martedì 22 novembre 2022

Operazione Urano: il giorno in cui i nazisti di Hitler furono annientati e l’Unione Sovietica iniziò a prendere il sopravvento nella Seconda Guerra Mondiale

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Berlino non si aspettava la manovra di Mosca, che era arrivata all'incirca a metà della battaglia di Stalingrado, durata cinque mesi

Anatoliy Brusnikin
rt.com

La mattina presto, esattamente 80 anni fa, i soldati della 3a Armata rumena erano stati svegliati nelle loro fredde trincee sulla riva destra del fiume Don dal rombo dell’artiglieria che colpiva le loro posizioni. All’ora di pranzo, il comandante Petre Dumitrescu aveva riferito ai vertici del Gruppo d’armate Sud che era impossibile impedire al nemico di attraversare il fiume. Il giorno dopo, il suo gruppo era stato fatto a pezzi da furiosi attacchi di carri armati. Due settimane dopo, aveva praticamente cessato di esistere.

A quel punto, le truppe sovietiche del Fronte Sud-Occidentale, al comando di Nikolai Vatutin, avevano iniziato la loro parte dell’Operazione Urano, che avrebbe portato alla prima grande sconfitta strategica per i Paesi dell’Asse – l’inizio della fine. Per gli Alleati, la battaglia di Stalingrado sarebbe stata a lungo un simbolo della forza militare e del genio militare russo.

Quali erano stati gli errori principali del comando tedesco? Quali rivoluzionari metodi di guerra avevano impiegato i generali sovietici durante la battaglia di Stalingrado? Quali erano state le conseguenze, non ovvie, dell’interruzione dell’offensiva tedesca nella Russia meridionale?

Un novembre decisivo

L’autunno del 1942 è considerato il punto di svolta della Seconda Guerra Mondiale. L’offensiva apparentemente inarrestabile delle potenze dell’Asse e la loro conquista di nuovi territori e risorse erano finalmente state interrotte in tutti i teatri. A dicembre, il vantaggio strategico era passato agli Alleati. Da quel momento, solo loro avrebbero dettato il corso della guerra, mentre Tedeschi e Giapponesi avrebbero potuto solo reagire.

Naturalmente, i Britannici affermeranno che la situazione era cambiata in Egitto, nei pressi di El Alamein, il 24 ottobre, quando Bernard Montgomery era riuscito a sconfiggere la Volpe del Deserto Erwin Rommel e il suo Afrika Korps, stremato dalla mancanza di rifornimenti. Questo aveva posto fine ai tentativi tedeschi di invadere l’Egitto e di bloccare il Canale di Suez, cosa che avrebbe complicato notevolmente la situazione per l’Inghilterra, visto che la nazione insulare era estremamente dipendente dal cibo e dalle risorse fornite dalle sue colonie. Due settimane dopo, in Nord Africa gli Inglesi erano già sostenuti dagli Americani, che stavano conducendo l’Operazione Torch – uno sbarco di truppe su larga scala in Marocco e Algeria, formalmente sotto il controllo del governo francese di Vichy, filo-hitleriano. Nonostante l’ostinata resistenza di Rommel in Tunisia, l’esito della campagna era scontato.

Erwin Rommel © ullstein bild/ullstein bild via Getty Images

Tuttavia, gli stessi Americani tendono a credere che, nell’autunno del 1942, l’esito della guerra non era stato deciso in Nord Africa, ma dalla parte opposta del mondo: sull’isola di Guadalcanal, nel Pacifico. L’isola rivestiva una grande importanza strategica, poiché il suo controllo consentiva la navigazione commerciale tra l’Australia e gli Stati Uniti e la possibilità di minacciare la grande base navale giapponese di Rabaul (Nuova Britannia). In agosto, le unità del Corpo dei Marines statunitensi erano sbarcate sull’isola e avevano immediatamente catturato un’importante base aerea, in seguito chiamata Henderson Field. Per tutto l’autunno, i Marines l’avevano difesa con successo con il supporto dell’aviazione e della marina. La battaglia decisiva si era svolta il 13 e 14 novembre, quando i Giapponesi avevano perso l’intera forza di sbarco, che avrebbe dovuto sostenere la guarnigione di Guadalcanal, e diverse grandi navi, tra cui le corazzate Hiei e Kirishima. L’espansione del Giappone verso sud era stata bloccata nelle Isole Salomone e in Nuova Guinea, però con la sola perdita dei territori conquistati dopo il dicembre 1942.

