Ripresa
impossibile. Rischioso affidarsi alla "flessibilità" che dovrebbe
concedere la Ue. Servono investimenti e una vera politica industriale.
Il Manifesto
Roberto Romano - Paolo Pini
Qualcosa non funziona nella politica economica europea, e in
quella italiana in particolare. Errare è umano, ma perseverare è
diabolico. Difficile capire se il governo italiano ci sia o ci
faccia. L’insistenza sulle riforme strutturali e istituzionali
cosa ci azzecca con le necessarie riforme di struttura di cui il
Paese avrebbe bisogno?
Riforme strutturali e riforme di struttura non sono sinonimi. Per immaginare una qualche crescita economica l’Italia deve intervenire sul motore della propria macchina senza fermarla, mentre le riforme strutturali si limitano a fare un tagliando alla macchina. La crisi italiana è tutta in questa metafora. Le riforme strutturali si sono susseguite nel tempo con effetti andati ben oltre le peggiori aspettative. Di riforme di struttura neppure un abbozzo. Quando mai si è discusso di politica industriale, di investimenti pubblici che anticipano la domanda, di ricerca pubblica per la nostra industria?
I mesi estivi sono “stressanti” per il governo. Tutti gli istituti di ricerca possono valutare l’effetto dei provvedimenti adottati e registrare le implicazioni macroeconomiche e finanziarie. Come un orologio, arrivano stime riviste al ribasso rispetto a scenari iniziali e si ripete la solita liturgia da sette anni: con le misure adottate, il prossimo anno il paese vedrà la luce in fondo al tunnel!
Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan e il presidente del consiglio Matteo Renzi non la raccontano giusta: se credono a quello che dicono sono colpevoli, se “ci fanno” è tutta un’altra storia.
Andiamo con ordine. La prima cosa da sottolineare è la dinamica del Pil. Sapevamo che le previsioni del governo erano oltre ogni ragionevolezza, +0,8% per il 2014, ma le ultime indicazioni di Istat, Banca d’Italia e Fmi superano le nostre peggiori intuizioni. A fine anno la crescita economica potrebbe anche essere ancora negativa, o nelle migliori delle ipotesi di poco sopra lo zero. Una differenza di quasi 1 punto di Pil rispetto alle previsioni è pesantissima sugli equilibri di bilancio pubblico e, peggio ancora, sui livelli di occupazione.
Abbiamo un grave problema di distribuzione del reddito, ma altrettanto grave e drammatica è la condizione di inoccupabilità di 6 milioni di persone, che tecnicamente consumano solo lo stretto necessario, nei migliori dei casi. O creiamo nuovo lavoro, oppure ci scordiamo qualsiasi crescita di reddito, occupazione, benessere.
Ma i problemi non si esauriscono qui. La manovra economica che verrà sarà in due tappe. La prima per correggere i conti pubblici relativamente alla dinamica del Pil per il 2014: una manovra correttiva non inferiore a 7 miliardi. La seconda interesserà il 2015 per il raggiungimento del quasi pareggio di bilancio strutturale, con provvedimenti pari a 15–17 miliardi, sempre che la crescita del Pil per il 2015 torni in territorio positivo.
È certamente vero che il governo beneficerà di 2,5 miliardi sul servizio del debito, con spread e tassi ai livelli attuali, ma i provvedimenti da adottare assomigliano tanto alla scalata del K2. Da un lato le spese indifferibili che non sono inferiori a 4–5 miliardi, dall’altro la necessità di stabilizzare il bonus fiscale di 80 euro – altri 6 miliardi – sempre che la platea di riferimento rimanga la stessa, a scapito delle promesse per pensionati e incapienti.
Non abbiamo la più pallida idea di come il governo intenda procedere. Si continua a rifiutare l’ipotesi di manovra correttiva, mentre ci si affida a una ipotetica flessibilità per il pareggio di bilancio grazie ai provvedimenti strutturali intrapresi. L’Europa non sembra disposta a sostenere questa linea, contrariamente a quanto ritengono Renzi e Padoan. Al momento i documenti ufficiali europei dicono altro, mentre il neopresidente della Commissione continua a parlare di crescita nella stabilità. I 300 miliardi annunciati da Juncker sono, in realtà, legati ai fondi strutturali e alla possibilità di rafforzare la Bei.
Servirebbe coraggio, ma non basta. Senza una sana consapevolezza dei problemi di struttura del Paese, si rischia di discutere di articolo 18 o di altre diavolerie simili, oppure di Jobs Act, o ancora di riforma della pubblica amministrazione, progetto che nei fatti prevede una contrazione della stessa con un ridimensionamento del sindacato.
