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di Giorgio Cesarale
Tratto da György Lukács, Storia e coscienza di classe, trad. di G. Piana, PGreco, Milano 2022
1. La preistoria di Storia e coscienza di classe
Una delle caratteristiche di Storia e coscienza di classe, l’opera filosofica più importante che sia sorta nel seno del marxismo del ’900, è la straordinaria tensione fra la brillantezza delle formulazioni e la complessa e magmatica materia storico-spirituale che vi è sottesa. Soprattutto oggi, a un secolo di distanza dalla pubblicazione dell’opera, si può cogliere in essa la freschezza e la potenza di quelle tesi che hanno dato vita a una intera tradizione filosofica e politica, il “marxismo occidentale”: il marxismo inteso come metodo di autonoma ricerca e nuova costruzione anziché come archivio di “citazioni” da applicare estrinsecamente alla materia storica o come semplice accertamento del fondamento “economico” di ogni azione umana; la coscienza di classe come “coscienza attribuita di diritto”, cioè come coscienza che, comprendendo la propria posizione nella totalità dei rapporti di produzione capitalistici, attinge la sua destinazione storico-politica; la conseguente critica alla separazione fra coscienza e realtà, di cui si scopre il fondamentale motivo generatore nella merce, che è la cellula germinale di quel capitalismo che ne ha cagionato la generalizzazione,
sia intensive sia extensive; la diagnosi circa il carattere pervasivo della reificazione o alienazione degli uomini nella società moderna, in grado di investire una molteplicità di livelli costitutivi della loro vita, fino a quello politico, dove essa si esprime o come opportunistico accomodamento alle condizioni presenti, la socialdemocrazia, o come slancio volontaristico al di là di esse, l’utopismo, l’anarchismo, il blanquismo; il principio della prassi come cosciente modificazione della realtà, che ne dissolve la scorza apparentemente intangibile, la “seconda natura”, per ricondurla alla vivente interazione antagonistica fra le classi; la critica alle antinomie della filosofia moderna, p. cs. quelle fra immediatezza e mediazione, contenuto e forma, essere e pensiero, in quanto generate dal mancato attingimento di questo stesso principio della prassi; la ricostituzione delle categorie del marxismo attorno a una nozione di proletariato come “soggetto-oggetto identico” che, fornendo il contenuto materiale delle forme che costellano il processo di riproduzione capitalistico, scioglie le stesse antinomie del pensiero borghese, e impone così una ristrutturazione del significato della storia nel senso di una soggettività che ne costituisce sempre l’oggettività, anziché semplicemente rifletterla; la critica, su tale base, alla dialettica della natura configurata da Engels, per la quale ti soggetto coglie i nessi dialettici naturali in veste di osservatore, come se tosse uno spettatore che li contempla puramente dall’esterno; la riattivazione del nucleo antifeticistico della dialettica, intesa come esperienza del pensiero che, negando ogni determinazione rigidamente finita e unilaterale, arriva a incorporare la stessa genesi delle forme, a riconvertire le cose nei processi e questi ultimi di nuovo nelle cose1.La forza di queste posizioni, che è già apparsa come tale immediatamente dopo la pubblicazione del libro, si staglia su una densa e talvolta opaca trama di motivi spirituali e politici, le cui radici affondano nello sviluppo lukacsiano precedente. Sebbene sia arduo delimitare con esattezza i contorni di questo complesso sviluppo, da il dramma moderno (1909) all’Estetica di Heidelberg (1918), passando per L’anima e le forme (1910) – né è nostro compito in questa sede perseguire tale obiettivo ricostruttivo –, è certamente possibile rinvenire in esso il tentativo di rispondere a una generale crisi del senso, a una disintegrazione fin de siede del rapporto fra ciò che è il “vivere”, la totalità delle manifestazioni possibili dell’esistenza, e ciò che è la “vita”, la frammentazione dell’esistenza in un pulviscolo di attività, rigidamente separate le une dalle altre2. Entro un orizzonte culturale in cui confluiscono, senza soluzioni di continuità, elementi tratti dallo storicismo di Dilthey, la filosofia della vita di Simmel, il neokantismo di Rickert, Lask, Weber, la filosofia proto-esistenzialistica di Kierkegaard, oltre che una eccezionale conoscenza dell’arte drammaturgica, figurativa, letteraria, viene così emergendo in Lukács una tematica specificamente kulturkritisch. Per intenderne la natura, la si può avvicinare alla opposizione, fissata da Thomas Mann nelle Considerazioni di un impolitico, fra la Kultur; che è espressione di un attaccamento appassionato alla totalità della vita, e la Zivilisation, che è piuttosto il frutto delle scissioni e delle divaricazioni imposte dal meccanicismo e dal razionalismo illuministico-giacobini3. Tale situazione storico-spirituale è splendidamente ritratta in un fondamentale saggio del Lukács di questo periodo, Cultura estetica (1912), subito dopo aver affermato la centralità della cultura come conquista delle complessive manifestazioni della vita degli uomini e averne riscontrato invece il fallimento nella “cultura estetica”, nel godimento e compiacimento decadente per gli stati d’animo transitori, puramente attimali, che affollano il nostro petto:
Era inevitabile che questa cultura, attaccata all’attimo, perdesse ogni collegamento con la vita. Forse mai quanto oggi l’arte ha significato così poco per tanti di quegli uomini che fanno parte integrante della cultura. Gli effetti dell’arte hanno oggi qualcosa di profondamente specialistico: gli scrittori scrivono per gli scrittori, i pittori dipingono per i pittori, o al massimo per scrittori e pittori che si sono fermati a metà strada. In effetti, ciò che “hanno da dire” è quasi inesistente (ed essi respingono anzi con orgoglio ogni genere di contenuti); solo uno specialista può veramente apprezzare i loro valori, e gli effetti più appariscenti consistono nei trucchi del mestiere. L’indirizzo preso dallo sviluppo della cultura generale, che impegna l’uomo solo parzialmente e non tocca mai la sua intera personalità, tende comunque a indebolire sempre più quanto vi è di “umano” negli uomini; le necessità dell’anima, fragili e relegate nell’ombra, non sono in grado di trovare un contatto con alcun genere d’arte. E così, gli uomini si convincono molto in fretta che l’arte non è affatto necessaria o serve, al massimo, a colmare in modo gradevole il vuoto di alcune ore, a solleticare e distendere con suadenti carezze i nervi affaticati. (Come si rivelano tutt’uno, in questo caso, la sazietà piccolo borghese e l’edonismo dell’esteta!). I più seri disprezzano l’arte d’ogni genere; la maggior parte invece ne “gode” o vi si assuefà con profonda indifferenza, perché “fa parte di una buona educazione”4.
La scissione fra l’anima e le forme, che ormai ha consumato ogni ideale schillerianamente umanistico di ricomposizione totalizzante della personalità individuale, si rovescia così entro la stessa oggettività, nei termini di una divisione professionale del lavoro che spezza ogni possibilità dì circolazione artistica dell’esperienza. L’esteta non è che la controfigura del piccolo borghese, perché le sue creazioni si integrano perfettamente nella vita quotidiana di quest’ultimo, suppurandone edonisticamente l’indifferenza, la parzialità, l’insignificanza, in una parola la reificazione.
In questa fase, tuttavia, con ciò rivelandosi un motivo spiritualmente e politicamente decisivo in relazione a Storia e coscienza di classe, il socialismo non appare a Lukács come una autentica alternativa:
L’unica speranza che potremmo ancora avere sarebbe forse quella del proletariato e del socialismo: la speranza che sopraggiungano dei barbari i quali mandino brutalmente in frantumi tutte le raffinatezze; che la persecuzione produca un effetto selettivo e – come Ibsen credeva che in Russia la tirannia insegnasse ad amare la libertà meglio di qualsiasi altra cosa – in un’epoca che ha in odio l’arte e la cui cultura è nemica dell’arte questa riesca, ciò nonostante, ad approfondirsi. Ovviamente non poteva trattarsi del fatto più importante, ma solo di un effetto collaterale e fortuito. Ma restava la speranza che le forze dello spirito rivoluzionario, che ha smascherato tutte le ideologie ed ha intravisto ovunque le vere forze motrici, dimostrasse anche in questo campo intuito chiaro e vista acuta e, spazzando via quanto vi è di periferico, ci ricondusse di nuovo all’essenziale, sia pure passando attraverso un lungo periodo di stati d’animo avversi all’arte. Ma le cose che abbiamo visto finora non sono molto promettenti. Il socialismo non possiede, a quel che sembra, l’impeto religioso presente invece nel cristianesimo primitivo, che pervade l’anima intera. Fu necessaria la persecuzione dell’arte nel primo periodo del cristianesimo perché potesse nascere l’arte di Giotto e di Dante, di Meister Eckhart e di Wolfram von Eschenbach: ai suoi primordi, il cristianesimo si diede dei testi sacri, e l’arte di molti secoli si nutrì dei loro frutti. E poiché era una fede vera, dotata di forza tale da creare testi sacri, non aveva bisogno dell’arte; non ne sentì il bisogno né la tollerò accanto a sé, voleva regnare da sola sull’anima umana, giacché ne possedeva la capacità. Questa è la forza che manca al socialismo e il motivo per cui non riesce ad avversare, come invece vorrebbe e sa di dover fare, l’estetismo nato dalla borghesia5.
