martedì 22 novembre 2022

Croce, maestro di vita e di morte.

Il venti novembre di settant’anni fa moriva a Napoli il Papa laico della cultura italiana, don Benedetto Croce. La definizione è di Antonio Gramsci, che fu il successore al soglio pontificio, seppure postumo, grazie all’egemonia culturale della sinistra dal dopoguerra in poi.  

(Marcello Veneziani)

Era l’epoca del “non possiamo non dirci crociani”, per parafrasare il filosofo. L’impronta che Croce lasciò sulla cultura italiana nel crocevia tra storia, pensiero e letteratura, fu enorme, anche se non ebbe grandi eredi e continuatori; a differenza del suo amico-nemico Giovanni Gentile, che nonostante la damnatio memoriae, lasciò sparsi benché riluttanti eredi.

Come definire Croce, oltre il suo pontificato intellettuale? Le definizioni scolastiche – neo-hegeliano, neo-idealista, storicista – non colgono la versatilità del pensatore napoletano e la varietà dei suoi campi d’interesse. Anche le classificazioni “politiche” di Croce, “liberale” e “conservatore” sono rispondenti al suo modo di pensare, ma restringono il suo pensiero e la sua incidenza in un ambito che non rende tutta la sua variegata influenza. La sua è una filosofia della storia e insieme una filosofia della cultura; di lui si può dire che fu un umanista.

Fu certamente più pensatore europeo che italiano, e più scrittore meridionale che nazionale. Fu moderato ma patrocinò in Italia la diffusione di non pochi pensatori radicali e illiberali: penso a Georges Sorel, a molti autori reazionari, a Julius Evola a cui aprì le porte dell’editore Laterza. Fu anticomunista e anti-materialista, ma il suo giovanile italo-marxismo intrise anche lo storicismo seguente. Fu pensatore borghese, nel solco del risorgimento liberale, ma fu avversario della Massoneria che era il partito risorgimentale e poi interventista per eccellenza. Fu pensatore rigoroso e posato ma non fu mai accademico, non ebbe cattedre, se non i suoi pulpiti editoriali e letterari e il suo salotto di casa, a Palazzo Filomarino.

Davanti all’interventismo, Croce fu freddo e critico; perorò la causa dell’intervento non contro ma a fianco degli imperi centrali, e dunque contro le democrazie liberali; della sua stessa opinione furono l’ambasciatore Riccardo Bollati, il giornalista Mario Missiroli e l’intellettuale Cesare De Lollis, che però poi partì per il fronte. Anche rispetto al fascismo, Croce ne fu inizialmente sostenitore, lo ritenne un necessario antidoto al bolscevismo e all’odio anti-italiano. Vide nel fascismo il partito d’ordine che avrebbe ripristinato la disciplina e la vita nazionale. E mantenne il suo sostegno al fascismo anche dopo il delitto Matteotti, pur non accettando di tornare al ministero della pubblica istruzione. Salvo poi patrocinare l’antifascismo liberale, una posizione critica che mantenne per tutto la restante vita e interruppe di rado; come quando aderì alla campagna dell’oro alla patria dopo le sanzioni all’Italia per la guerra in Etiopia.

Dai fascisti fu attaccato e una volta pure minacciato in casa; ma il regime non lo perseguitò e la sua attività di scrittore e la sua rivista La Critica continuarono indisturbati per decenni. Croce mantenne intatta la sua autorevolezza anche nella burrasca della seconda guerra mondiale e accrebbe il suo ruolo di Padre della patria all’indomani della caduta del regime fascista.

Fu eccellente scrittore di filosofia e di storia, di letteratura e perfino di aneddotica; meno solido e originale come filosofo teoretico. Per il suo anniversario, suo nipote Piero Craveri ha dato alle stampe un suo florilegio, curato da Giuseppe Galasso sei anni fa; i brani furono letti da Toni Servillo al Teatro Bellini a Napoli. Il Soliloquio è stato pubblicato da Adelphi che va ristampando l’opera crociana, un tempo edita da Laterza. Belle le sue pagine autobiografiche sull’infanzia e sulla vecchiaia, il diario degli eventi che lo toccarono da vicino e la convinzione di essere sul piano culturale una sorta di Atlante a cui toccava “sorreggere a forza di spalle un edificio in rovina” convinto che “quando non ci sarò più, nessuno sottentrerà al mio posto, e la rovina della cultura italiana sarà piena”. Un compito titanico e solitario, a suo dire.

Fra tutte le pagine resta la più bella e toccante quella famosa che scrisse nel febbraio del ’51 e pubblicò sul Giornale di Napoli: un soliloquio in cui emerge tutta la saggezza e l’umanità di Croce agli estremi della vita. Citando Salvatore Di Giacomo, Croce rispondeva a chi gli chiedeva “come state?” con un secco “Non lo vedi? Sto morendo” detto in dialetto napoletano. Poi s’inoltrava in una sorta di meditatio mortis: “Malinconica e triste che possa sembrare la morte, sono troppo filosofo per non vedere chiaramente che il terribile sarebbe se l’uomo non potesse morire mai, chiuso nella carcere che è la vita, a ripetere sempre la stessa vita”. Croce coglieva laicamente la tragedia della vita in cui è inaccettabile la morte ma è insopportabile l’idea di vivere per sempre, se s’intende la vita eterna come un prolungamento infinito dell’esistenza terrena. E da filosofo riteneva, come i classici, la vita intera come preparazione alla morte. Col compito etico e stoico di “attendere con zelo e devozione a tutti i doveri che ci spettano”. La morte, aggiungeva, sopravverrà “a metterci a riposo”, ma dovrà trovarci impegnati, fino alla fine, e non “in ozio stupido”. Poi un accenno a Dio, con cui -diceva- siamo e dobbiamo essere in contatto tutta la vita, e non solo quando siamo alla fine, per un calcolo d’egoismo. Ognuno ha la sua sensibilità davanti alla morte ma quel congedo di Croce è maestoso nella sua umiltà, schietto e verace, privo di illusioni e retorica. Seppe degnamente andare incontro alla morte da filosofo. Restituiamo a Croce, come a Gentile e a Gramsci, il rispetto che merita la loro lucida coerenza fino alla fine.

La Verità

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