore benessere
delle campagne”. Opinabile se non falso. Continua però affermando che,
ai nostri giorni, “molte persone si trasferiscono nelle periferie delle
città nel tentativo di sfuggire la fame e la miseria” (p 66). Giusto, e
la causa risiede sempre in quel capitalismo rapace che depreda risorse e
possibilità di vivere una vita dignitosa nelle campagne. Questo però
non viene detto, e il testo non spiega qui a cosa sono dovute questa
fame e questa miseria; ma altrove, parlando dell'Africa, ci dice che
“nelle campagne il livello di vita è sempre più disastroso (siccità,
raccolti insufficienti, carestie, malattie) [che pare si verifichino in
quanto eventi naturali indipendenti da qualsiasi condizionamento
economico-politico, niente di più lontano dal vero] e spinge la
popolazione verso le città” (p.144) anche perchè “l'agricoltura di
sussistenza” fornisce “raccolti insufficienti al bisogno delle comunità”
(p.154).
Pare dunque che sia
l'inadeguatezza dell'agricoltura di sussistenza a causare fame e povertà
che poi spingono i contadini a lasciare la campagna. Il che potrebbe
anche essere vero, se poi si dicesse anche che questo è provocato dal
settore agroindustriale finalizzato all'esportazione, lo stesso che ci
permette di trovare al supermercato prodotti esotici o fuori stagione o
di utilizzare i super-ecologici sacchetti per la spesa fatti di amido di
mais o i vari biocarburanti che, sempre secondo quel capitalismo green
progressista, sarebbero la soluzione a tutti i mali del mondo.
Questa connessione con le
modalità di consumo della classe media-benestante di molti paesi (del
nord ma non solo) non viene fatta. Almeno questo testo, però, ci dice
che “i terreni dove il clima è più favorevole sono utilizzati per
monocolture di piantagione, destinate alle esportazioni e in mano a
imprese multinazionali, invece che lasciati coltivare alle popolazioni
locali” (p.154).
Mondi e paesaggi è ancora più diretto: “l'Africa subsahariana è la regione più povera del mondo. La maggioranza della popolazione, infatti (corsivo
mio – introduce una causa), vive praticando l'agricoltura di
sussistenza e l'allevamento del bestiame, condotto con mezzi
tradizionali” (p.222). Deduciamo come siano agricoltura e allevamento
tradizionali a determinare (“infatti”) l'estrema povertà. Ma non basta,
perchè “la situazione è aggravata dal forte aumento della popolazione
che ha portato allo sfruttamento eccessivo dei suoli e provocato il
grave fenomeno della desertificazione, riducendo così le superfici
coltivabili”. Sono le troppe persone che lavorano la terra a sfruttare
il suolo, capito?, mica le coltivazioni estensive con macchinari moderni
e prodotti chimici!
Il
testo cita anche le piantagioni, affermando che lì la situazione è
“diversa” (il che, paragonato alla povertà estrema di prima, ci induce
implicitamente a sostituire il termine con “migliore”): lì “con mezzi
moderni si coltivano grandi quantità di prodotti destinati
all'esportazione. I ricavi non sono però in grado di risollevare
l'economia dell'Africa subsahariana perchè le piantagioni sono per la
maggior parte di proprietà straniera e, quindi, anche i ricavi vanno
all'estero”. Un fondo di verità qui c'è, ma il ragionamento che il testo
induce è: se le multinazionali proprietarie fossero autoctone i ricavi
rimarrebbero sul territorio, quindi la popolazione potrebbe godere di
tale ricchezza; il che non è vero, perchè se così fosse tutta la
popolazione degli Usa dovrebbe vivere nel completo benessere, visto che
le grandi imprese che sfruttano anche il territorio degli Stati Uniti
sono per la maggior parte statunitensi.