Forse, ma sarebbe una pretesa interpretativa incongrua, si potrebbe osservare in questo testo un segreto riferimento agli sconvolgimenti rivoluzionari del 1905 in Russia, con la prima e conseguente riformulazione della linea socialdemocratica, per un verso con il Kautsky di La via al potere, che intuisce lo spostamento del baricentro rivoluzionario dall’Occidente all’Oriente, dove il proletariato deve conquistare il potere, per compiere tuttavia non una rivoluzione socialista, bensì una rivoluzione democratico-borghese; per altro verso, con la Rosa Luxemburg di Sciopero generale, partito e sindacati, che esalta lo sciopero generale di massa degli operai russi come “strumento specifico dell’azione proletaria”6, in grado di fluidificare la rigidità della separazione, tipicamente revisionistica, fra “lotta economica”, affidata ai sindacati, e “lotta politica”, affidata al partito parlamentare. Ma a quest’altezza del suo itinerario teorico-politico Lukács non è ancora giunto a tale consapevolezza: il problema della socialdemocrazia è posto non nei termini di una capitolazione ideologica delle sue organizzazioni alla necessità feticistica del capitalismo, favorita dall’imporsi di rapporti imperialistici, come sarà in Storia e coscienza di classe; esso è piuttosto definito come espressione di un deficit religioso, che non si accompagna alla pur valida analisi economica, “che ha smascherato tutte le ideologie”, intravedendovi “ovunque le vere forze motrici”. Per cui, quando Lukács dirà nella famosa “Prefazione” del 1967 a Storia e coscienza di classe – che ci fornisce non solo una ricca congerie di elementi autobiografici, ma anche una spietata, persino esorbitante, autocritica teorica – che “intorno al 1908, presi in considerazione anche Il capitale per dare un fondamento sociologico alla mia monografia sul dramma moderno. I miei interessi andavano infatti a quel tempo al Marx “sociologo”, visto attraverso le lenti metodologiche ampiamente condizionate da Simmel e Max Weber”7, ciò che si dovrà constatare è la fedeltà del ricordo: allorché lavora a L’anima e le forme e Cultura estetica, egli si è già misurato con la critica marxiana del capitalismo, ricavandone un insieme di lezioni “sociologiche”; tuttavia, in questo momento, egli non ritiene che da esse scaturisca anche una fondamentale energia trasformativa, propriamente religiosa e perciò rivoluzionaria. La condanna del capitalismo è dissociata dal suo effettivo superamento, guidato da una classe che dal fondo del suo sfruttamento faccia derivare un programma di più razionale organizzazione e dislocazione delle risorse produttive.
D’altra parte, che cosa è questa combinazione fra critica del capitalismo e rifiuto del socialismo se non la definizione stessa di “anticapitalismo romantico”? Il composto era intrinsecamente instabile, anche se Lukács dovette attendere alcuni anni e affrontare enormi e molteplici prove, storiche e teoriche, per scioglierlo. Tra la fine della belle époque e lo scatenarsi del tragico macello della Prima guerra mondiale, il problema gli apparve piuttosto nella veste di una crescente contraddizione fra ragion pura e ragion pratica, fini e mezzi, valori e realtà obiettiva. Ne è acuta e sofferta testimonianza il dialogo intitolato Sulla povertà di spirito (1911-1912) – che fece effetto su Max Weber, alimentandone la proposta circa la differenza fra “etica dell’intenzione” ed “etica della responsabilità” – nel quale il protagonista si confronta con la sua interlocutrice, Marta, intorno al significato della bontà:
Se l’arte potesse plasmare la vita, se la bontà potesse essere tradotta in atto – allora diverremmo dei. “Perché mi dici di essere buono? Non c’è altro buono che solo Dio” – dice Cristo. Ricorda Sonja, il principe Mischkin, Alexei Karamazov fra le figure di Dostoevskij? Mi ha domandato poco fa se ci sono uomini buoni. Reco, sono questi. E guardi: anche la loro bontà è sterile, genera confusione ed è senza effetto. Incompresa e fraintesa emerge dalla vita proprio come un’opera d’arte solitaria e grande. A chi ha giovato il principe Mischkin? Non ha disseminato piuttosto tragedie dove camminava? Eppure certamente non aveva quest’intenzione. Il suo mondo è situato al di là di quello della tragedia che è puramente etico o se vuole, puramente cosmico, il principe Mischkin in ogni caso si trova al di là di esso come anche l’“Abramo che immola” di Kierkegaard ha superato il mondo dei tragici conflitti e degli eroi: quello di Agamennone che immola. Il principe Mischkin e Aljoscia sono buoni – che cosa significa questo? Non so dirlo diversamente che così: la loro conoscenza divenne atto, il loro pensiero si era distaccato dal carattere discorsivo del conoscere, la loro visione dell’uomo divenne una visione intellettuale: essi sono gnostici nel mondo delle azioni, ti non c’è e non può esserci spiegazione teorica per questo perché nel loro atto ogni impossibilità teoretica divenne realizzata nella realtà. La bontà è qualcosa come una conoscenza degli uomini che irradia penetrando in tutto e in cui oggetto e soggetto vanno a coincidere. L’uomo buono non spiega l’anima dell’altro, ma vi legge dentro come nella propria, egli è divenuto “uno con l’altro”. Per questo è miracolo la bontà. Miracolo, grazia e riscatto. Un calar sulla terra del cielo. Se proprio vuole: è la vita vera e autentica – e fa lo stesso se viene dal basso in alto o dall’alto in giù. La bontà è lo staccarsi dall’etica, la bontà non è una categoria etica8.
Lukács forza notevolmente il quadro: la bontà e il dono della grazia che vi si collega sono al di fuori dell’eticità, anzi, ancora più hegelianamente, sono al di fuori della “tragedia nell’etico”, nella quale vi sono conflitti e vita impura, ma anche opere e creazione di utilità. Perché Sonja, il principe Mischkin, Alexei, i grandi personaggi di I Fratelli Karamazov e di L’idiota, sono buoni e ineffettuali? Perché la bontà non deve toccare il mondo? Sotto questo profilo, si potrebbe quasi sostenere che in Lukács vi è un “enigma Dostojevskij”, che riaffiora nella conclusione di Teoria del romanzo (1915), oltre che negli appunti coevi per la redazione di un libro su di lui. In Teoria del romanzo, infatti, dove Lukács tenta di mettere a punto una più complessa mediazione storica fra la libertà del soggetto e la totalità dell’accadere, il ragionamento si conclude scorgendo nell’opera di Dostojevskij un esaurimento della forma-romanzo – prodotto della scissione borghese –, a favore di un ritorno a una dimensione quasi epica: tuttavia, solo “l’interpretazione storico-filosofica dei segni avrà il compito di dire se noi siamo effettivamente sul punto di abbandonare lo stato di perfetta colpevolezza o se semplici speranze annunciano l’avvento di una nuova era”. L’apparizione dell’opera di Dostojevskij ci suggerisce forse, si domanda Lukács, che la fichtiana epoca di “compiuta peccaminosità” sta per volgere al tramonto? L’“enigma Dostojevskij” è così, in un certo senso, l’enigma stesso della rivoluzione, la domanda intorno alla possibilità che il bene arrivi finalmente a permeare di sé il mondo.
In questa atmosfera, che Lukács più avanti, nella “Premessa del 1962” a Teoria del romanzo, definirà “utopica”, lo scoppio della Prima guerra mondiale determina una ulteriore radicalizzazione a sinistra. Nel circolo di Heidelberg, raccolto attorno a Max Weber, del quale Lukács faceva organicamente parte – insieme a Fernand Tönnies, Werner Sombart, Robert Michels, Ernst Troeltsch, Karl Jaspers, Ernst Bloch etc. –, la collocazione aperta di Lukács nel campo dell’opposizione anti-imperialistica, che assume le forme dell’antimilitarismo e del pacifismo, viene subito notata: Simmel, in una lettera a Marianne Weber, se ne preoccupa, rintracciandone la matrice nella sua poca esperienza9, mentre Paul Ernst riceve da Lukács lettere via via più acri e risentite, come quella del 2 agosto 1915, dove Lukács, su cui incombeva il rischio di essere reclutato nell’esercito, si scaglia con veemenza contro il “Moloch del militarismo” che dovrà decidere se inghiottirlo o no10.
Parallelamente, in quella Russia dove Dostojevskij prevedeva che il socialismo “ateo” non sarebbe mai riuscito a offrire uno sbocco effettivo alla crisi del paese, un “partito di avanguardia” forgiatosi nel corso di mille battaglie interne ed esterne, diretto da intellettuali in gran parte di prim’ordine legati alle frazioni più avanzate della classe operaia russa, compie una rottura gigantesca, conquistando nell’ottobre 1917 il potere politico. Al Lukács di quegli anni, ulteriormente conquistato alla causa della classe operaia attraverso l’accentuazione dei suoi umori sindacalistico-rivoluzionari, stimolati per un verso da Erwin Szabó, il leader dell’ala sinistra della socialdemocrazia ungherese, e per altro verso dalla probabile lettera delle Riflessioni sulla violenta di Georges Sorel, l’evento apparve, con le parole di Sulla povertà dì spirito, come “un calar sulla terra del cielo”. Più prosaicamente e concisamente, egli ricorderà nella “Premessa del 1962” a Teoria del romanzo: “solo l’anno 1917 mi portò la risposta alle questioni che fino allora mi erano parse insolubili”11. Poco dopo, nel dicembre del 1918, approderà al comunismo, diventando membro del Partito ungherese e assumendo funzioni di governo (come commissario del popolo per l’istruzione) all’interno della Rivoluzione dei consigli nell’Ungheria del 1919. La sconfitta della Rivoluzione lo costringe a riparare a Vienna, dove partecipa ai lavori della rivista ultrasinistra “Kommunismus” e perfeziona la raccolta di saggi di Storia e coscienza di classe.
