lunedì 21 novembre 2022

Addio G20, benvenuti BRICS+

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Di Pepe Escobar, thecradle.co

La qualità redentrice di un teso G20 tenutosi a Bali – altrimenti gestito con lodevole grazia indonesiana – è stata quella di definire nettamente in che direzione soffiano i venti geopolitici, come mostrato dai due punti salienti del vertice: il tanto atteso incontro presidenziale tra Cina e Stati Uniti – che rappresenta la più importante relazione bilaterale del 21 ° secolo – e la dichiarazione finale del G20.

L’incontro faccia a faccia di 3 ore e mezzo tra il presidente cinese Xi Jinping e il suo omologo statunitense Joe Biden, richiesto dalla Casa Bianca, si è svolto nella residenza della delegazione cinese a Bali e non nella sede del G20, presso il lussuoso Apurva Kempinski di Nusa Dua.

Il Ministero degli Affari Esteri cinese ha delineato in modo conciso ciò che conta davvero. In particolare, Xi ha detto a Biden che l’indipendenza di Taiwan è semplicemente fuori questione e ha espresso la speranza che la NATO, l’UE e gli Stati Uniti si impegnino in un “dialogo globale” con la Russia. Invece del confronto, il presidente cinese ha scelto di evidenziare i punti di interesse comune e di cooperazione.

Biden, secondo i Cinesi, ha fatto diverse dichiarazioni: gli Stati Uniti non cercano una nuova guerra fredda; non sostengono “l’indipendenza di Taiwan”; non sostengono una politica delle “due Cine”, né quella di “una Cina e una Taiwan”; non cercano il “disaccoppiamento” dalla Cina e non intendono contenere Pechino. Tuttavia, i fatti recenti suggeriscono che Xi abbia poche ragioni per prendere per oro colato le parole di Biden.

La dichiarazione finale del G20 è stata una questione ancora più confusa, il risultato di un arduo compromesso. Per quanto il G20 si sia auto-descritto come “il primo forum per la cooperazione economica globale”, impegnato ad “affrontare le principali sfide economiche del mondo”, il G7 all’interno del G20 di Bali ha di fatto dirottato il tema centrale del summit sulla guerra. Infatti, nella dichiarazione finale, la parola “guerra” compare quasi il doppio della parola “cibo”.

L’Occidente collettivo, incluso lo stato vassallo giapponese, era fermamente deciso ad includere nella dichiarazione finale la guerra in Ucraina e i suoi “impatti economici”, in particolare la crisi alimentare ed energetica, ma senza offrire neanche un accenno legato all’espansione della NATO. L’importante era incolpare di tutto la Russia.

L’effetto Sud Globale

E’ toccato all’Indonesia, che ha ospitato il G20 di quest’anno, e all’India, che ospiterà il prossimo, mostrare la caratteristica cortesia asiatica e la capacità di costruire un consenso. Giacarta e Nuova Delhi hanno lavorato duramente per trovare una formula verbale accettabile sia da Mosca che da Pechino. Potremmo chiamarlo Effetto Sud globale. Ma la Cina ha voluto dei cambiamenti alla formulazione, andando contro la volontà degli stati occidentali, mentre la Russia non richiesto correzioni alla dichiarazione finale, in quanto il ministro degli Esteri Sergey Lavrov era già partito.

Al punto 3 (su 52), la dichiarazione “esprime il più profondo rammarico per l’aggressione della Federazione Russa contro l’Ucraina e chiede il ritiro completo e incondizionato delle forze armate dal territorio dell’Ucraina.”

“Aggressione russa” è il mantra standard della NATO, non condiviso praticamente da nessun paese del Sud del mondo.

La dichiarazione traccia una correlazione diretta tra la guerra e un “aggravamento non contestualizzato dei problemi urgenti nell’economia globale: rallentamento della crescita economica, aumento dell’inflazione, interruzione delle catene di approvvigionamento, peggioramento delle risorse energetiche e della sicurezza alimentare, aumento dei rischi per la stabilità finanziaria.”

Questo passaggio non potrebbe essere più ironico: “L’uso o la minaccia di far uso di armi nucleari è inammissibile. La risoluzione pacifica dei conflitti, gli sforzi per affrontare le crisi, così come la diplomazia e il dialogo, sono vitali. L’epoca attuale non deve essere centrata sulla guerra”. La NATO e il suo dipartimento di pubbliche relazioni, l’UE, “rappresentata” dagli eurocrati non eletti della Commissione Europea, non operano affatto sulla base di “diplomazia e dialogo.”

