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di Rete dei Comunisti
Mentre i suoi aguzzini lo condannavano nel tribunale speciale Antonio Gramsci dichiarò con coraggio e lungimiranza: “Il fascismo porterà il paese alla rovina, spetterà ai comunisti ricostruirlo”.
Nel momento peggiore, uno dei più lucidi dirigenti comunisti non lanciava solo la sfida ai suoi nemici che in quel momento disponevano delle chiavi della sua cella, ma indicava il ruolo generale dei comunisti nella ricostruzione di un paese e della sua società in rottura e alternativa al quadro esistente. Il ruolo dei comunisti nella Resistenza, nella ricostruzione del dopoguerra e nella stagione dell’antagonismo di classe degli anni Settanta li hanno visti all’altezza della situazione.
Le conseguenze della restaurazione capitalista a livello mondiale, la controrivoluzione globale, la dissoluzione delle esperienze statuali socialiste, venti anni dell’egemonia globale del capitalismo, hanno riportato all’indietro la ruota della storia, fino a quando la storia si è rimessa in marcia riproponendo e accentuando tutte le contraddizioni irrisolte e i limiti del Modo di Produzione Capitalista.
I punti di caduta dell’intero sistema dominante hanno visto intrecciarsi sia la crisi irrisolta dell’economia capitalista dagli anni Settanta a oggi, sia la rottura della mondializzazione realizzata negli ultimi trenta anni come tentativo di fuoriuscita dalla crisi del Modo di Produzione Capitalista. La tendenza alla guerra come scenario terminale della crisi è tornata ad essere una possibilità reale a ottanta anni dalla Seconda Guerra Mondiale.
Siamo dentro un salto di fase storica, una rottura della storia che richiede una conseguente analisi della nuova realtà e una assunzione di responsabilità soggettiva da parte dei comunisti, anche in un paese integrato nella catena imperialista occidentale come l’Italia.
Nei paesi a capitalismo avanzato dell’Occidente – e tra questi l’Italia – sono ben visibili recessione economica e sociale, ricorso alla guerra, infarto ecologico, perdita di credibilità come classi dirigenti e modelli dominanti, che stanno rimettendo in discussione la realtà che abbiamo conosciuto negli ultimi trenta anni.
Dal 1992 gran parte della società italiana ha pagato il prezzo dell’ aspetto economico del “vincolo esterno” sancito dall’adesione al Trattato di Maastricht e poi dai trattati europei successivi e sempre più vincolanti. In pratica, in nome dell’unificazione europea, i gruppi capitalisti più forti hanno consapevolmente scatenato “una guerra all’interno” contro le classi popolari e i settori più deboli dello stesso capitalismo italiano.
Con la guerra in corso in Ucraina adesso la società italiana sta pagando anche il prezzo dell’aspetto politico e militare del “vincolo esterno” rappresentato dall’adesione alla Nato e la subalternità agli USA, scatenando “una guerra all’esterno”, per ora contro la Russia ma di cui la prima sperimentazione è stata la guerra in Jugoslavia.
Incalzati dalla crisi economica, dalla frammentazione del mercato mondiale e dai rischi di guerra, questi due aspetti del “vincolo esterno” sono stati costretti a sincronizzarsi nel Blocco Euroatlantico e i fronti della guerra all’interno e della guerra all’esterno si sono unificati. Le conseguenze sul nostro paese le stiamo vedendo ormai chiaramente: odioso aumento delle disuguaglianze sociali, economia di guerra, militarismo, liquidazione della democrazia rappresentativa, devastazione ambientale, regressione civile e ideologica.
In sostanza l’avventurismo delle classi dirigenti sta riportando il paese alla rovina. Diventa dunque necessario impedirglielo rimettendo in campo una alternativa complessiva di sistema, quella che noi definiamo come socialismo.
La regressione sociale complessiva del nostro paese è sotto gli occhi di tutti. Parlano i fattori economici e sociali, parla l’arretramento sul piano civile e politico, parla la durezza di uno scontro ideologico – che si voleva ormai neutralizzato- tra modelli e visioni antagoniste della società, parla infine il rischio di coinvolgimento diretto in una guerra in Europa di grandi dimensioni.
Le reazioni al declino e alla regressione del paese si manifestano in mille modi diversi, ma in esse stenta ancora ad affermarsi una prospettiva alternativa a tutto campo, quella che noi rivendichiamo e intendiamo come il Socialismo del XXI Secolo.
Su questa difficoltà pesa la natura del capitalismo italiano, la mancanza di esperienze rivoluzionarie significative nella storia del paese, la disgregazione sociale e ideologica delle classi subalterne.