Ritorna
qui l'identificazione non solo tra popolazione e nazione, ma tra
popolazione e impresa, su cui ci sarebbe molto da discutere. Ma d'altra
parte, come lamentarsi di questa formulazione di fronte al “larghe aree
dell'America meridionale e, soprattutto, la maggior parte dell'Africa
non dispongono purtroppo di risorse agricole sufficienti”? (Il pianeta dell'uomo p.124). Ah si? E allora le multinazionali dell'agroindustria cosa ci vanno a fare?? O di fronte alle affermazioni di Il nuovo geoviaggi
a proposito dell'India, laddove ci dice che “sull'andamento del settore
primario indiano hanno pesato favorevolmente gli effetti della
cosiddetta 'Rivoluzione Verde', per migliorare la produttività agricola
con nuove varietà di sementi e forti progressi nell'irrigazione”
(p.252). Effetti favorevoli non si sa per chi; dovremmo chiederlo ai
contadini del Punjab, uno degli stati indiani all'avanguardia in questo
tipo di nuova agricoltura, stato che è sull'orlo del collasso a causa di
contaminazione delle acque per effetto dei fertilizzanti chimici,
onnipresenza di pesticidi nei terreni e negli animali, siccità e
impoverimento dei suoli, aumento dei malati di cancro, aumento dei
suicidi dei contadini che non potevano ripagare i debiti contratti per
acquistare macchinari e sementi geneticamente modificate. Beh, forse
qualcuno che ci ha guadagnato c'è: appunto le grandi imprese che
producono macchinari e semi brevettati...
Ad
ogni modo, queste persone che lasciano la campagna per recarsi in città
si trovano spesso a vivere in periferie urbane malsane e prive dei
servizi fondamentali: slum, bidonville o come vogliamo chiamarle, le
quali secondo Mondi & paesaggi (che
in un afflato legalitario parla anche di “insediamenti abusivi”-p.67)
sarebbero “prodotto di una crescita urbana incontrollata” e “conseguenza
dell'imponente sviluppo delle periferie urbane” (p.70). Come è noto,
l'estendersi di città e periferie è dettato da forze sovrannaturali e
non da precise pianificazioni politiche ed economiche. Tutti i testi
descrivono queste periferie come caratterizzate da povertà, mancanza di
acqua corrente e luce, sporcizia e alti tassi di delinquenza; e
ovviamente secondo tutti questi testi sono tipiche dei paesi del Sud del
mondo. Nei paesi del Nord si tratta, al limite, di megalopoli in cui
volendo i problemi sono l'inquinamento e la convivenza fra etnie diverse
(Mondi & paesaggi p.107).
Se
è forse vero che i paesi capitalisti dell'Occidente non presentano
situazioni identiche a quelle che potremmo incontrare negli slum di
Lagos o Mumbai, bisognerebbe forse dire che anche negli Usa, per
esempio, ci sono zone periferiche caratterizzate da povertà estrema,
come le riserve in cui sono stati relegati i nativi americani dopo
essere stati derubati delle loro terre5. Ma parlare di questo avrebbe incrinato l'elogio delle meraviglie dello “sviluppo”. Il pianeta dell'uomo
dedica cinque pagine alle grandi città statunitensi; da nessuna parte
però troviamo un accenno alla dissoluzione e al collasso di città un
tempo industriali come Detroit, Youngstown, Chicago, Baltimore.
Philadelphia (cfr. il bel testo di A. Coppola Apocalypse town. Cronache della fine della civiltà urbana).
Anzi, lo stesso testo ci informa che “i cittadini del Nord America
godono di un'alta qualità di vita” con una “mortalità infantile tra le
più basse al mondo, una speranza di vita che supera ampiamente i 75 anni
e una grande disponibilità di medici e strutture sanitarie […] La
popolazione di Canada e Stati Uniti possiede un reddito individuale
elevatissimo” (p.259). Peccato non dire che negli Usa 20 milioni di
bambini riescono a nutrirsi solo facendo affidamento sui Food Stamps, i
buoni-cibo gratuiti forniti dal governo6.
Perlomeno
più avanti il testo ci dice che la società Usa è in effetti percorsa da
forti disuguaglianze sociali che determinano una peggiore qualità della
vita per afroamericani e latinos rispetto ai bianchi. Vero, ma si evita
di dire che non si tratta solo di razzismo, per quanto esso pervada la
società americana in modo sistemico, bensì di una questione di classe.
D'altronde, focalizzare l'attenzione sul solo razzismo (come piace fare
anche a tanta “sinistra” nostrana) serve a distoglierla da un sistema
che continua a emarginare, reprimere e sfruttare ampi strati di
popolazione povera, nera o bianca che sia. Il fatto che ad affidarsi ai
buoni-cibo gratuiti siano spesso famiglie all'interno delle quali
comunque almeno una persona lavora, ma con un salario così basso da non
permettere la sopravvivenza, dovrebbe far riflettere.