Fissati con la guerra

Invece gli Stati Uniti, che controllano la NATO, hanno armato l’Ucraina da marzo con ben 91,3 miliardi di dollari, inclusa l’ultima richiesta presidenziale di questo mese per altri 37,7 miliardi di dollari. Si tratta del 33% in più della spesa militare totale della Russia per il 2022.

Ulteriori prove che il Vertice di Bali è stato dirottato sul tema “guerra” sono state fornite dalla riunione di emergenza convocata dagli Stati Uniti per discutere di quello che è poi risultato essere un missile ucraino S-300 caduto su una fattoria polacca, e non dell’inizio della terza guerra mondiale, come alcuni tabloid hanno istericamente annunciato.

Significativamente, all’incontro non era presente nessuno dal Sud del mondo e l’unica nazione asiatica era il vassallo giapponese, un membro del G7.

A completare il quadro, è intervenuto il sinistro capo di Davos, Klaus Schwab, il quale, al B20 business forum ha ancora una volta impersonato il cattivo dei film di Bond, vendendo il suo Grande Reset come una ricetta per “ricostruire il mondo” attraverso pandemie, carestie, cambiamenti climatici, attacchi informatici e, naturalmente, guerre.

E, come se ciò non fosse abbastanza inquietante, Davos e il suo World Economic Forum hanno ordinato all’Africa – per altro, completamente esclusa dal G20 – di pagare 2,8 trilioni di dollari per “adempiere ai suoi obblighi”, ai sensi dell’accordo di Parigi, per ridurre al minimo le emissioni di gas serra.

La fine del G20 come lo conosciamo

La grave frattura tra Nord globale e Sud globale, così evidente a Bali, era già affiorata a Phnom Penh, dove lo scorso fine settimana la Cambogia aveva ospitato il vertice dell’Asia orientale.

I 10 membri dell’ASEAN avevano chiarito che non intendono seguire gli Stati Uniti e il G7 nella loro demonizzazione collettiva della Russia e, per molti aspetti, della Cina. Inoltre, gli Asiatici del sud-est non sono esattamente eccitati dall’IPEF (Indo-Pacific Economic Framework) inventato dagli Stati Uniti, che sarà irrilevante in termini di rallentamento dell’ampio commercio e della connettività della Cina nel sud-est asiatico.

A peggiorare le cose, l’auto-nominato “leader del mondo libero” ha deciso di evitare l’importantissimo vertice dell’APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation) di Bangkok, alla fine di questa settimana. Per le culture asiatiche, molto sensibili e sofisticate, questo è percepito come un affronto. L’APEC, fondata nel lontano 1990 per promuovere il commercio in tutto il Pacifico, riguarda importanti scambi commerciali, non una militarizzazione “indo-pacifica” americanizzata.

Questo affronto segue l’ultima gaffe di Biden, che, al vertice di Phnom Penh, si era rivolto erroneamente al cambogiano Hun Sen come al “primo ministro della Colombia”.

In fila per unirsi ai BRICS

Possiamo tranquillamente affermare che il G20 sembra aver imboccato un percorso senza ritorno verso l’irrilevanza. Ancor prima dell’attuale ondata di vertici del Sud-Est asiatico (Phnom Penh, Bali e Bangkok), Lavrov aveva già dato un quadro del futuro, dicendo che “oltre una dozzina di Paesi” hanno chiesto di aderire ai BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa). Iran, Argentina e Algeria hanno già formalmente fatto domanda. L’Iran, insieme a Russia, India e Cina, fa già parte del Quad eurasiatico che conta davvero. Turchia, Arabia Saudita, Egitto e Afghanistan sono estremamente interessati a diventare membri. L’Indonesia ha appena fatto domanda, durante il summit di Bali. E poi c’è l’ondata successiva: Kazakistan, Emirati Arabi Uniti, Thailandia (che probabilmente farà domanda di adesione questo fine-settimana a Bangkok), Nigeria, Senegal e Nicaragua.

È fondamentale notare che tutti questi Paesi avevano inviato i loro ministri delle finanze a partecipare alla conferenza sull’Espansione dei BRICS già a maggio. Una breve, ma seria valutazione dei candidati rivela una sorprendente unità nella diversità. Lavrov stesso ha osservato che ci vorrà tempo affinché gli attuali cinque BRICS analizzino le immense implicazioni geopolitiche e geoeconomiche dell’espansione – al punto da raggiungere praticamente le dimensioni del G20 – escludendo l’Occidente collettivo.

Ciò che unisce i candidati è soprattutto il possesso di enormi risorse naturali: petrolio e gas, metalli preziosi, terre rare, minerali rari, carbone, energia solare, legname, terreni agricoli, pesca e acqua dolce. Questo è l’imperativo quando si tratta di progettare una nuova valuta di riserva basata sulle risorse per aggirare il dollaro USA.