2. I Grundbegriffe di Storia coscienza di classe
In verità, gli interventi di Lukács che fungono da strumenti di transizione fra l’anticapitalismo romantico e il comunismo, ovvero Il bolscevismo come problema morale, Tattica ed etica, il Discorso pronunciato al congresso della gioventù operaia, Il ruolo della morale nella produzione comunista, sono ancora pervasi da una vecchia impostazione problematica, che risponde al suo idealismo etico di sinistra, all’estremizzazione della tensione fra idea e fatto per rivoluzionare il fatto stesso. 11 metodo dialettico, la cui figura era già apparsa nell’Estetica di Heidelberg, nei modi di una ben articolata contrapposizione con il “metodo trascendentale” di Kant e il “metodo fenomenologico” della scuola husserliana, era ancora svincolato dalle sfere teoretica ed etica, perché la via fenomenologica – considerata qui parte integrante del metodo dialettico – vi era ritenuta “inconsueta, |…] superflua, e addirittura impossibile per la teoria e l’etica”12. Per questo Lukács infatti, a differenza che nell’estetica, nella quale la fondazione della posizione del valore non può essere disgiunta dalla considerazione dell’atto soggettivo che la accompagna, la “configurazione di significato” teoretica ed etica è indipendente dalla soggettività ponente. Più precisamente ancora: il cammino della Fenomenologia hegeliana non è etico, perché
al soggetto non deriva l’imperativo di realizzare in sé certi comportamenti interiori, né vengono mai descritti gli impedimenti interni o gli ostacoli esterni che solitamente frenano l’ascesa dell’anima; le stazioni situate in Hegel lungo il cammino che porta alla metafisica sono fatti, oggettivamente dati, della struttura soggetto-oggetto, e il loro darsi necessario considerato separatamente e la necessità del loro susseguirsi mostrano come la trasformazione del soggetto della realtà dell’esperienza immediata in soggetto della metafisica sia una necessità oggettiva13.
Si tratta di una posizione che muterà profondamente in Storia e coscienza di classe, nella quale si insiste sul processo di modificazione pratica della realtà che scaturisce da ogni salto nella coscienza che sia cagionato da una maggiore penetrazione cognitiva in essa. La teoria comincia ora a convertirsi nella praxis, che proprio perciò non è più praxis etica, ma politico-rivoluzionaria. Il bolscevismo non costituisce più soltanto un problema morale, come per il Lukács ancora in procinto di divenire da Saulo Paolo; esso incarna ora la possibilità di tradurre la fenomenologia dello spirito in una fenomenologia della classe proletaria.
Questa fenomenologia della classe proletaria, organizzata da scansioni dialettiche, era in effetti sconosciuta alle componenti maggioritarie della socialdemocrazia tedesca. Si prendano due capolavori della letteratura marxista d’anteguerra, La questione agraria di Karl Kautsky e Il capitale finanziario di Rudolf Hilferding. Nella “Prefazione” della sua opera, pur ribadendo la fedeltà all’esempio del Capitale, Kautsky sottolineava la sua incolmabile distanza dalla dialettica:
Engels ha già dimostrato nel suo Antidühring quanto sia sciocco considerare una negazione distruttiva come parte del processo dialettico. Lo sviluppo attraverso la negazione non significa in nessun modo la negazione di tutto ciò che esiste; essa presuppone invece la continuità di ciò che si deve sviluppare. La negazione della società capitalistica attraverso il socialismo non significa la soppressione della società umana, ma soltanto la soppressione di determinati aspetti di una delle sue fasi di sviluppo. Ala essa non significa nemmeno in alcun modo la soppressione di tutti quegli aspetti che distinguono la società capitalistica dalla forma di società ad essa precedente. Se la proprietà capitalistica è negazione della proprietà individuale, il socialismo è “negazione della negazione”. Questa ripristina la proprietà individuale ma sulla “base delle conquiste dell’epoca capitalistica’’. Lo sviluppo è un progresso soltanto se esso non solo nega, sopprime, ma anche conserva, se accanto all’esistente che merita di perire esso trova anche l’esistente che merita di essere conservato. Il progresso consiste quindi in una accumulazione delle conquiste delle precedenti fasi di sviluppo. Lo sviluppo degli organismi è condizionato non soltanto dall’adattamento, ma anche dalla eredità; le lotte delle classi che sviluppano la società umana sono dirette non soltanto alla distruzione ed alla creazione ex novo, ma anche alla conquista e alla conservazione di ciò che esiste […]14.
Mentre Hegel, nella Fenomenologia dello spirito, si era soffermato sul duplice carattere dello aufheben, allo stesso tempo hinwegräumen (negare) e aufbewahren (conservare), Kautsky offre una versione “continuista” e “gradualista” della dialettica, con un evidente ancoraggio “darwiniano”, che esalta l’adattamento degli organismi all’ambiente, la valorizzazione della eredità storica, le incancellabili conquiste del capitalismo. Su una base diversa, ma con i medesimi effetti quanto alla distruzione politica dei rapporti sociali capitalistici, si era mosso Rudolf Hilferding, nella “Prefazione” a Il capitale finanziario:
per il marxismo, anche il fine della trattazione politica può essere unicamente la scoperta dei nessi causali. La conoscenza delle leggi della società produttrice di merci mette parimenti in evidenza i fattori che determinano la volontà delle classi di tale società. Nella scoperta dei fattori che determinano la volontà delle classi consiste, secondo la concezione marxista, il compito di una politica scientifica, di una politica cioè che sappia descrivere nessi causali. Come la teoretica, anche la politica del marxismo è esente da “giudizi di valore”15.
È vero che, formulando queste premesse metodologiche, Hilferding aveva probabilmente di mira non soltanto gli slanci “volontaristi” al di là della società presente, ma anche le riduzioni di Eduard Bernstein, il quale ne I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia (1899), il manifesto del “revisionismo”, aveva attaccato il fondamento scientifico della strategia socialdemocratica, ovvero il fatto che il capitalismo fosse destinato ad acuire le sue crisi, sostituendovi una ipotesi “riformista”, sorretta da una nuova congiunzione fra empirismo e volontarismo etico; ma è altrettanto vero che la compressione di ogni articolazione tattico-strategica, come contenuto della politica proletaria, avrebbe da ultimo bloccato l’individuazione della differenza costitutiva fra rivoluzione borghese, per lo più imposta dalla necessità di sviluppo delle forze produttive, e rivoluzione socialista, come raccoglimento delle forze che volontariamente si proiettano in una formazione sociale superiore. La cruciale problematica del passaggio al comunismo come passaggio dal “regno della necessità” al “regno della libertà”, da Marx descritto come tale nei Grundrisse e nel Capitale, sarebbe rimasta, seguendo Hilferding, lettera morta.
È lungo questa direttrice – non prima di essersi risolutamente allontanato da ogni soluzione improntata al rinnovamento neokantiano del socialismo, sia nella diramazione “vorländeriana”, che completa il materialismo storico attraverso il riferimento alla finalità del volere, sia in quella “adleriana”, che fornisce una epistemologia “critica” destinata a rilevare gli a priori della coscienza sociale sovrapposta a quella materiale – che Lukács incontra l’eredità vivente di Rosa Luxemburg e Lenin. Al di là delle ovvie e molto conosciute differenze fra i due, quel che spesso si dimentica di osservare in relazione a Storia e coscienza di classe è che, malgrado il più accentuato “luxemburghismo” dei primi saggi, e in particolare di “Rosa Luxemburg marxista” (1921), e il più accentuato “leninismo” degli ultimi, e in particolare di “Osservazioni critica sulla Critica della rivoluzione russa di Rosa Luxemburg” (1922) e di “Considerazioni metodologiche sulla questione dell’organizzazione”, Lukács viene collocandoli entro il medesimo arco teorico-politico, dato dalla problematica della attualità della rivoluzione, collegata a sua volta all’intensificazione del processo di crisi a livello mondiale, dal cortocircuito fra sviluppo capitalistico ineguale e combinato e i suoi riverberi sul piano della vita quotidiana delle classi oppresse, chiamate perciò a organizzarsi, tanto sul piano produttivo (i “consigli” operai) quanto su quello specificamente politico (il partito operaio). Lenin e Luxemburg sono cioè per Lukács il nome di una coscienza politica rivolta verso la totalità del sistema capitalistico mondiale, le cui contraddizioni sono tuttavia ogni volta diverse a seconda dei luoghi e dei tempi in cui si articola il processo di crisi, per esempio a seconda che si stia parlando dei paesi del centro metropolitano dell’imperialismo o della sua periferia o semiperiferia coloniale. È una coscienza politica duttile, che non tollera neanche l’irrigidimento dei metodi di lotta. Come si sostiene infatti nel saggio “Legalità ed illegalità” (1920), Lenin e Luxemburg hanno addestrato il militante del partito a esercitare la massima spregiudicatezza e la massima flessibilità nell’uso dell’ordinamento giuridico, il quale riposando da ultimo sulla violenza di classe della borghesia, non può esservi formalisticamente contrapposto.