A proposito di lavoro, Il nuovo geoviaggi
parla del concetto di “produttività”, affermando che la crescita della
produzione non necessariamente si traduce in maggiore occupazione
“perchè la crescita delle quantità di prodotto può avvenire per una
crescita delle quantità prodotte da ciascun lavoratore, cioè con una
crescita della produttività dovuta sia a una nuova organizzazione del
lavoro, sia all'introduzione di nuove tecnologie” (p.102). Ora, a parte
che questa frase è, a mio avviso, incomprensibile per un qualsiasi
alunno di terza media, e tralasciando il discorso sulle tecnologie, il
testo dovrebbe anche spiegare cosa sia questa “nuova organizzazione del
lavoro”: forse lavoro precario, eliminazione dei diritti dei lavoratori,
aumento dell'orario di lavoro? Non è dato sapere.
Il punto è che, in
generale, le questioni legate all'economia, dunque anche al lavoro,
vengono trattate in modo così astratto da sembrare completamente
sganciate dalla vita delle persone, che è l'ambito che invece dovrebbe
interessare maggiormente, soprattutto nel caso di un testo di studio per
alunni adolescenti.
Un altro esempio: quando Il nuovo geoviaggi
parla di produzione industriale, afferma che “i sistemi industriali dei
Paesi altamente sviluppati hanno infatti tratto grande beneficio dalla
cosiddetta delocalizzazione delle imprese con il trasferimento delle
lavorazioni meno specializzate nei Paesi che offrono una grande quantità
di manodopera a costi molto bassi, e spesso senza adeguate tutele di
legge, dei diritti sindacali e della sicurezza” (p.112). Può anche esser
vero che “i sistemi industriali” sono stati avvantaggiati dalla
delocalizzazione, anche se sarebbe più corretto utilizzare come soggetto
“le imprese”, perchè spesso la delocalizzazione ha portato al
disfacimento dei sistemi produttivi nazionali, ma il fatto è che i
vantaggi per “i sistemi industriali” non si traducono automaticamente in
benefici per la popolazione del paese le cui imprese delocalizzano.
L'utilizzo di un
linguaggio astratto che fa riferimento a categorie altrettanto astratte,
oltre ad essere inadatto a favorire la comprensione degli alunni, è
un'abile strategia per eliminare dal discorso la componente “umana”,
come se l'economia non riguardasse affatto la vita delle persone.
Anche parlare di
“manodopera a costi molto bassi” fa parte di questo uso disumanizzato
del linguaggio; avessero scritto “lavoratori sfruttati e poco pagati”
avrebbe fatto senza dubbio un altro effetto. Ma del resto, “il fine del
processo produttivo consiste nell'incremento e nella accumulazione
costante della ricchezza prodotta, nelle mani della grande borghesia
finanziaria, industriale e commerciale. Le necessità concrete (di
alimentazione, servizi basici, salute) imprescindibili per la
riproduzione della vita degli abitanti del pianeta risultano
praticamente intrascendenti, superflui di fronte al fine ultimo del
capitalismo in ogni sua fase o momento di sviluppo storico: il profitto”7. E questa è la visione del mondo che, in generale, questi testi veicolano.
Lo stesso avviene
parlando della delocalizzazione della produzione “al fine di usufruire
dei vantaggi di un costo minore della forza lavoro” (Mondi & paesaggi p.94): il punto di vista è quello dell'impresa, per cui la manodopera è semplicemente un costo che è vantaggioso abbattere.
Trattando di
delocalizzazione, non si può fare a meno di citare le imprese
multinazionali, “aziende di enormi dimensioni che operano in molti Stati
diversi. Esse mantengono il centro direzionale e le decisioni di
carattere operativo, amministrativo e finanziario nel paese in cui sono
nate. Nel Nord del mondo si trova anche la parte maggiore dei loro punti
vendita, che vanno incontro così ai bisogni dei mercati [i mercati
hanno bisogni o sono le persone?] più ricchi del pianeta. Le attività
produttive, al contrario, vengono impiantate dove è più conveniente: è
la cosiddetta delocalizzazione. Ecco perchè in Cina, per esempio, è
facile trovare fabbriche straniere: la manodopera costa meno, gli orari
sono più lunghi e flessibili, le garanzie sindacali modeste e il governo
favorisce gli investimenti esteri imponendo tasse inferiori a quelle
che l'azienda pagherebbe nel Nord del mondo” (Il pianeta dell'uomo p.130).
Di certo questa
definizione non è né falsa né scorretta, ma ancora una volta manca
l'essenziale esempio concreto di come questo sistema si traduca nella
vita reale delle persone reali. Si sarebbe potuto portare l'esempio, che
so, delle fabbriche di abbigliamento del Bangladesh che ogni tanto
crollano o prendono fuoco, che avrebbe permesso agli alunni di vedere
esemplificati gli effetti di questa corsa ai vantaggi per le attività
produttive.