Ma, in realtà, né Hitler né Stalin avevano dubbi sul fatto che il futuro del mondo si stesse decidendo nelle steppe del Volga dal 19 al 24 novembre, quando 270.000 truppe della Wehrmacht al comando di Friedrich Paulus erano state bloccate in un calderone da un duro colpo proveniente dal fronte sud-occidentale e da quello di Stalingrado. Il successivo fallimento nello sbloccare le unità accerchiate aveva condannato il Piano Blau e ucciso ogni speranza di Berlino per un esito positivo della guerra.

Il blu è il colore della tristezza (di Hitler)

Lo Stato Maggiore tedesco aveva denominato il piano d’azione sul fronte orientale “Fall Blau,” cioè “Blu.” L’obiettivo principale della campagna dell’estate 1942 era inizialmente quello di catturare i giacimenti petroliferi di Maikop e Grozny. Le riserve di carburante immagazzinate in Germania prima della guerra stavano per finire e il carburante sintetico e il petrolio rumeno proveniente da Ploiesti non erano sufficienti a rifornire tutti i carri armati della Wehrmacht e gli aerei della Luftwaffe. Pertanto, l’offensiva nel Caucaso era stata considerata prioritaria. Stalingrado era un obiettivo secondario e l’assalto alla città non era previsto. Sarebbe stato sufficiente bombardarla con un costante fuoco di artiglieria, come nel caso di Leningrado. Tuttavia, all’inizio le cose erano andate così bene per i Tedeschi che la conquista del centro industriale e del porto sul Volga aveva iniziato a sembrare un compito facile e persino naturale. Questo frutto, ingannevolmente a portata di mano, avrebbe finito per seppellire il Terzo Reich.

I fallimenti dell’Armata Rossa in primavera e in estate erano stati causati soprattutto dagli errori di Stalin e dell’Alto Comando sovietico nel valutare i piani del nemico. Il fatto è che l’invasione dell’URSS era stata inizialmente dettata dalla necessità di impadronirsi delle risorse dell’Ucraina e del Caucaso settentrionale. È alla presa del Lebensraum im Osten – lo spazio vitale a Est – che Hitler e Rosenberg avevano pensato all’inizio, quando avevano autorizzato il piano Barbarossa. Questo era stato previsto anche da Stalin, che, nel 1941, aveva concentrato le sue forze principali nell’ovest dell’Ucraina. A causa della repentinità dell’attacco e di catastrofici errori di gestione, queste truppe erano state distrutte nella Battaglia della Frontiera e, successivamente, nei pressi di Odessa e Kiev.

Adolf Hitler e Alfred Rosenberg. © ullstein bild/ullstein bild via Getty Images

Ma i generali tedeschi, guidati dal Capo di Stato Maggiore Franz Halder e da Paulus – il principale artefice del piano Barbarossa (è questa l’ironia della storia) – erano riusciti a convincere il Führer della necessità di ripetere la guerra lampo che aveva portato alla vittoria in Francia. Ritenevano possibile distruggere o intrappolare il grosso dell’esercito sovietico in calderoni con attacchi in profondità di carri armati, dopodiché avrebbero potuto prendere la capitale del nemico e costringerlo alla resa. Tuttavia, l’ostinata resistenza dell’Armata Rossa nei pressi di Smolensk e Mosca avevano dimostrato chequei calcoli erano sbagliati, anche se non ancora in modo fatale.

Nella campagna del 1942, Stalin era sicuro che il suo avversario avrebbe cercato di portare a termine ciò che aveva iniziato: prendere Mosca. Pertanto, le forze principali dell’Armata Rossa erano state concentrate nella parte centrale del Paese. Ma questa volta Hitler non aveva scelta: doveva urgentemente garantire la sicurezza dei campi agricoli del Kuban e delle miniere del Donbass, ottenere il petrolio di Grozny e preparare un’offensiva sui campi petroliferi di Baku e dell’Azerbaigian.

La debole posizione delle forze dell’Armata Rossa nel sud si era ulteriormente deteriorata a maggio, dopo un incompetente tentativo delle truppe di Semyon Timoshenko di riprendere Kharkov. A seguito di una controffensiva condotta dalla 6a Armata di Paulus e dal 1° Gruppo Panzer Kleist, 240.000 soldati e ufficiali sovietici erano stati catturati solo nel calderone di Barvenkov. Il fronte era di fatto crollato e quella che i rapporti ufficiali avevano definito una ritirata strategica era stata, in pratica, una vera e propria fuga.