L’Italia è un paese capitalista avanzato ma con troppe asimmetrie sia qualitative che territoriali. La piccola dimensione della maggioranza dell’apparato produttivo e lo sviluppo disuguale tra Nord e Sud, da un lato lo rendono una economia capitalista avanzata ma subalterna, dall’altra alimentano ambizioni verso paesi più deboli (vedi le delocalizzazioni produttive all’est o le pretese di potenza nel Mediterraneo).
L’illusione che la modernizzazione capitalista trovasse la risposta nell’integrazione europea dell’Italia e che le ambizioni da media potenza regionale potessero trovare spazio nella collocazione atlantica, hanno alimentato l’egemonia borghese sulla società ma stanno innescando anche brusche disillusioni.
Nell’articolata struttura del capitalismo italiano, da almeno trenta anni è in corso uno scontro che non farà prigionieri. Di questo scontro uno dei fattori decisivo è il ricorso e l’imposizione del “vincolo esterno”.
E’ uno scontro tra i settori del capitalismo che si reggono solo sul mercato interno (fatto di consumi, salari, rendite spesso parassitarie) e i settori più internazionalizzati e integrati a livello europeo e multinazionale, quindi proiettati più sul mercato mondiale che su quello interno.
Questo scontro è stato ben delineato da Draghi quando ha decretato che le “imprese zombie” (troppo piccole, troppo indebitate, troppo limitate) devono morire per fare posto ai gruppi più forti, a concentrazioni, fusioni, chiusure per mettere il capitalismo italiano all’altezza della competizione globale, almeno nel contesto europeo. Dunque il blocco di interessi del capitalismo italiano più internazionalizzato ed europeo non avrà pietà né dei lavoratori ma neanche dei propri simili meno attrezzati.
L’Italia nel Blocco Euroatlantico, per le sue asimmetrie interne del capitalismo e per le contraddizioni che ne derivano, è un potenziale “anello debole” della catena imperialista dell’Occidente. Non è il solo e non è il più debole, ma è quello in cui i comunisti in Italia sono chiamati ad agire politicamente. L’indebolimento di un anello della catena imperialista è il contributo maggiore che possono svolgere sul piano dell’internazionalismo verso gli altri popoli. La Rivoluzione d’Ottobre in Russia, la Rivoluzione Cinese e la Rivoluzione Cubana sono state anche e soprattutto questo. Le loro onde lunghe si sono diffuse nel mondo per più di settanta anni e, ad esclusione dell’Occidente capitalista, ancora agiscono concretamente e positivamente.
Agire sull’anello debole per indebolire il Blocco Euroatlantico significa agire su tutti i fronti e con tutti i mezzi a disposizione: il conflitto sociale e sindacale; le elezioni come strumento per la ricomposizione e la costruzione di una rappresentanza politica del blocco sociale antagonista; il lavoro ideologico per ridare identità politica e un punto di vista generale agli sfruttati; una comunicazione adeguata per fornire indicazioni di lotta e chiavi di lettura della realtà.
La rottura del Blocco Euroatlantico torna ad essere la sintesi del nemico da indicare ai settori popolari, democratici, antagonisti, come quello da battere perché esso agisce qui e i comunisti agiscono qui. Le ambizioni imperialiste cresciute nell’Unione Europea negli ultimi decenni, non sono diverse da quelle degli Stati Uniti, la loro debolezza nei confronti degli USA non ci solleva dalla responsabilità di indebolirle e contrastarle per la minaccia che rappresentano sia per le classi lavoratrici europee che per gli altri popoli.
La realtà ci consegna uno scenario in cui le contraddizioni diventano più nitide e le conseguenze più visibili. Quello che fu il programma vincente fondato su “Pace e pane” dai rivoluzionari russi, oggi va declinato dentro la realtà del nostro paese.
Il rifiuto del coinvolgimento dell’Italia nella guerra, la difesa dei salari e del potere d’acquisto delle famiglie dagli effetti della crisi e dell’economia di guerra, lo stop della corsa all’infarto ecologico del pianeta, la riaffermazione della democrazia rappresentativa verso la “democratura” imposta dalle classi dirigenti, sono obiettivi di fase adeguati a far crescere nel paese una controtendenza politica fondata sugli interessi di lavoratori, giovani, donne, ceti popolari e settori democratici dentro cui veicolare – alcune volte apertamente, altre volte cautamente a seconda dei contesti – la questione del socialismo come sistema alternativo a quello esistente che sta portando il paese al declino e alla rovina.
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