È proprio venuta l’ora di una rivolta semantica contro l’uso di parole e stilemi impiegati come armi rivolte contro l’intelligenza e la dignità delle persone.
ilsimplicissimus2.com Anna Lombroso
La prima, portatrice di infinite discriminazioni e abusi, è merito e per perversa estensione: meritocrazia, che, lo dice perfino Wikipedia, è un neologismo coniato dal sociologo britannico Michael Young, nel romanzo fantascientifico L’avvento della meritocrazia del 1958 per raccontare del dominio di una oligarchia nella quale la posizione sociale di un individuo viene determinata dalla sua attitudine al lavoro, dal suo potenziale produttivo e dalla sua fidelizzazione. E che ha assunto invece un significato positivo e progressivo, quando nella nostra realtà, più distopica del romanzo, starebbe a indicare che la selezione del personale, l’affermazione e le carriere sono soggette a criteri di merito, e non di appartenenza dinastica o castale.
Niente di più falso da quando il mercato è diventato un principio regolativo universale, che giudica perfino l’esistenza in vita sulla base della produttività, da quando i sistemi educativi e formativi si sono adattati ai format importati dal mondo dell’impresa privata, da quando, in sostanza, in assenza di pari opportunità la “meritocrazia” dà luogo a ingiustizie, favoritismi, pratiche familistiche e clientelari ancora più discriminatorie in un sistema, quello liberista, che produce disuguaglianze insormontabili.
A liquidare l’illusione di poter compiere “una lunga marcia dentro le istituzioni democratiche” verso il socialismo, si sono messe di traverso alcune componenti di sistema, l’accentramento della conoscenza, la riduzione – in netto contrasto con la narrazione di una comunicazione di massa e per la massa, aperta e disponibile – dell’accesso alle informazioni necessarie a garantire la partecipazione al processo decisionale, la detenzione del possesso e della gestione degli strumenti e dei processi informatici che anziché favorire l’accessibilità ai servizi, l’ostacola generando emarginazione e penalizzazione di larghi strati di pubblico “escluso”.
Per quello un altro termine contro cui indirizzare il nostro incollerito scontento è “semplificazione”, abusato da tutti quelli che hanno sempre adoperato la burocrazia e il dispotismo amministrativo e che, per favorire la concentrazione dei poteri di controllo nelle loro mani, hanno dissolto la rete dei soggetti di vigilanza e controllo, tentano di cancellare principi costituzionali, sconfinano nell’illecito autorizzato a norma di legge per rimuovere lacci e laccioli che ostacolerebbero la “libera iniziativa” privata.
Quella semplificazione uno dei capisaldi della weltanschauung leopoldina ha intriso come un veleno gli esecutivi succeduti ai governi Berlusconi, che non avevano osato tanta provocatoria sicumera: Renzi, Letta, Gentiloni e poi il governo Conte 2 nel quale il Pd ha soffocato le ultime codarde resistenze 5Stelle, introducendo licenza di abuso e facendo incombere ancora una volta la minaccia del silenzio- assenso, secondo un approccio esemplarmente rappresentato dalla faccia di tolla dell’allora presidente che schiaccia esultante il bottone per alzare le paratie dell’oltraggio, quelle del Mose, rivendicando con la frase: noi non siamo qui a fare passerelle, il ruolo decisivo e dirimente della “politica” contro i capricci conservatori e passatisti dell’ambientalismo che non si è arreso alle magnifiche sorti della green economy.
Come era prevedibile la semplificazione è uno dei motori del piccone demolitore della legalità, della tutela ambientale, della trasparenza impugnato dal Governo Draghi con la benedizione dell’Anticorruzione, incaricata di “dettare le regole per far parlare fra loro e in prospettiva unire le diverse banche dati della pubblica amministrazione in materia di investimenti e appalti…. per promuovere l’interoperabilità che ha come obiettivo ultimo la digitalizzazione spinta del sistema degli appalti che la stessa Anac e Bankitalia considerano la via maestra per tagliare i tempi delle procedure, ridurre gli adempimenti a carico delle imprese, dare efficienza al sistema”.