L’attitudine “messianico-settaria” di Storia e coscienza di classe, di cui dirà il Lukács autocritico del 1967, è in un certo senso comandata dalla sua diagnosi epocale: se il capitalismo è vicino al tramonto, lo ha dimostrato la Prima guerra mondiale, quel che il partito operaio deve preoccuparsi di ottenere è l’accelerazione della presa di coscienza. Lenin e Luxemburg hanno svolto tutte le implicazioni politiche derivanti da ciò, sconfiggendo o arrivando molto vicino a sconfiggere la borghesia, la quale ha invece una comprensione soltanto “catastrofica” della crisi, che essa subisce senza vederla arrivare. Per comprendere la genesi della crisi, la borghesia dovrebbe infatti superare la contraddizione, che è invece a essa immanente, fra interesse particolare, proprio di ogni singolo capitalista, che mira a battere la concorrenza con i metodi del “plusvalore relativo” (innovazione scientifica e tecnologica, aumento della cooperazione produttiva età), e interesse generale, vale a dire la necessità delle “leggi” economiche, degli automatismi del mercato, sovraordinati al comportamento del singolo capitalista stesso. Beninteso: il Lukács di Storia e coscienza di classe è uno dei primi teorici del movimento operaio a cogliere, anteriormente alla “Scuola di Francoforte”, il superamento del meccanismo anarchico di distribuzione del prodotto sociale, il sorgere della pianificazione dentro il capitalismo, e non fuori di esso, come ripetuto dalla teoria “ortodossa”. Ma per lui l’adozione di forme pianificate di distribuzione del prodotto sociale o l’allargamento della socializzazione del capitale non smentiscono il dominio della forma di merce, con la relativa persistenza della forma di prezzo come espressione dell’attività economica di una molteplicità di produttori privati indipendenti. La loro differenza dai componenti della classe operaia, i quali sono ciascuno pars totalis, membra di organismo collettivo più alto, è da questo punto di vista radicale.
Approfondiamo tuttavia per un momento la riflessione sulle radici di questo fenomeno, per il quale l’uomo nel capitalismo sarebbe costretto a confrontarsi continuamente con una realtà che, sebbene prodotta da esso, gli appare come qualcosa di estraneo, governato da leggi cut esso è completamente assoggettato. Lukács lo illustra ripercorrendo, nella prima parte del saggio più importante di Storia e coscienza di classe, “La reificazione e la coscienza del proletariato”, le tesi marxiane del paragrafo sul “carattere di feticcio della merce e il suo segreto” del Capitale. Come è noto, per Marx la merce è duplicemente costituita, essendo da un lato valore d’uso, prodotto del lavoro concreto, dall’altro valore – e cioè risultato del lavoro astratto e sociale del produttore privato e indipendente. Tuttavia, in una società in cui la produzione e lo scambio privati di merci siano un fatto generalizzato, la proprietà della merce di essere valore appare conquistata nello scambio stesso. Questo perché il valore della merce x, in quanto universale non empirico, non appare, a meno che non si esprima nel valore d’uso della merce y, il quale funge così da equivalente della prima. A cogliere l’importanza di allestire un rapporto di scambio nella quale una determinatezza (il valore della merce x) deve esprimersi nella determinatezza opposta (il valore d’uso della merce y) per poter esser rappresentata è tuttavia solo chi si sia allenato allo studio della forma di valore, uno dei capolavori dialettici di Marx del Capitale. Ma in mancanza di ciò, al produttore privato indipendente e al suo economista di fiducia rimangono come motivo di spiegazione del valore soltanto il valore d’uso di cui sono in possesso o la proporzione con cui si scambiano le merci, la grandezza di valore. Appena queste proporzioni si sono fissate, allora esse sono viste derivare dalle cose stesse. E quando si determinano trasformazioni nelle proporzioni di valore, queste appaiono come esito di un movimento indipendente dalla volontà degli individui. Di modo che i rapporti sociali fra i produttori privati “appaiono come quel che sono, cioè non come rapporti immediatamente sociali fra persone nei loro lavori medesimi, ma come rapporti materiali fra persone e rapporti sociali fra persone”16.
Lukács accetta integralmente queste tesi marxiane sul feticismo. Quest’ultimo ha tuttavia in Storia e coscienza di classe una dimensione più vasta, tanto oggettiva quanto soggettiva. La generalizzazione della produzione e dello scambio di merci implica, infatti, con la riduzione a merce del lavoro degli individui, la mercificazione delle loro facoltà, il loro separarsi da se stessi: la soggettività, per produrre oggetti in forma di merce, deve erogare lavoro astratto, e cioè lavoro divisibile in quanta di energia indistinta. Il lavoro produttivo viene così sottoposto nel capitalismo a un meccanismo di razionalizzazione quantitativa, a ciò che Lukács, citando Weber, chiama “calcolabilità”, per principio indifferente al concreto mondo delle qualità.
Ora, per questo Lukács che si è messo sulla scia tanto di Marx quanto eli Weber, la potenza della razionalizzazione quantitativa investe non solo il piano produttivo, ma anche quello riproduttivo, ovvero le attività che conservano le generali condizioni di produzione della società, da quelle burocratico-amministrative a quelle di consumo. Il che significa anche che la separazione fra valore e valore d’uso, fra astrazione quantitativa e contenuto qualitativo materialmente eterogeneo, su cui riposa la produzione di merci, si estende a tutte le attività riproduttive della società capitalistica. In particolare, essa si estende alla sovrastruttura ideologica, a diritto, economia politica e filosofia, nella veste di specializzazione, frammentazione e formalizzazione dei loro metodi. Con due pesanti effetti collaterali:
1) quanto più specializzazione, frammentazione e formalizzazione dei metodi si innestano nelle scienze, tanto più si interrompe il rapporto con le loro determinazioni ontologiche originarie, si infrange il rapporto diretto con la materia. Il soggetto scientifico si limita ormai a ordinare, in modo “contemplativo”, un insieme di variabili rese nel frattempo astratte e formali;
2)la penetrazione della specializzazione, della frammentazione e della formalizzazione nei diversi sotto-sistemi sociali genera, quale suo immediato contraccolpo, una generale irrazionalità. Se infatti i sistemi si costituiscono in modo formalmente indipendente e l’unico rapporto che essi riescono a stabilire reciprocamente è di natura parimenti formale, allora non vi sarà spazio per un loro più stretto coordinamento; la razionalizzazione della parte, siccome compiuta sotto il segno del feticismo, coincide con l’irrazionalità e l’anarchia della totalità sociale. Ciò implica, di nuovo, che “il punto di vista della totalità”, che vieta ogni isolamento astrattivo degli elementi di una realtà che non sia assunto come mezzo per guadagnare una conoscenza più ricca e profonda di essa, non potrà mai essere conquistato dalla borghesia, ma solo dal proletariato, in quanto aggregazione sociale che è classe, totalità in potentia soggettiva, in grado di conoscere adeguatamente, perché la costruisce, l’essenza del modo di produzione capitalistico.
All’inizio della storia del marxismo, è stato Engels a figurarsi l’ideologia come “falsa coscienza”, in quanto proiezione distorsiva dei dati del pensiero sulla realtà. In questa prospettiva, l’ideologia è espressione di un’autonomia generativa del pensiero, che invece, per essere scientificamente corretto, per essere vero, deve limitarsi a riflettere la realtà materiale. L’ideologia è così idealismo, mentre la scienza è intentio recta verso la realtà:
L’ideologia è un processo che è compiuto, è vero, dal cosiddetto pensatore con coscienza, ma con una falsa coscienza. Le vere forze motrici che lo muovono gli rimangono sconosciute; altrimenti non si tratterebbe appunto di un processo ideologico. Egli si immagina dunque delle forze motrici false o apparenti. Poiché si tratta di un processo di pensiero, egli ne deduce tanto il contenuto che la forma dal pensiero puro, o dal proprio o da quello dei suoi predecessori. Egli lavora con un materiale puramente intellettuale che, senza guardar troppo per il sottile, egli prende come creato dal pensiero e non indaga ulteriormente per trovare un’origine più remota, indipendente dal pensiero, il che è del resto naturale per lui, poiché ogni atto, essendo mediato dal pensiero, gli appare, anche in ultima istanza, fondalo sul pensiero17.
La grande forza della concezione lukacsiana del feticismo è invece che essa ricongiunge il processo di produzione immediato al processo di riproduzione della società sotto il segno e l’egemonia della merce. La società smette di essere, come per il marxismo “ortodosso”, secondo-internazionalistico, un edificio a piani separati, con una base, costituita dai rapporti materiali di produzione, sulla quale si erge una sovrastruttura ideologica, che si limita a riflettere i primi, così dipendendovi. Essa appare piuttosto come una totalità, interamente attraversata, dalla base fino al vertice, dalle contraddizioni e dalle inversioni “feticistiche” della merce. La società capitalistica è ideologica, dunque, non perché esista uno strato di intellettuali che, separati dal processo materiale di produzione, ipostatizzano la propria autonomia, generando idee fantastiche, ma perché le operazioni ordinarie degli uomini, veicolate dalla merce, sono avvolte dallo scambio fra essenza e apparenza.