Era stato in quel momento che Hitler, ispirato da questo successo, aveva deciso di dividere il Gruppo d’armate Sud in due parti. La prima era stata inviata a sud con la missione principale di catturare i campi petroliferi, che, a quel punto, erano già stati incendiati dai Sovietici, con un successivo attacco su Rostov-sul-Don. La seconda – composta dalla 6a Armata di Paulus, dalla 4a Armata corazzata Goth e da due armate composte da rumeni, ungheresi e italiani – doveva inseguire le unità sovietiche in ritirata verso est con l’obiettivo di assediare Stalingrado e catturare Astrakhan entro l’inverno.

Anche se il controllo di Astrakhan avrebbe tagliato completamente fuori la Russia centrale dal petrolio del caucaso, Hitler vedeva l’attacco a Stalingrado più come un colpo personale al leader nemico, dato che la città portava il suo nome. Qui, nel 1918, Stalin aveva trovato il suo più fedele alleato politico, Voroshilov, e il suo principale nemico, Trotsky. Qui, inoltre, gli ingegneri americani avevano costruito uno dei simboli della politica di industrializzazione di Stalin e che rappresentava la potenza industriale dell’URSS: una colossale fabbrica di trattori.

Seconda Guerra Mondiale. Soldati russi durante la battaglia di Stalingrado, settembre 1942 – febbraio 1943. © Roger Viollet via Getty Images

La resistenza all’assalto principale, organizzata dalla 62a e dalla 64a Armata sovietiche, lontano dalla città e in piena steppa, era stata debole e chiaramente inefficace. Al comando tedesco era sembrato che i Russi stessero per esaurire le loro forze e che gli ultimi difensori della città sarebbero morti sulle sue rovine, tra il fumo e gli incendi degli incessanti bombardamenti.

Ma si sbagliavano.

Il padre della guerra moderna

Il tenente generale Vasilij Chuikov era stato richiamato a Stalingrado dalla Cina, dove, dal dicembre 1940, aveva prestato servizio come addetto militare e principale consigliere militare di Chiang Kai-shek. Si era quindi perso la fase iniziale della Grande Guerra Patriottica, sebbene avesse chiesto di essere inviato in prima linea fin dall’inizio dei combattimenti. Forse era il fatto di non avere sulle spalle il peso delle amare sconfitte del primo anno di guerra che avrebbe dato a Chuikov la forza morale per continuare a difendere Stalingrado fino alla fine.

Ciò che lo ha reso famoso, però, è stato il suo coraggio personale, la sua caparbietà, la sua severità al limite della maleducazione e persino un certo atteggiamento temerario. Nel luglio 1942, il suo aereo era stato abbattuto da un caccia tedesco mentre ispezionava le posizioni di difesa. Tre mesi dopo, il 14 ottobre, mentre la città veniva presa d’assalto per la terza volta, anche i suoi nervi d’acciaio avevano iniziato a vacillare quando il quartier generale dell’esercito era stato colpito da un proiettile. Chuikov era stato ferito, decine di membri del suo staff erano morti, nonostante questo era rimasto fermamente fedele al suo motto:

“Non c’è terra per noi dietro il Volga.”

Che aspetto aveva Stalingrado nel settembre-ottobre 1942? Era una stretta striscia, larga a malapena più di un chilometro, di aree residenziali e industriali densamente costruite che erano state devastate dai bombardamenti e dai colpi di arma da fuoco. Tra le macerie c’erano i cadaveri di diverse migliaia di civili e di soldati di entrambe le parti. L’aria era appestata dal fetore delle fabbriche in fiamme: Ottobre Rosso, Barrikady, la fabbrica di mattoni e, naturalmente, la gigantesca fabbrica di trattori di Stalingrado. Il petrolio bruciava e filtrava nel Volga dai serbatoi di stoccaggio, mentre chiatte e barche trasportavano i rinforzi dalla riva sinistra a quella destra e i soldati feriti dalla riva destra alla sinistra, di notte, sotto l’incessante fuoco dei caccia nemici.

Truppe sovietiche escono da una trincea durante la battaglia di Stalingrado, Seconda Guerra Mondiale. © Hulton Archive/Getty Images