Supponiamo che si debba attendere fino al 2025 per avere questa nuova configurazione BRICS+ attiva e funzionante. Ciò rappresenterebbe circa il 45% delle riserve globali di petrolio confermate e oltre il 60% delle riserve globali di gas confermate (e questa cifra aumenterebbe ulteriormente con l’adesione del Turkmenistan, la “repubblica del gas”).

Il PIL combinato [di tutti questi paesi – ndt], in cifre odierne, sarebbe di circa $29,35 trilioni, quindi superiore a quello degli Stati Uniti ($23 trilioni) e almeno il doppio di quello dell’UE ($14,5 trilioni, in calo).

Allo stato attuale, i BRICS rappresentano il 40% della popolazione mondiale e il 25% del PIL. I BRICS+ riunirebbero 4.257 miliardi di persone, oltre il 50% della popolazione globale così com’è allo stato attuale.

BRI abbraccia i BRICS+

I BRICS+ intendono interconnettersi con un labirinto di istituzioni: le più importanti sono la Shanghai Cooperation Organization (SCO), con una lista di attori che desiderano diventarne membri a pieno titolo; la OPEC+ strategica, guidata de facto da Russia e Arabia Saudita, e la Belt and Road Initiative (BRI), il quadro generale di politica commerciale ed estera della Cina per il 21° secolo.

Vale la pena sottolineare che tutti gli attori asiatici principali hanno già aderito alla BRI. Poi ci sono gli stretti legami dei BRICS con una pletora di blocchi commerciali regionali: ASEAN, Mercosur, GCC (Gulf Cooperation Council), Eurasia Economic Union (EAEU), Arab Trade Zone, African Continental Free Trade Area, ALBA, SAARC e, ultimo ma non meno importante, il Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), il più grande accordo commerciale del pianeta, che include la maggioranza dei partner BRI.

BRICS+ e BRI sono un binomio da qualunque punto lo si guardi, dall’Asia occidentale, dall’Asia centrale o dall’Asia sud-orientale (in particolare, Indonesia e Thailandia). L’effetto moltiplicatore sarà fondamentale, poiché i membri della BRI attireranno inevitabilmente altri candidati per i BRICS+.

Ciò porterà ad una seconda ondata di aspiranti BRICS+ tra cui, quasi certamente, Azerbaijan e Mongolia, altri tre Paesi dell’Asia centrale (Uzbekistan, Tagikistan e repubblica del gas Turkmenistan), Pakistan, Vietnam, Sri Lanka e, dall’ America Latina, un nutrito contingente composto da Cile, Cuba, Ecuador, Perù, Uruguay, Bolivia e Venezuela.

Nel frattempo, sarà rafforzato il ruolo della New Development Bank (NDB) dei BRICS e dell’Asia Infrastructure Investment Bank (AIIB) guidata dalla Cina, coordinando i prestiti infrastrutturali a tutto spettro, poiché i BRICS eviteranno sempre più i dettami imposti dagli Stati Uniti, dominati dal FMI e dalla Banca Mondiale.

Tutto questo descrive a malapena l’ampiezza e la profondità dei riallineamenti geopolitici e geoeconomici che ci aspettano nel prossimo futuro e che interessano ogni angolo del commercio globale e le reti della catena di approvvigionamento.

L’ossessione del G7 di isolare e/o contenere i principali attori eurasiatici gli si sta ritorcendo contro, nel quadro del G20. Alla fine, è il G7 che potrebbe ritrovarsi isolato dalla forza irresistibile dei BRICS.

Ancor prima dell’attuale ondata di vertici del Sud-Est asiatico (Phnom Penh, Bali e Bangkok), Lavrov aveva già dato un quadro del futuro, dicendo che “oltre una dozzina di Paesi” hanno chiesto di aderire ai BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa). Iran, Argentina e Algeria hanno già formalmente fatto domanda. L’Iran, insieme a Russia, India e Cina, fa già parte del Quad eurasiatico che conta davvero. Turchia, Arabia Saudita, Egitto e Afghanistan sono estremamente interessati a diventare membri. L’Indonesia ha appena fatto domanda, durante il summit di Bali. E poi c’è l’ondata successiva: Kazakistan, Emirati Arabi Uniti, Thailandia (che probabilmente farà domanda di adesione questo fine-settimana a Bangkok), Nigeria, Senegal e Nicaragua.

È fondamentale notare che tutti questi Paesi avevano inviato i loro ministri delle finanze a partecipare alla conferenza sull’Espansione dei BRICS già a maggio. Una breve, ma seria valutazione dei candidati rivela una sorprendente unità nella diversità. Lavrov stesso ha osservato che ci vorrà tempo affinché gli attuali cinque BRICS analizzino le immense implicazioni geopolitiche e geoeconomiche dell’espansione – al punto da raggiungere praticamente le dimensioni del G20 – escludendo l’Occidente collettivo.