Non è finita: il Lukács di “Che cosa è il marxismo ortodosso?” (1919), “Coscienza di classe” (1920), “La reificazione e la coscienza del proletariato” si oppone alla concezione engelsiana dell’ideologia per ragioni ancora più cospicue, che riguardano il processo di formazione della coscienza soggettiva. Per il Lukács di questo periodo, infatti, la coscienza non è né coscienza psicologica, l’insieme degli stati mentali riferibili all’essere naturale e sociale, che possiede una sua effettualità anche ai primordi della socializzazione umana, quando la necessità naturale e imperiosa; né coscienza sociale ordinaria, formatasi operando all’interno della circolazione capitalistica delle merci. Tale coscienza sociale ordinaria è infatti per Lukács, lo abbiamo appena ricordato, avvolta nella nebulosità feticistica, fuorviante nella misura in cui separa il piano dell’essenza del sistema economico da quello delle sue forme di manifestazione. Nella borghesia, poi, che è una classe intrinsecamente lacerata fra individualità e socialità, necessità e libertà, materia e forma, la separazione del pensiero dalle sue condizioni naturali e sociali di possibilità tocca l’acme: la sua coscienza è immancabilmente una falsa coscienza o meglio, essendo introvabile la sua intentio recta, non è una coscienza tout court. Quale è dunque per Lukács la coscienza vera, anzi la coscienza tout coarti La risposta del filosofo ungherese è che essa è Setzung, posizione, una istanza sempre operativa della realtà che è immanente alla società come totalità; più propriamente: a una società che nel frattempo e diventata totalità, priva di quel carattere segmentato ed eterogeneo che caratterizzava così fortemente le società precapitalistiche da non potervi applicare – ecco un altro aspetto “anti-kautskyano” di Lukács – il materialismo storico18:
L’istanza di Marx, secondo la quale si deve intendere la «sensibilità», l’oggetto, la realtà come attività umana sensibile significa una presa di coscienza dell’uomo su se stesso come essere sociale, sull’uomo in quanto – nello stesso tempo – è soggetto ed oggetto dell’accadere storico-sociale. L’uomo della società feudale non poteva diventare cosciente di sé come essere sociale, in quanto i suoi stessi rapporti sociali possedevano ancora per molti aspetti un carattere naturale, perché la società stessa nella sua totalità non era organizzata unitariamente al punto da abbracciare nella propria unitarietà tutti i rapporti tra uomo e uomo, in modo tale da potere apparire alla coscienza come la realtà dell’uomo […]. La società borghese compie questo processo di socializzazione della società. Il capitalismo abbatte sia le barriere spazio-temporali tra paesi e territori, sia le pareti divisorie di natura giuridica tra le stratificazione degli stati sociali. Nel suo mondo di uguaglianza formale di tutti gli uomini scompaiono sempre più quei rapporti economici che hanno regolato direttamente il ricambio organico tra uomo e natura. L’uomo diventa – nel vero senso della parola – essere sociale. La società la realtà stessa dell’uomo.
In questo modo la conoscenza della società come realtà diventa possibile solo sul terreno del capitalismo, della società borghese. Tuttavia, la classe che si presenta come veicolo storico di questo rivolgimento, la borghesia, compie ancora inconsciamente questa sua funzione: le forze sociali che essa ha liberato, quelle forze che a loro volta la hanno portata al potere, si contrappongono ad essa come una seconda natura, ancora più inanimata ed impenetrabile di quella del feudalesimo. Soltanto con l’apparire del proletariato giunge a compimento la conoscenza della realtà sociale. E questo proprio per il fatto che si è trovato nel punto di vista di classe del proletariato il punto a partire dal quale la società diventa visibile come intero. Solo perché per il proletariato è un bisogno di vita, una questione di esistenza, ottenere la massima chiarezza sulla propria situazione di classe; solo perché questa situazione diventa comprensibile unicamente nella conoscenza dell’intera società – conoscenza che è l’indispensabile premessa delle sue azioni, – nel materialismo storico è sorta ad un tempo la teoria delle “condizioni per la liberazione del proletariato, e la teoria della realtà del processo complessivo dello sviluppo sociale”19.
Acquisita questa consapevolezza, qual è allora per il Lukács di Storia e coscienza di classe il limite più rilevante che grava sulla concezione engelsiana del rapporto fra coscienza e realtà materiale? La risposta è di nuovo situata in “La reificazione e la coscienza del proletariato”: se la coscienza si limita a rispecchiare l’oggettività naturale e storico-sociale, si affermerà una separazione di principio fra pensiero e realtà, per superare la quale bisognerà ricorrere a una identità di tipo metafisico, perché solo una identità esterna alle due dimensioni ormai separate può farsi garante della loro corrispondenza; che cosa insomma, dice Lukács anticipando alcuni paradossi della filosofia della mente contemporanea, assicura che l’immagine della realtà prodotta dal cervello corrisponda alla realtà stessa? Un problema analogo si affaccia quando, scontato il fallimento delle soluzioni “materialistiche”, si passi a quelle “idealistiche”. In quest’ultimo contesto, Lukács esamina due vie per attingere la corrispondenza fra coscienza e realtà: o quella “kantiana” della costruzione di un oggetto identico al pensiero (il fenomeno), ma diverso dai contenuti materiali di cui si ha affezione (la cosa in sé), oppure la via “platonica” di elaborazione di una teoria delle idee, cioè di un principio sovraempirico che leghi il pensiero alle idee stesse e queste alle cose empiriche. Entrambe queste vie sono per Lukács impraticabili: la prima, il vertice più alto del razionalismo borghese moderno, sviluppa l’identità fra coscienza e realtà attraverso l’unità trascendentale dell’appercezione, dunque attraverso qualcosa che, in quanto di natura logica, non può mai chiudere la faglia con il contenuto materiale da cui siamo affetti, con l’effetto peraltro di trasformare la dualità coscienza-realtà che si voleva superare in quella fra fenomeno e cosa in sé; la seconda, invece, ottiene l’identità fra coscienza e realtà attraverso un riferimento psicologico (per esempio, la riscoperta anamnestica, entro sé stessi, dell’identità del proprio pensiero con le forme ideali) o di nuovo metafisico, con il rinvenimento di mediazioni oggettive che non sono tuttavia scientificamente verificabili.
D’altra parte, le aporie del razionalismo moderno, generate dal complesso tentativo di dominare univocamente la dialettica fra forma e contenuto, concetto ed esistenza, fenomeno e cosa in sé, non sono superate neanche dal pensiero filosofico più recente (storicismo, neokantismo etc.), come Lukács argomenta diffusamente nella seconda parte del saggio “La reificazione e la coscienza del proletariato”, intitolato “Le antinomie del pensiero borghese”. Il suo formalismo “contemplativistico” è inestirpabile. Solo facendo un passo indietro, alla filosofia di Fichte e poi, più coerentemente e risolutamente, a quella di Hegel si può rintracciare un’iniziativa teorica che muove al di là di tali difficoltà. Hegel è infatti il primo pensatore a concepire la totalità come qualcosa che si può produrre a partire dallo stato di frammentazione qualitativa dei contenuti materiali; l’unità fra forma e contenuto materiale è propiziata nella sua filosofia dalla ricostruzione fenomenologica della genesi del soggetto conoscitivo. In tale processo, la cui logica è quella dell’universale concreto – e cioè quella di un universale che ha ormai incorporato la cosa in sé, individuandosi –, il protagonista non può più essere, come in Kant, il soggetto “trascendentalmente” costituente, ma la continua e mutevole dialettica della soggetto-oggettivazione. Questa dialettica è perciò, nel suo fondamento, storia.
Tuttavia, anche Hegel soffre, nella determinazione di questo soggetto, di un grave limite “logicistico”. Invece di affidarsi ai soggetti dinamicamente produttivi della formazione sociale moderna, egli ricade nella mitologia speculativa, e sceglie lo spirito del mondo come organo semovente della storia, con l’unica conseguenza di far riaffiorare il vecchio problema razionalistico della scissione fra forma (lo spirito stesso) e contenuti materiali (gli individui o le nazioni che se ne fanno portatori).
Il grande progresso di Marx è stato di distruggere ogni mitologia speculativa, collocando al posto dello spirito hegeliano un altro soggetto produttivo della storia, il proletariato. In questa classe, sono presentì infatti tutte le potenzialità per smantellare la reificazione della coscienza borghese, defeticizzando il rapporto dell’individuo con la totalità sociale. Orto, anche il proletariato è, conformemente a tutte le premesse analitiche lukacsiane, originariamente immerso nella reificazione, costretto a misurare tutte le differenze che sussistono fra la sua coscienza “attribuita” – derivanti dalla comprensione delle possibilità d’azione che sono determinate dalla posizione della classe all’interno della totalità dei rapporti di produzione – e la sua coscienza “empirica”, ogni volta storicamente data; tuttavia, il suo interesse primario lo induce, a differenza della borghesia, a scomporre criticamente tutte le mediazioni intorno a cui si costruisce la società borghese. Fondamentalmente, ciò accade per due ragioni: in primo luogo, perché la sua condizione, a differenza di quella della borghesia, è quella di un oggetto della storia, vittima del lavoro astratto e come tale immediatamente affondato nella totalità sociale di capitale; in secondo luogo, perché appena esso si scopre come merce, come forza-lavoro, diventa cosciente di essere nella misura in cui è in rapporto oppositivo con il capitale, di essere cioè nella misura in cui determina, attraverso la produzione immediata di merci, la valorizzazione del capitale. La reificazione che coinvolge il proletariato lo mette così direttamente a contatto con la totalità di quel meccanismo che lo assoggetta, diversamente da ciò che avviene in altri rami del sistema della divisione sociale del lavoro, dove essa tende ad assumere modalità più opache e indirette (l’appello alla responsabilità per il burocrate ecc.). Ma se il proletariato dissolve con la sua azione la struttura della reificazione moderna, l’identità fra soggetto e oggetto sarà ripristinata; l’enigma della storia è risolto.