A metà novembre, la linea di difesa della 62a Armata sovietica si era frantumata in diverse isole. È difficile fornire numeri esatti perché i combattimenti erano continuati senza sosta, ma gli esperti dicono che, lungo la linea di contatto effettiva, non erano presenti più di 20.000 truppe sovietiche e circa il triplo di soldati tedeschi della Sesta Armata del generale Paulus (la dimensione totale del gruppo tedesco è stimata in circa 270.000 unità).
Gran parte dell’azione era costituita da combattimenti corpo a corpo. Intrappolati da macerie e barricate, i carri armati tedeschi non potevano manovrare e diventavano un facile bersaglio per i cannoni anticarro e le bombe Molotov. Le linee del fronte attraversavano le scale dei condomini, mentre i sovietici spesso organizzavano controffensive di notte, avvicinandosi da scantinati, soffitte o condotti fognari. Alcuni cecchini erano diventati famosi e la propaganda sovietica aveva esaltato Vasily Zaitsev come un eroe. Il suo leggendario, anche se non del tutto corroborato da prove storiche, duello con il capo istruttore di una scuola di cecchini tedesca è stato l’ispirazione per “Nemico alle porte,” un film hollywoodiano, in cui Zaitsev, un semplice ragazzo proveniente dalla regione degli Urali, è interpretato da Jude Law. Secondo i resoconti dei veterani, tuttavia, non era stato il fucile da cecchino a decidere l’esito della battaglia di Stalingrado, ma il semplice mitragliatore PPSh, con il suo altissimo rateo di fuoco e la sua efficacia nel combattimento ravvicinato.

Prima di Stalingrado, non c’erano praticamente mai stati precedenti storici di combattimenti in grandi città, a parte forse l’assedio di Madrid da parte delle forze del generale Franco. Non esistevano manuali o linee guida che descrivessero i combattimenti urbani. Chuikov e i suoi soldati avevano scritto quelle regole con il sangue sui muri degli edifici distrutti. Il generale e il suo esercito, in seguito ribattezzato 8a Armata della Guardia, avevano fatto tesoro di quell’esperienza durante la battaglia per Berlino, che era caduta nel giro di una settimana.

Da allora, le città, anziché i campi e i boschi, avrebbero visto sempre più spesso i combattimenti più feroci, da Varsavia, Konigsberg e Seul a Grozny, Fallujah e Mariupol. La guerra moderna è nata a Stalingrado.

Il fantasma di un maresciallo giustiziato

All’inizio di novembre, di notte le temperature erano bruscamente scese fino a 18-20 gradi Celsius sotto zero. Mentre la Sesta Armata tedesca, logorata da un’offensiva durata mesi, infreddolita, decimata da sanguinosi combattimenti urbani e afflitta dalla scarsità di rifornimenti lungo le poche strade della steppa, che le piogge autunnali avevano trasformato in fango, perseverava nel tentativo di eseguire gli ordini di Hitler e di spingere l’armata di Chuikov nel fiume, il suo destino si decideva a centinaia di chilometri di distanza da Stalingrado, sui fianchi di un fronte sovraesteso e protetto da armate rumene scarsamente equipaggiate e poco motivate. Era stato lì che erano stati sferrati sferrati i colpi principali dell’Operazione Urano, il 19 e 20 novembre.

Vasily Ivanovich Chuikov – Maresciallo dell’Unione Sovietica, membro del CC CPSU, deputato del Soviet Supremo dell’URSS, due volte Eroe dell’Unione Sovietica. © Sputnik/Gregory Vail

Urano sarebbe stata la prima di una serie di brillanti operazioni dell’Armata Rossa, con già molti dei segni distintivi che avrebbero poi caratterizzato la strategia dello Stato Maggiore sovietico.

In primo luogo, la scelta altamente imprevedibile delle aree di attacco principali, in quanto gli attacchi non erano rivolti ai fianchi della Sesta Armata stessa, ma piuttosto alle sue spalle.

In secondo luogo, durante il periodo di preparazione era stata mantenuta la massima segretezza per nascondere al nemico le vere intenzioni. La percezione di una resistenza senza speranza da parte dei difensori di Stalingrado aveva fatto supporre a Hitler, fino all’ultimo, che l’Armata Rossa stesse combattendo al massimo delle sue capacità e che non avesse risorse per una controffensiva.

In terzo luogo, erano state trovate soluzioni non ortodosse a problemi complessi e alle forze d’attacco erano stati fatti arrivare abbondanti rifornimenti. Un esempio è la missione aerea di rifornimento di antigelo per le unità meccanizzate della 51a e 57a Armata che si trovavano nelle steppe a sud di Stalingrado. L’ondata di freddo aveva costretto gli equipaggi dei mezzi corazzati a scavare fosse sotto i loro carri armati, a coprirli con teloni per proteggerli e a tenere accesi fuochi sotto di essi per evitare che il liquido di raffreddamento congelasse e distruggesse i motori. In assenza di un sistema stradale adeguato, era impossibile consegnare abbastanza antigelo nel breve periodo di tempo rimasto prima del lancio dell’offensiva. Alla fine, oltre 60 tonnellate di refrigerante antigelo erano state portate dalla regione di Mosca per via aerea, utilizzando alianti da carico. Nel corso di una settimana, i piloti avevano portato a termine circa 60 missioni di rifornimento, volando in posizione semisdraiata all’interno di velivoli di compensato, al freddo gelido, spesso di notte.