Lo stesso testo ci dice
che le multinazionali “spesso si trovano al centro di contestazioni:
proprio per il loro enorme potere sarebbero, secondo molti, causa delle
disuguaglianze economiche prodotte dalla globalizzazione stessa”
(p.131). Troppo diretto scrivere che vengono contestate per gli effetti
devastanti che con il loro modo di produzione hanno sulla vita delle
persone e sull'ambiente, e che causano non solo astratte
“disuguaglianze”, ma perdita di dignità di vita, sofferenza e morte.
Ovviamente questo non viene fatto.
Il nuovo geoviaggi,
perlomeno, usa un linguaggio più concreto e ci dice che “le
multinazionali sono spesso accusate di sfruttare il lavoro umano e di
non tutelare adeguatamente l'ambiente in cui operano” (p.90). La cosa
importante è che si sorvola agilmente su ciò che conta, cioè sul fatto
che lo sfruttamento di persone e ambiente è una caratteristica
intrinseca all'operato delle multinazionali, è ciò che permette loro di
accumulare profitti, quindi ciò che rende possibile la loro stessa
esistenza, non una deviazione, una deriva accessoria. Ma dire questo
significherebbe entrare in quel dibattito inaccettabile per il sistema.
Poiché le imprese
multinazionali sono il “motore del mercato globale e, al tempo stesso,
espressione di questo tipo di economia” (Mondi & paesaggi
p.80), non possiamo che concludere esaminando come viene trattata la
globalizzazione nei vari testi. In generale, la globalizzazione viene
definita come interdipendenza fra le varie aree del mondo, flusso
mondiale di risorse, merci, servizi e persone, diffusione di modi simili
di produzione e consumo, diffusione di modelli culturali omogenei. Il nuovo geoviaggi
dedica addirittura un paginone a cinque storie esemplificatrici dei
collegamenti della globalizzazione (abbigliamento, arredamento, banane,
prodotti chimici). Ci sarebbe stata bene qui, come dicevamo sopra, anche
la storia delle fabbriche del Bangladesh o delle maquiladoras
sudamericane, invece niente. Ovvio, se pensiamo che, ad ogni modo, il
punto di vista portato in campo è o quello delle imprese o, al limite,
quello del consumatore borghese occidentale.
Nessuno dei tre testi
ovviamente parla della globalizzazione come dell'azione espansiva del
capitalismo, come mondializzazione del capitalismo in quanto unico modo
di produzione tollerato, né collega in qualche modo il termine
“globalizzazione” al termine “capitalismo”. Solo Il nuovo geoviaggi
parla di liberismo economico in quanto politica “tendente a ridurre il
più possibile l'intervento dello Stato nell'economia” (p.92),
conformandosi alla trattazione standard che presenta come unici elementi
caratterizzanti il liberismo il libero mercato e la libera iniziativa
privata, dimenticandosi di dire che il concetto di libero mercato opera
solo quando conviene a determinati interessi economici e che in realtà
si basa su macro-sussidi statali al capitale e abbandono delle
responsabilità dello Stato per ciò che riguarda le esigenze della
popolazione. Nonostante tutti e tre i testi citino, oltre ai vantaggi,
anche gli svantaggi del modo di produzione globalizzato, in modo
astratto ma volendo anche condivisibile (mancata redistribuzione della
ricchezza a favore delle multinazionali, aumento del divario economico
fra paesi ricchi e poveri, estensione del degrado ambientale, rischio di
crisi economiche dovute a deregolamentazione del mercato,
privatizzazione di servizi pubblici, deindustrializzazione dei paesi
sviluppati, deprezzamento dei prodotti locali, perdita di identità
culturale), non si raggiunge mai il cuore del problema, ovvero il fatto
che la globalizzazione renda il mondo una fabbrica globale dai cui
processi produttivi sono comunque esclusi ampi settori di popolazione, i
quali vedono precarizzate vite e diritti, che sia un sistema proclama
la discipline di mercato sì, ma solo per i poveri, attivando invece
protezioni statali e sussidi pubblici per i ricchi e che, in definitiva,
rende pressochè inutile l'esercizio di quella democrazia formale che
chiamiamo elezioni, dal momento che le decisioni sono prese altrove, da
organismi economico-finanziari internazionali che manovrano i governi
nazionali (cosa che ai governi peraltro non dispiace affatto). Parlare
di democrazia in questi termini, del resto, è qualcosa di completamente
impossibile nell'ambito della cultura scolastica.