Ora, se la coscienza vera è Setzung, connessione fra particolarità e totalità, per la quale appena vi è una trasformazione nella coscienza del soggetto proletario, vi dovrà essere una corrispondente trasformazione, attraverso la prassi, dal lato dell’oggetto, dando origine a quel processo di continua e vicendevole trasformazione fra teoria e prassi, conoscenza e azione, economia e politica, che, come abbiamo sopra osservato, mette in mora “il dilemma dell’impotenza” – l’oscillazione perpetua fra fatalismo e volontarismo che ha travagliato la prima vicenda storico-politica del movimento operaio –, che cosa ne sarà di quella dialettica della natura che Engels si era preoccupato di fondare nell’ultima parte del suo itinerario teorico? La risposta di Lukács è di carattere vicinano: vera dialettica è solo quella della società, non quella della natura, perché solo nella prima è implicato il soggetto, con quel circolo teoretico-pratico che abbiamo appena descritto. Tuttavia, in Storia e coscienza di classe Lukács radicalizza ancora questa tesi, condannando come “contemplative” le stesse indagini tecnico-scientifiche della natura:
Il profondo fraintendimento di Engels consiste nel fatto che egli considera come praxis – in senso dialettico-filosofico – il comportamento caratteristico nell’industria e nell’esperimento. Ma proprio l’esperimento implica un comportamento per eccellenza contemplativo. Lo sperimentatore crea un ambiente artificiale, astratto, per poter osservare liberamente le leggi nel loro operare indisturbato, dopo aver escluso, sia dalla parte del soggetto che da quella dell’oggetto, tutti quegli elementi irrazionali che potrebbero avere una funzione frenante. Egli cerca di ridurre il sostrato materiale della sua osservazione – nella misura del possibile – a ciò che viene “generato” in modo puramente razionale, alla “materia intelligibile” della matematica. E quando Engels, a proposito dell’industria, dice che ciò che è così “generato” viene reso utilizzabile “ai nostri scopi”, sembra aver dimenticato per un istante quella fondamentale struttura della società capitalistica che egli stesso aveva formulato con insuperabile chiarezza nel suo geniale scritto giovanile. Sembra cioè aver dimenticato che la “legge di natura” di cui si tratta nella società capitalistica “poggia sull’inconsapevolezza dei partecipanti”20.
3. Storia e coscienza di classe oggi
La fortuna di Storia e coscienza di classe è stata così vasta da essere difficilmente misurabile. Se ne possono individuare, tuttavia, tre fasi. Nella prima, durante gli anni ’20, il libro ha reso effettivamente perseguibile la rifondazione di una filosofia marxista consustanziale a un comunismo di sinistra impegnato a bruciare le tappe della ripresa rivoluzionaria successiva all’ottobre ’17. Subito dopo la morte di Lenin, però, al V congresso della Terza Internazionale, tenutosi a Mosca nel luglio del 1924, Storia e coscienza di classe fu duramente attaccata, insieme a Marxismo e filosofia di Karl Korsch, per bocca di Zinov’ev, allora presidente del suo Comitato esecutivo, che apostrofò il libro come “revisionista” e il suo autore come un “professore”. Anche Bucharin, uno dei protagonisti della Involuzione d’Ottobre, allora fra i principali dirigenti del partito, si unì all’accusa.
La prima accoglienza del libro non fu tuttavia soltanto sfavorevole. Jószef Révai, compagno di Lukács nel seno della frazione del Partito comunista ungherese che faceva capo a Jenö Landler, mise in risalto la novità filosofica del libro, che per la prima volta nel marxismo introduce la dimensione dialettica nel rapporto fra coscienza e realtà21; Karl Korsch, allora esponente della sinistra del KPD, autore del “gemello” Marxismo e filosofia, dichiarò nel poscritto del testo che “mentre scrivevo questo saggio è apparso il libro di György Lukács Geschichte und Klassenbewusstsein […]. Per quanto ho potuto constatare fino a ora, non posso che approvare con gioia le esposizioni dell’Autore fondate su una più larga base filosofica, che spesso toccano questioni che ho posto in questo mio saggio”22; Ernst Bloch pubblicò su di esso una affascinante e piuttosto elogiativa recensione, corredata da un’unica critica, relativa alla coscienza come posizione, accusata di produrre uno slancio verso il passato o verso il futuro che rischia di perdere la densità del momento attuale come momento di liberazione utopica, invece recata a esistenza da una coscienza che abbracci la sfera della decisione presa nella “tenebra dell’attimo vissuto”23.
Gli umori critici tornarono prevalenti nelle recensioni di A.M. Deborin, un filosofo menscevico cresciuto alla scuola di Plechanov, e L. Rudas, compagno di Lukács nel partito ungherese, in quegli anni collaboratore del Comintern. Il primo, in un ampio intervento sulla rivista austriaca “Arbeiterliteratur”, criticò Lukács per il giudizio espresso sulla dialettica della natura di Engels e per aver formulato la tesi che l’“ortodossia” marxista significasse fedeltà al metodo scientifico di Marx piuttosto che ai contenuti concreti della sua teoria24. Il secondo obiettò più acutamente a Lukács il carattere schiettamente idealistico della “coscienza attribuita di diritto” e dunque della coscienza intesa come posizione, la quale disperderebbe il collegamento causale con l’oggettività, invece conservato da una coscienza concepita come reazione o riflesso della realtà esterna25.
Fino a pochi anni fa, gran parte della letteratura scientifica insisteva sulla rapida retromarcia autocritica alla quale Lukács sarebbe stato costretto in conseguenza delle critiche subite da Storia e coscienza di classe. Oggi sappiamo che non è così: nel 1996, è stato infatti riportato alla luce negli Archivi del Comintern di Mosca un manoscritto, intitolato Chwostimus and Dialektik. (Codismo e dialettica), in cui Lukács, rispondendo a Deborin e Rudas, ribadisce la sua concezione filosofica, in particolare rispetto a quattro temi: il nesso fra soggettività e realtà, la coscienza di classe “attribuita”, la relazione fra “per noi” e “per sé”, la dialettica della natura26. La revisione delle tesi portanti di Storia e coscienza di classe è stata – contra l’interpretazione storicamente prevalente – un processo notevolmente più lento e complesso, che ha subito un’accelerazione solo con la cosiddetta “svolta” del ’30, dopo la lettura dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 di Marx e dei Quaderni filosofici di Lenin.
Parallelamente, soprattutto nell’ambito della “Scuola di Francoforte”, cominciava la rapida scalata filosofica del libro: Walter Benjamin scrive, prima nella lettera a Scholem del 13 giugno 1924, che “il libro [Storia e coscienza di classe] stesso è molto importante, specialmente per me”27 ; poi, di nuovo in una lettera a Scholem, del 16 settembre 1924, che Storia e coscienza dì classe
mi ha colpito perché prendendo le mosse da considerazioni politiche Lukács approda, nella teoria della conoscenza, – almeno in parte, e forse non nella misura che avevo supposto in un primo tempo –, a tesi che mi sono molto familiari o che confermano mie convinzioni […]. Nel campo del comunismo il problema teoria e prassi’ mi pare configurarsi così: nonostante tutta la diversità che deve essere conservata a queste due sfere, un’appercezione definitiva della teoria vi è legata alla prassi. Almeno mi è chiaro come in Lukács questa affermazione abbia un duro nocciolo filosofico, e sia tutt’altro che una frase borghesemente demagogica28.
Nell’incontro con lui, l’unico della sua vita, di cui parla nella lettera a Kracauer del 17-18 giugno 1925, anche Adorno dichiara di essere rimasto colpito da Lukács (l’impressione è stata “groß und tief”, grande e profonda), anche se in essa Storia e coscienza di classe non viene esplicitamente menzionata29. Il punto fondamentale del loro dialogo sembra aver riguardato il senso della dialettica hegeliana, da Lukács utilizzata per rivedere le formulazioni di Teoria del romanzo e da Adorno ritenuta inscindibile dall’idealismo. Più sorvegliata è la ricezione di Marcuse, il quale dà notizia dell’acquisizione dei contenuti di Storia e coscienza di classe, probabilmente avendola già letta da tempo, nel saggio Marxismo trascendentale del 1930, in cui sono attaccate le posizioni di Max Adler. Qui si approva, con accenti heideggeriani, la movenza fondamentale del libro per aver voluto vedere la filosofia come quello che è: come espressione scientifica di un determinato atteggiamento umano, e precisamente di un atteggiamento fondamentale nei confronti dell’essere e dell’ente, in cui una certa situazione storico-sociale può, spesso, esprimersi in modo più chiaro e profondo che nelle sfere sclerotizzate, reificate della vita pratica30.
Negli stessi anni, Karl Mannheim, con il quale Lukács aveva partecipato nel 1917 ai lavori, in funzione anti-positivistica, della Libera scuola delle scienze dello spirito di Budapest, lo individua come interlocutore centrale per la formazione di una nuova disciplina, la “sociologia della conoscenza”. Il rapporto rimane tuttavia ambiguo, giacché in ideologia e utopia (1929) Mannheim conclude il suo ragionamento rimproverando il dogmatismo marxista di Storia e coscienza di classe31. Nonostante la sua opposizione a Mannheim, di cui respinge la proposta circa la “sociologia della conoscenza”, l’atteggiamento verso Storia e coscienza di classe di Max Horkheimer, Direttore dell’Istituto di Ricerca Sociale di Francoforte negli anni ’30, è persino più perplesso: il nome di Lukács non affiora mai nei suoi scritti degli anni ’20 e ’30 e quando il confronto lo investe direttamente, per esempio nelle Thesen über den Begriff der Totalität del 1925-1932, quanto emerge non è in linea con le indicazioni di Lukács. In particolare, Horkheimer non accetta l’identità fra soggetto e oggetto come nocciolo della nozione di “proletariato”32.