Infine, Urano sarebbe stata la prima grande operazione eseguita secondo la teoria delle operazioni in profondità sviluppata da Vladimir Triandafillov negli anni Venti. La teoria, che enfatizza la distruzione delle forze nemiche non solo sulla linea di contatto ma in tutta la profondità del campo di battaglia, era stata perfezionata e introdotta nel manuale dell’Armata Rossa dal maresciallo Mikhail Tukhachevsky. Dopo le purghe militari di Stalin nel 1937 e l’esecuzione di Tukhachevsky, la teoria era stata dichiarata sbagliata e persino dannosa. Eppure, era stata confermata dalla pratica ed era stata fondamentale per il successo nella battaglia di Stalingrado. Lo stesso approccio era stato poi utilizzato per la battaglia di Kursk, la battaglia del Dnieper, l’operazione Bagration, l’offensiva Vistola-Oder e molte altre.

Un colpo di fortuna per gli Alleati

Come tutti sanno, i principali risultati della battaglia di Stalingrado erano stati la vanificazione dei piani offensivi della Germania, il mantenimento da parte di Mosca del controllo delle forniture di petrolio da Baku lungo il Volga, la ritirata su larga scala della Wehrmacht, la protezione del Caucaso da ulteriori avanzate tedesche, il fatto che l’Armata Rossa avesse ora l’iniziativa strategica e l’importante spinta al morale delle truppe sovietiche dopo una vittoria così decisiva, culminata nella cattura di un feldmaresciallo tedesco. Anche la dimensione di politica estera viene spesso discussa, in quanto, nell’inverno del 1943, aveva aperto la strada ai primi negoziati tra gli Alleati sulle sfere di influenza del dopoguerra, che, alla fine, avevano portato alla Conferenza di Teheran.

Tuttavia, c’è una considerazione importante che, di solito, viene ignorata perché va ben oltre un singolo teatro bellico e ha a che fare con il quadro generale della guerra. Che cosa sarebbe successo se, invece di impantanarsi a Stalingrado, Hitler avesse continuato con il suo piano iniziale di catturare il Caucaso? E se lui e il suo alto comando fossero stati più realistici nel valutare le loro capacità? E se i Tedeschi fossero riusciti a schiacciare la 62a Armata di Chuikov?

Poco prima della Seconda Battaglia di El Alamein, Erwin Rommel aveva dovuto lasciare l’esercito e tornare in Europa per curarsi dalla difterite. Mentre si preparava a cedere il comando al suo subordinato, Rommel aveva scritto un promemoria dettagliato per il Fuhrer, descrivendo la situazione in atto e chiedendogli di avanzare nel Caucaso il prima possibile. Se le truppe tedesche non fossero state immobilizzate a Stalingrado nell’estate del 1942 e si fossero invece spostate in Transcaucasia, la Gran Bretagna sarebbe stata costretta a trasferire le proprie truppe dall’Africa all’Iran settentrionale. Il sentimento filo-tedesco era forte in Iraq, mentre la Siria e il Libano erano controllati dal regime francese collaborazionista di Vichy. La Turchia, rimasta neutrale fino quasi alla fine della guerra, aveva forti legami economici con la Germania.

Dopo che la sconfitta nella Prima Guerra Mondiale aveva privato Berlino delle sue colonie, la rinascita dell’economia tedesca era stata resa possibile principalmente dai nuovi mercati dei Balcani e della Turchia. Circondata dai Tedeschi su tutti i lati, Ankara si sarebbe probabilmente unita all’Asse, soprattutto in considerazione della prevalenza di sentimenti nazionalisti e revanscisti nel Paese, nonché del sogno secolare di sottrarre all’Iran il controllo dell’Azerbaigian meridionale. Questo sviluppo avrebbe cambiato la situazione a livello globale, creando un nuovo teatro e minacciando la produzione petrolifera britannica in Iran. In definitiva, avrebbe migliorato le possibilità della Germania di vincere la guerra, o almeno di prolungarla di un anno o due.

In ogni caso, se le cose fossero andate così, oggi il novembre 1942 non sarebbe certamente considerato come il punto di svolta della Seconda Guerra Mondiale.

Anatoliy Brusnikin

Fonte: rt.com
Link: https://www.rt.com/russia/566785-the-bloodiest-battle-in-human-history/
20.11.2022
Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org

 

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