Ciò che unisce i candidati è soprattutto il possesso di enormi risorse naturali: petrolio e gas, metalli preziosi, terre rare, minerali rari, carbone, energia solare, legname, terreni agricoli, pesca e acqua dolce. Questo è l’imperativo quando si tratta di progettare una nuova valuta di riserva basata sulle risorse per aggirare il dollaro USA.

Supponiamo che si debba attendere fino al 2025 per avere questa nuova configurazione BRICS+ attiva e funzionante. Ciò rappresenterebbe circa il 45% delle riserve globali di petrolio confermate e oltre il 60% delle riserve globali di gas confermate (e questa cifra aumenterebbe ulteriormente con l’adesione del Turkmenistan, la “repubblica del gas”).

Il PIL combinato [di tutti questi paesi – ndt], in cifre odierne, sarebbe di circa $29,35 trilioni, quindi superiore a quello degli Stati Uniti ($23 trilioni) e almeno il doppio di quello dell’UE ($14,5 trilioni, in calo).

Allo stato attuale, i BRICS rappresentano il 40% della popolazione mondiale e il 25% del PIL. I BRICS+ riunirebbero 4.257 miliardi di persone, oltre il 50% della popolazione globale così com’è allo stato attuale.

BRI abbraccia i BRICS+

I BRICS+ intendono interconnettersi con un labirinto di istituzioni: le più importanti sono la Shanghai Cooperation Organization (SCO), con una lista di attori che desiderano diventarne membri a pieno titolo; la OPEC+ strategica, guidata de facto da Russia e Arabia Saudita, e la Belt and Road Initiative (BRI), il quadro generale di politica commerciale ed estera della Cina per il 21° secolo.

Vale la pena sottolineare che tutti gli attori asiatici principali hanno già aderito alla BRI. Poi ci sono gli stretti legami dei BRICS con una pletora di blocchi commerciali regionali: ASEAN, Mercosur, GCC (Gulf Cooperation Council), Eurasia Economic Union (EAEU), Arab Trade Zone, African Continental Free Trade Area, ALBA, SAARC e, ultimo ma non meno importante, il Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), il più grande accordo commerciale del pianeta, che include la maggioranza dei partner BRI.

BRICS+ e BRI sono un binomio da qualunque punto lo si guardi, dall’Asia occidentale, dall’Asia centrale o dall’Asia sud-orientale (in particolare, Indonesia e Thailandia). L’effetto moltiplicatore sarà fondamentale, poiché i membri della BRI attireranno inevitabilmente altri candidati per i BRICS+.

Ciò porterà ad una seconda ondata di aspiranti BRICS+ tra cui, quasi certamente, Azerbaijan e Mongolia, altri tre Paesi dell’Asia centrale (Uzbekistan, Tagikistan e repubblica del gas Turkmenistan), Pakistan, Vietnam, Sri Lanka e, dall’ America Latina, un nutrito contingente composto da Cile, Cuba, Ecuador, Perù, Uruguay, Bolivia e Venezuela.

Nel frattempo, sarà rafforzato il ruolo della New Development Bank (NDB) dei BRICS e dell’Asia Infrastructure Investment Bank (AIIB) guidata dalla Cina, coordinando i prestiti infrastrutturali a tutto spettro, poiché i BRICS eviteranno sempre più i dettami imposti dagli Stati Uniti, dominati dal FMI e dalla Banca Mondiale.

Tutto questo descrive a malapena l’ampiezza e la profondità dei riallineamenti geopolitici e geoeconomici che ci aspettano nel prossimo futuro e che interessano ogni angolo del commercio globale e le reti della catena di approvvigionamento.

L’ossessione del G7 di isolare e/o contenere i principali attori eurasiatici gli si sta ritorcendo contro, nel quadro del G20. Alla fine, è il G7 che potrebbe ritrovarsi isolato dalla forza irresistibile dei BRICS.

Di Pepe Escobar, thecradle.co

Pepe Escobar è editorialista di The Cradle, editor-at-large di Asia Times e analista geopolitico indipendente focalizzato sull’Eurasia. Dalla metà degli anni ’80 ha vissuto e lavorato come corrispondente estero a Londra, Parigi, Milano, Los Angeles, Singapore e Bangkok. È autore di innumerevoli libri; il suo ultimo è Raging Twenties.

17.11.2022

fonte originale: https://thecradle.co/Article/Columns/18477

Photo Credit: The Cradle

Tradotto da Divoll per ComeDonChisciotte.org

 

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