Il secondo “tempo” della fortuna di Storia e coscienza di classe è stato avviato in Francia, dove già nel 1955 Maurice Merleau-Ponty pubblica un libro, Le avventura della dialettica, il cui secondo capitolo, “Marxismo occidentale”, vi è precisamente dedicato. Il grande merito di Lukács sarebbe stato di riabilitare
la coscienza al di là delle ideologie in linea di principio, [negandole] il possesso a priori del tutto; non pretendeva di esaurire l’analisi del passato precapitalistico e la razionalità della storia a suo avviso non era che un postulato della sua evoluzione capitalistica. La maggior parte dei marxisti fanno esattamente l’opposto: negano la coscienza dal punto di vista teorico e di nascosto si muniscono di uno schema intellegibile del tutto, scoprendo tanto più facilmente il significato e la logica di ogni particolare fase di sviluppo in quanto l’hanno già presupposta dogmaticamente. Il merito raro di Lukács, ciò che fa del suo libro ancora oggi un libro di filosofia, è appunto il fatto che la filosofia non vi era sottintesa ma praticata, che essa non serviva a “preparare” la storia, che era il concatenarsi stesso della storia in un’esperienza umana. La lettura filosofica della storia faceva intravedere chiaramente, dietro la prosa della vita quotidiana, una ripresa di sé da parte di se stessi che è la definizione della soggettività33.
Sull’onda di questa rivalutazione, la rivista “Arguments”, i cui fondatori erano appena usciti dal PCF, pubblicò nel 1957-1958 alcune traduzioni parziali dell’opera, senza peraltro il consenso dell’autore, nel frattempo già impegnato nel progetto di un ripensamento “ontologico” del marxismo, e perciò ferocemente contrario alla ripubblicazione del suo libro giovanile. La traduzione integrale del testo in francese, con una prefazione di Kostas Axelos, uscirà poco dopo, nel 1960.
Un alone polemico, poi progressivamente diradatosi, ha circondato anche il rapporto di Jean-Paul Sartre con Lukács. Spentesi le controversie filosofiche del dopoguerra intorno al valore del messaggio esistenzialistico, oltre che i dissensi più acutamente politici, è infatti dopo il ’56 che Sartre si volge verso Storia e coscienza di classe, come attesta lo sforzo, in Critica della ragione dialettica, di ripensare la problematica della totalità (ribattezzata, volendone mettere in rilievo l’aspetto aperto e antidogmatico, “totalizzazione”). In Critica della ragione dialettica, tuttavia, il nome di Lukács è singolarmente taciuto34; esso riemerge nella relazione tenuta da Sartre alla Conferenza su “Marxismo e soggettività” svoltasi all’Istituto Gramsci di Roma nel 1961. Qui il filosofo francese dedica un intero paragrafo al Lukács di Storia e coscienza dì classe, imputando alla “coscienza attribuita di diritto” una forzatura oggettivistica, che interrompe la relazione sintetica fra i soggetti sociali reali e il mondo35. Ancora più tranchant è il giudizio pronunciato sul Lukács di Storia e coscienza di classe dal Louis Althusser di Per Marx, il quale lo trova caricaturale e inguaribilmente obsoleto, soprattutto nel suo lato “umanistico”36. Il giudizio è ripetuto, sebbene in modo meno aggressivo, nell’opera fondatrice dell’althusserismo, Leggere il Capitale, nel quadro della polemica con lo “storicismo” marxista37. A tener invece strettamente conto di Storia e coscienza di classe, facendone la base stessa del loro ragionamento, saranno Guy Debord, in quel manifesto del “situazionismo” che è La società della spettacolo (1967), e Lucien Goldmann, il quale in Lukács e Heidegger (1973), uscito postumo, preciserà le tesi già avanzate in Mensch, Gemeinschaft und Welt in der Philosophie: Kants (1945), cercando di dimostrare un’influenza dell’approccio di Storia e coscienza di classe sull’analitica esistenziale di Essere e tempo di Martin Heidegger.
Dalla branda il libro riattinse il suo ascendente sulla cultura europea. In Italia, dove già negli anni ’50 se ne era venuta comunicando la conoscenza, grazie alla mediazione di Delio Cantimori38, Cesare Cases39, Franco Fortini40 e Pietro Rossi41, esso ha impegnato l’alta cultura marxista nel suo progetto di ricostruzione filosofica del materialismo storico, da un lato con Funzione delle sciente e significato dell’uomo di Enzo Paci, e, dall’altro, con Il marxismo e Hegel di Lucio Colletti, nel quale si sottolinea, pur censurando l’atteggiamento lukacsiano verso la tecnoscienza, la novità d’approccio in relazione alla questione del feticismo della merce, finalmente ricondotto al suo luogo genetico, il paragrafo 1.4 del Capitale marxiano. Nondimeno, è tutto il marxismo italiano degli anni ’60 e ’70, indipendentemente dalle sue molteplici diramazioni, che sviluppa notevolmente, nei contributi di Amodio42, Asor Rosa43, Badaloni44, Bedeschi45, Cassano46, Cerarti47, Neri48, Perlini49, Vacatello50, Vacca51, il rapporto con Storia e coscienza di classe.
Diverso e il destino del libro in Germania, dove la sua riscoperta è un avvenimento collegato allo scongelamento della situazione politica, con la formazione nella sinistra degli anni ’60 di una forte componente “anti-autoritaria”, guidata da Rudi Dutschke e Hans-Jürgen Krahl, che mira a ricostituire un nesso con le grandi lezioni del marxismo filosofico degli anni ’2052. Ma è di nuovo Adorno che, in Dialettica negativa (1966), insiste sulla centralità della questione della reificazione in Storia e coscienti di classe:
Non manca d’ironia che siano stati gli stessi funzionari brutali e primitivi, che più di quarantanni or sono scomunicarono Lukács a causa del capitolo sulla reificazione nell’importante libro Storia e coscienza di classe, ad aver fiutato l’aspetto idealistico della sua concezione. La dialettica non è riducibile alla reificazione come a nessun’altra categoria isolata, anche se fosse così polemica. Su ciò per cui gli uomini soffrono glissa via nel frattempo il lamento sulla reificazione, anziché denunciarlo. Il male sta in quei rapporti che condannano gli uomini all’apatia e all’impotenza e che essi però potrebbero modificare; non in primo luogo negli uomini e nel modo in cui i rapporti appaiono loro53.
Alla vigilia del ’68, di cui è uno dei livres de chevet, il libro circola in diverse edizioni, tanto che lo stesso Lukács si convince della necessità di ripubblicarlo, allegandovi quell’autocritica, consegnata alla “Prefazione” del 1967, di cui abbiamo già parlato. Essa si sofferma su un ampio ventaglio di problemi che deriverebbero dall’impostazione del libro, che così è sconfessato per aver: 1. cancellato la dimensione “ontologica” dal marxismo; 2. risolto quest’ultimo in una teoria critica della società, ignara dell’essere della natura; 3. trascurato il lavoro come attività teleologica, modello originario della prassi umana; 4. trasfigurato idealisticamente la prassi, ridimensionando al contempo la conoscenza come fedele rispecchiamento dell’essente, dell’in sé della realtà; 5. svalutato l’industria e l’esperimento scientifico; 6. ridotto il marxismo a comprensione del “punto di vista della totalità”, dimentico del fondamento “economico” della riproduzione sociale; 7. proposto il concetto del proletariato come “soggetto-oggetto identico”; 8. confuso alienazione e oggettivazione (per la quale ogni processo di oggettivazione è considerato in Storia e coscienza di classe una rottura dell’unità fra soggetto e oggetto). Per questo Lukács, la riscoperta della dimensione ontologica del marxismo, insieme alla valorizzazione del lavoro come modello originario della prassi umana, porterebbero alla individuazione di ciò che sfugge alla manipolazione del sistema, in quanto fondamento di ogni azione umana: la vita quotidiana. A tale valorizzazione della vita quotidiana si sono ricollegati i suoi allievi della “Scuola di Budapest” (Ágnes Heller, Ferenc Fehér, Mihály Vajda e György Márkus), la quale, caratterizzandosi per una più forte evidenziazione del lato antropologico della tarda concezione lukacsiana, hanno fatto riemergere una sensibilità affine a quella trasmessa da Storia e coscienza di classe54.
La crisi del marxismo che si verifica in Francia, Germania e Italia fra il 1968 e il 1977 – in un periodo in cui comunque la circolazione del libro aumenta, specialmente nei paesi anglosassoni, dove esso riscuote l’attenzione dei giovani intellettuali della New Left degli anni ’6055 –, ha travolto anche Storia e coscienza di classe, diventata il bersaglio non scoperto di quegli studiosi e di quei filosofi che, magari sotto l’etichetta del “pensiero negativo”, hanno voluto percorrere all’inverso il cammino di Lukács, passando dal comunismo al nichilismo, dalla cultura marxista a quella della decadenza tardo-borghese. In questo stesso periodo, tuttavia, si intensificano le evasioni da Lukács condotte negli ambienti della sinistra rivoluzionaria: ne è documento Il dibattito nel marxismo occidentale (1976) di Perry Anderson, per il quale Lukács esemplifica la posizione di quegli intellettuali che, sconfitti politicamente negli anni delle rivoluzioni mancate e della nascita dello stalinismo, si ritirano dalla diagnosi economica verso la pratica autoreferenziale della riflessione filosofica. Le tesi avanzate da Anderson hanno suscitato ampia eco, trovando un fiero avversario nel Russel Jacoby di Dialectic of Defeat (1981), il quale ha piuttosto individuato nel Lukács di Storia e coscienza di classe l’autore di una grandiosa traduzione a livello filosofico dei principi politici e organizzativi del luxemburghismo. Il clima di incertezza che si è affermato in quegli anni intorno al libro non ne ha cancellato tuttavia il carattere di crocevia obbligato: nessun discorso teorico che abbia mirato ad affrontare i grandi dilemmi del processo di modernizzazione e razionalizzazione ha potuto prescindere da Storia e coscienza di classe, come testimonia l’approfondita discussione delle sue tesi che innerva l’analisi del primo volume di Teoria dell’agire comunicativo di Jürgen Habermas.