Ci aspetta un autunno difficile. Difficile perché il governo è del tutto inconsapevole di quello che attraversa il Paese. Non è il tempo delle tempeste in un bicchier d’acqua, piuttosto di provvedimenti appropriati.
Riforme strutturali e riforme di struttura non sono sinonimi. Per immaginare una qualche crescita economica l’Italia deve intervenire sul motore della propria macchina senza fermarla, mentre le riforme strutturali si limitano a fare un tagliando alla macchina. La crisi italiana è tutta in questa metafora. Le riforme strutturali si sono susseguite nel tempo con effetti andati ben oltre le peggiori aspettative. Di riforme di struttura neppure un abbozzo. Quando mai si è discusso di politica industriale, di investimenti pubblici che anticipano la domanda, di ricerca pubblica per la nostra industria?
I mesi estivi sono “stressanti” per il governo. Tutti gli istituti di ricerca possono valutare l’effetto dei provvedimenti adottati e registrare le implicazioni macroeconomiche e finanziarie. Come un orologio, arrivano stime riviste al ribasso rispetto a scenari iniziali e si ripete la solita liturgia da sette anni: con le misure adottate, il prossimo anno il paese vedrà la luce in fondo al tunnel!
Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan e il presidente del consiglio Matteo Renzi non la raccontano giusta: se credono a quello che dicono sono colpevoli, se “ci fanno” è tutta un’altra storia.
Andiamo con ordine. La prima cosa da sottolineare è la dinamica del Pil. Sapevamo che le previsioni del governo erano oltre ogni ragionevolezza, +0,8% per il 2014, ma le ultime indicazioni di Istat, Banca d’Italia e Fmi superano le nostre peggiori intuizioni. A fine anno la crescita economica potrebbe anche essere ancora negativa, o nelle migliori delle ipotesi di poco sopra lo zero. Una differenza di quasi 1 punto di Pil rispetto alle previsioni è pesantissima sugli equilibri di bilancio pubblico e, peggio ancora, sui livelli di occupazione.
Abbiamo un grave problema di distribuzione del reddito, ma altrettanto grave e drammatica è la condizione di inoccupabilità di 6 milioni di persone, che tecnicamente consumano solo lo stretto necessario, nei migliori dei casi. O creiamo nuovo lavoro, oppure ci scordiamo qualsiasi crescita di reddito, occupazione, benessere.
Ma i problemi non si esauriscono qui. La manovra economica che verrà sarà in due tappe. La prima per correggere i conti pubblici relativamente alla dinamica del Pil per il 2014: una manovra correttiva non inferiore a 7 miliardi. La seconda interesserà il 2015 per il raggiungimento del quasi pareggio di bilancio strutturale, con provvedimenti pari a 15–17 miliardi, sempre che la crescita del Pil per il 2015 torni in territorio positivo.
È certamente vero che il governo beneficerà di 2,5 miliardi sul servizio del debito, con spread e tassi ai livelli attuali, ma i provvedimenti da adottare assomigliano tanto alla scalata del K2. Da un lato le spese indifferibili che non sono inferiori a 4–5 miliardi, dall’altro la necessità di stabilizzare il bonus fiscale di 80 euro – altri 6 miliardi – sempre che la platea di riferimento rimanga la stessa, a scapito delle promesse per pensionati e incapienti.
Non abbiamo la più pallida idea di come il governo intenda procedere. Si continua a rifiutare l’ipotesi di manovra correttiva, mentre ci si affida a una ipotetica flessibilità per il pareggio di bilancio grazie ai provvedimenti strutturali intrapresi. L’Europa non sembra disposta a sostenere questa linea, contrariamente a quanto ritengono Renzi e Padoan. Al momento i documenti ufficiali europei dicono altro, mentre il neopresidente della Commissione continua a parlare di crescita nella stabilità. I 300 miliardi annunciati da Juncker sono, in realtà, legati ai fondi strutturali e alla possibilità di rafforzare la Bei.
Servirebbe coraggio, ma non basta. Senza una sana consapevolezza dei problemi di struttura del Paese, si rischia di discutere di articolo 18 o di altre diavolerie simili, oppure di Jobs Act, o ancora di riforma della pubblica amministrazione, progetto che nei fatti prevede una contrazione della stessa con un ridimensionamento del sindacato.
Ci aspetta un autunno difficile. Difficile perché il governo è del tutto inconsapevole di quello che attraversa il Paese. Non è il tempo delle tempeste in un bicchier d’acqua, piuttosto di provvedimenti appropriati.
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