Ecco, tutto questo non
viene detto poiché in generale non appartiene al dibattito accettabile;
anzi continuano a propinare la favola dei governi e degli organismi
internazionali come preoccupati per il miglioramento delle qualità di
vita delle popolazioni, di FMI, WTO e BM come organismi che regolano lo
“sviluppo dell'economia”, la cooperazione economica fra stati (che detto
così suona anche bene) e che in generale favoriscono lo “sviluppo
economico”. Nessun accenno a quelle riforme strutturali propugnate da
questi organismi e ai loro effetti devastanti sulla vita delle persone.
Eppure gli esempi, anche di facile comprensione per alunni adolescenti, e
spesso riferentisi proprio ai paesi da cui molti di loro provengono,
non mancano.
Ecco dunque, in breve, che cosa troviamo in un testo standard di geografia per le scuole medie.
C'è anche dell'altro,
ovviamente, e sarebbe interessante analizzare come viene trattato per
esempio il problema dell'acqua (in generale, con la solita retorica
dello spreco, nessun accenno alle privatizzazioni) o, trattando i
singoli Stati, la situazione di Palestina ed Israele (che merita una
analisi a parte), o ancora il ruolo degli Stati Uniti (una chicca:
“Divenuti l'unica superpotenza mondiale in campo militare, politico ed
economico, gli USA hanno finito per rappresentare il principale
avversario di quanti vogliono contrapporsi al mondo Occidentale e sono
diventati bersaglio del terrorismo”, Mondi & paesaggi p.247; ovviamente nessun accenno agli Usa come potenza terroristica globale, come li definisce con cognizione di causa Chomsky).
Insomma, ci sarebbe da
continuare a divertirsi. E sarebbe un lavoro molto utile smascherare
queste finte neutralità dietro cui si celano precise visioni del mondo
costruite dai sistemi di potere, i quali evidentemente hanno ben
compreso l'importanza della scuola nel diffondere l'unico punto di vista
accettabile, che non metta in pericolo il sistema stesso.
Siamo lontani, per ora,
dal controllo ideologico esercitato dai testi di scuola statunitensi,
sponsorizzati dalle multinazionali stesse e quindi con un orientamento
preciso che in molti casi “forniva agli alunni informazioni incomplete o
tendenziose, volte a favorire i prodotti dello sponsor o le sue
opinioni”8
(come quelli forniti dalla Exxon Education Foundation che sostenevano
che “i carburanti fossili creavano pochi problemi ambientali e che le
fonti di energia alternative erano troppo costose” -Ibid.). Ma si tratta
di segnali che, proprio perchè relativamente più piccoli, sono più
difficili da ricondurre alla medesima volontà di controllo ideologico
che si gioca in tutti i settori dell'informazione e della formazione.
E sarebbe anche
interessante ed utile cominciare a pensare a materiali alternativi, su
modello del testo di Zinn o di quelli di gruppi di insegnanti attivisti
per la giustizia sociale ed economica. Materiali didattici militanti,
schierati, che trattino per esempio anche della “globalizzazione” di
movimenti sociali antagonisti al sistema capitalistico di sfruttamento
globale, delle reti di attivisti che agiscono per creare un mondo
ugualmente senza frontiere ma con al centro la vita delle persone e
dell'ambiente, non lo “sviluppo”, testi che facciano sentire la voce e
le esperienze dei numerosi popoli in lotta.
1 Zinn H., Storia del popolo americano, Il saggiatore, Milano, 2010, p. 17.
2 Ibid. p. 16
3 Ibid. p. 15
4 Morelli L., Beccastrini S., De Lorenzi D., Il nuovo geoviaggi 3, Mursia scuola/Mondadori Education, Milano, 2010; Vallega A., Forti P., Il pianeta dell'uomo 3, Le Monnier scuola/Mondadori Education, 2009; Bracci C., Mondi & paesaggi 3, la Nuova Italia/RCs Libri, Milano, 2009.
5 https://www.youtube.com/watch?v=Nv7n5jhrHGQ
6 http://www.nbcnews.com/business/economy/who-uses-food-stamps-millions-children-n52931
7Rodriguez Nunez H.M., Pedagogia de la liberacion de Paulo Freire en la etapa global del capitalismo, Editorial Venera, Mexico, 2013, ebook.
8Schlosser E., Fast Food Nation, Il Saggiotarore, Milano, 2008, p. 65.
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