Con ciò, la Wirkungsgeschischte del libro è entrata in una terza fase, che è caratterizzata per un verso dalla crescita del materiale documentario e delle ricerche che aiutano a illuminare le diverse tappe che vi hanno condotto56; per altro verso, dal tentativo di riprendere la tematica che vi soggiace, svolgendola in altre e originali direzioni. Sotto chiesto profilo, occorre segnalare in primo luogo il saggio Reificazione (2005) di Axel Honneth, che interpreta la reificazione indagata da Lukács come oblio del riconoscimento intersoggettivo e come fonte delle principali patologie sociali della modernità; in secondo luogo Alienazione (2005) di Rahel Jaeggi, che ritrova nella mescolanza di aspetti oggettivi e soggettivi della analisi lukacsiana della reificazione il modello per una rivisitazione in chiave neo-pragmatista e neo-hegeliana del concetto di “alienazione”. Sull’altra sponda dell’Atlantico, occorre segnalare l’opera di Tom Rockmore, che inscrive il Lukács di Storia e coscienza di classe nel progetto di una nuova epistemologia “costruttivista”, e quella di Andrew Feenberg, che lo riconduce nell’alveo di una filosofia della prassi dai contorni più generali, nei quali si può riconoscere anche il marxismo di Antonio Gramsci.
Questa terza fase arriva fino ai giorni nostri e alla domanda su quale sia il valore di Storia e coscienza di classe per il mondo contemporaneo, con la dissoluzione dell’atmosfera politica nella quale il suo gesto teorico era collocato. Quale significato, cioè, può avere oggi un libro che costituisce la piattaforma filosofica del comunismo di sinistra nel quadro di una feroce battaglia contro la degenerazione socialdemocratica del partito operaio? Sia il leninismo, travolto dal collasso dell’Unione Sovietica nel 1989-1991, sia le socialdemocrazie, ridottesi, quando esistono, a pilotare gli interventi di “aggiustamento strutturale” delle economie occidentali, hanno perso quella incidenza storica che Lukács attribuiva loro. È vero che Storia e coscienza di classe ha, armeno in una certa misura, alimentato la cultura della Nuova Sinistra degli anni ’60 e ’70, come alternativa “marxista occidentale” alla vecchia cultura del movimento operaio; in questa veste, è alla base persino di molte elaborazioni che si situano nel campo di ciò che si chiama “post-marxismo”57. Ma se vi è una questione che divide Storia e coscienza di classe da ogni revisionismo post-marxista è precisamente la fiducia nella classe operaia come agente sociale della redenzione, come esponente di quel contenuto materiale che può mettere in crisi le forme reificate della mediazione sociale totale. Storia e coscienza di classe non è, non può essere, il libro di chi abbia creduto nei “nuovi movimenti sociali”, nella “società civile”, nella “moltitudine”. È piuttosto il libro che percorre il ciclo dell’astrazione reale per saltare verso il partito operaio e il “regno della libertà”.
Tuttavia, è proprio su questo terreno che il libro potrebbe riguadagnare una sua singolare e cruciale attualità: che cosa ha dimostrato, infatti, la storia politica degli ultimi quarant’anni in Occidente se non che quando la classe lavoratrice è sconfitta, e per questo divorzia dalla sinistra politica facendo da carburante ai diversi fenomeni del “populismo”, è l’intero quadro democratico a regredire, fin nelle sue più astratte ed elementari “regole del gioco”? Viceversa: dove i lavoratori sono riusciti variamente a riorganizzarsi e seppur parzialmente a intervenire nell’agone politico – negli ultimi anni lo abbiamo osservato durante le Primavere arabe, in Cile, in Myanmar, negli Stati Uniti –, si sono immediatamente riaperte le opportunità di avanzamento democratico e rinnovamento civile. È evidente, e non è questo il luogo per discuterne, che la classe lavoratrice di oggi è molto diversa da quella su cui poteva contare Lukács, giacché è stata investita da una ventata di cambiamenti tecnologici, organizzativi, sindacali, politici, culturali, in connessione con una pesante ristrutturazione mondiale del capitale, che ha partorito centinaia di milioni di nuovi salariati, riconfigurato la divisione internazionale del lavoro – con la trasformazione del rapporto fra le zone in cui è collocata l’industria ad alta composizione organica di capitale e quelle in cui è collocata l’industria a bassa composizione organica di capitale –, mutato profondamente il rapporto fra esercito industriale attivo ed esercito industriale di riserva, con la formazione di un vasto proletariato nomade, modificato i regimi salariali, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti, all’insegna della “compatibilità” e della “competitività”. Ma qualora si riuscisse a fare i conti con tutto ciò – in questo stadio ne siamo certamente ben lontani – è questo il contesto in cui Storia e coscienza di classe potrebbe ritrovare un’incidenza. A patto che si rimanga consapevoli che il suo appello alla centralità del fattore-coscienza e del fattore-organizzazione, in virtù dei quali il proletariato deve anzitutto cambiare se stesso per cambiare la società, da solo non basta, perché deve essere accompagnato da un maggiore assorbimento delle articolazioni e stratificazioni che lo compongono a livello mondiale; quell’assorbimento cui la concezione della coscienza come posizione fa in qualche modo ostacolo, perché riduce le possibilità di rispecchiare in modo più fedele la realtà oggettiva delle contraddizioni economiche e sociali. In fondo, il secondo Lukács, la cui opera culmina in Per l’ontologia dell’essere sociale, ha avuto il merito, mentre cercava di ridimensionare la portata del principio della prassi, di aver recuperato questa esigenza, conferendo un più sostanziale valore alle mediazioni storico-sociali oggettive, a quel che in questa opera egli chiama il “complesso dei complessi”58.
Se si riuscisse a collocare Stona e coscienza dì classe in questa prospettiva, si potrebbe di nuovo affrontare una critica che è stata spesso indirizzata, peraltro giustamente, al libro, ossia che esso poggia certamente su alcune categorie fondamentali del Capitale, ma quasi tutte ricavate dalla sua prima sezione, dal terreno della circolazione delle merci; quel che non vi sarebbe scandagliato è il nesso marxiano valore-plusvalore, la genesi del plusvalore come prodotto dello sfruttamento operaio59. La realtà dell’ultima stagione della mondializzazione capitalistica, quella dagli anni ’70 in poi, ci ha riconsegnato la decisività, in ordine alla conversione del valore in plusvalore, della trasformazione del lavoro in merce, che avviene in ogni caso sul terrene) della circolazione, dello scambio fra capitale e forza-lavoro. È una generalizzazione circolatoria, sia bene inteso, che deriva dalla generalizzazione della produzione capitalistica di merci. Ma rimane il fatto che oggi la feticizzazione, che incorpora quella della forza-lavoro, è un fenomeno per la prima volta globale, che mette insieme tutte le genti e tutte le economie, dalla Cina e dalla Corea al Brasile, passando per l’Italia.
La questione della natura della coscienza come posizione ci riconduce alla valutazione del suo inevitabile correlate): il soggetto-oggetto identico, quale esito della liquidazione del problema della “cosa in sé”, della piena conversione della materia nella forma e viceversa. Questa deve essere anche osservata, in conclusione, da un’angolatura strettamente filosofica. In un certo senso, il limite di questa concezione di Lukács sta nel suo neanche tanto nascosto platonismo, per il quale dalla conoscenza piena della verità come totalità segue una coscienza adeguata, politicamente pura (“la coscienza attribuita di diritto”), in quanto tale svincolata dai suoi portatori empirici, di cui impone piuttosto la metamorfosi. La totalità è verità che è, a sua volta, libertà. Su questo terreno, Lukács accetta, nella sostanza, l’interpretazione “storicista” e “neokantiana”, ben rappresentata nei suoi maestri Lask e Rickert, circa il sapere assoluto hegeliano: esso, come soggetto-oggetto identico, è pienamente trasparente a sé, è “sciolto” (ab-solutus) dal limite. Ma che cosa significa propriamente liberazione dal limite nell’assoluto? È senz’altro vero che l’assoluto è in Hegel il luogo in cui le diverse forme di finitezza trapassano a totalità, spogliandosi delle loro precedenti e oppressive limitazioni. Proprio come tale, tuttavia, esso spinge ad aderire nuovamente alla determinatezza eterogenea del mondo naturale e spirituale. Quando infatti la coscienza diventa sapere assoluto, l’idea diventa metodo o lo spirito oggettivo diventa spirito assoluto ciò che si acquista è una pura forma, è la scienza, è la capacità di esporre i modi dello sviluppo logico-ontologico che è anche capacità di agire in modo universale. Come tale, l’assoluto è necessariamente in contrasto, come è detto nel capitolo dedicato all”’idea assoluta” della Scienza della logica, con quella “individualità esclusiva”, con “quella soggettività impenetrabile, come di un atomo”60, che ne ha precedentemente determinato la genesi. È questa “contraddizione” fra soggettività e forma a scatenare ciò che Hegel, alla fine dell’“idea assoluta”, chiama l’“impulso”61, il quale, dividendo dall’interno la soggettività, separandola da se stessa, la proietta nuovamente verso la natura e la storia, che possono essere, ora, produttivamente percorse perché la soggettività ha conquistato la padronanza scientifica delle forme. A differenza insomma di quanto ritenuto da Lukács, e con lui invero da tutto il marxismo occidentale, il compimento di una totalità che è allo stesso tempo verità e libertà, l’assoluto, non rappresenta la vanificazione di ogni movimento, l’appagata identificazione con sé, che “chiude”, coronandola, la storia; è la condizione di ogni autentica apertura, scientifica e pratica, verso il mondo.
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