Come attori di una commedia degli equivoci, l’Esecutivo e i suoi fantocci tecnici avocano a sé tutte le competenze in forma opaca e autoritaria, ma alimentano il mito che automaticamente informatizzazione e digitalizzazione oltre a garantire efficienza assicurino l’accesso di tutti alle informazioni e disciplinino gli obblighi di pubblicità. Quando qualsiasi pensionato dell’Inps, qualsiasi correntista delle poste, qualsiasi cittadino che voglia saperne di più su interventi che interessano il suo territorio conosce l’avvilente esclusione che lo riporta alla condizione di analfabetismo e ignoranza di cento anni fa.
Che invece la modernizzazione dell’apparato vada a beneficio esclusivo delle grandi imprese è confermato da una norma allo studio del Governo, l’assegnazione di un «punteggio per l’uso nella progettazione dei metodi e strumenti elettronici specifici», si chiamerà Bim (Building Information Modeling), e premierà le aziende più strutturate e dunque più competitive, in modo da contribuire alla concentrazione dei grandi a danno dei medi e piccoli.
Circolano già le bozze dei provvedimenti che si collocano nel quadro disegnato dal Dl 76/2020, il decreto semplificazioni del luglio 2020, in modo da approfittare della corsia privilegiata aperta dall’emergenza sanitaria, secondo la prassi consolidata che, per una volta i cinesi diventano un modello da imitare, fa di una crisi l’opportunità per ricorrere a leggi speciali, per l’affidamento a soggetti e autorità eccezionali (gestione, realizzazione e controlli dei cantieri delle 57 opere infrastrutturali strategiche sono già affidati a commissari straordinari, alcuni dei quali sotto inchiesta per reati commessi nello svolgimento delle loro funzioni tecniche), per l’aggiramento di regole.
Così la semplificazione da approccio procedurale è stato trasformato in “riforma” strategica cui deve ispirarsi il nuovo sistema degli appalti, delle concessioni e dei contratti pubblici da adottare e applicare con una delega al governo da approvare entro la fine dell’anno, e che ha investito il percorso disegnato dal Recovery plan nazionale per “razionalizzare” le norme destinate ad accompagnare gli investimenti finanziati dal Next Generation Eu, secondo criteri che devono riguardare non solo la fase di affidamento, ma anche quelle “di pianificazione programmazione e progettazione”, rafforzando e prolungando fino al 2023 il regime speciale introdotto dal decreto Semplificazioni del governo Conte.
Aspettiamoci dunque uno snellimento delle verifiche antimafia, il concentramento della fasi decisionali delle conferenze dei servizi che diventano marinettiane “conferenze veloci”, la limitazione della responsabilità per danno erariale ai casi di dolo, escludendo dunque «omissioni e inerzia» dei funzionari; la conferma dell’istituto del collegio consultivo tecnico; l’indicazione di un termine massimo di aggiudicazione degli appalti, il tutto normato dal ricorso a leggi delega.
E d’altra parte è l’Europa che ce lo chiede, condizionando l’erogazione delle sue carità pelose alla messa a punto di misure che garantiscano più efficienza nell’approvazione e esecuzione dei lavori pubblici, invitando il Paese che registra più macchinosità e lentezza, il nostro, sia nell’amministrazione della giustizia civile e amministrativa che in quella della Pa, a impegnarsi “per un’attuazione rapida dei progetti d’investimento, in particolare nelle infrastrutture”, minacciando il congelamento degli esborsi del Recovery Plan qualora non si adegui con le “riforme richieste”.
Inutile dire che né l’Europa né i suoi colonnelli, nell’elenco delle grandi opere strategiche da realizzare improrogabilmente con metodi snelli, licenze autorizzate, non hanno pensato di inserire quella fondamentale, primaria, la manutenzione ordinaria e continuativa del territorio, la messa in sicurezza dei coste e montagne, la cura della qualità delle acque e dell’aria e del patrimonio boschivo, fronte ineguagliabile per contrastare frane e alluvioni.
E se è per quello anche un altro cantiere del dopoguerra non è annoverato tra quelli di interesse primario, quella della vera ricostruzione che si aspettano nel cratere del sisma del Centro Italia e dell’Aquila i dimenticati indegni di comparire tra i sopravvissuti.
E non a caso, perché quelle sono attività poco profittevoli, cantieri poco redditizi per le grandi cordate del cemento, non prevedono l’affidamento per i controlli e le verifiche alla cerchia dei tecnici della sorveglianza un tanto al metro cui è stata delegata la vigilanza su ponti e viadotti, non offrono scappatoie e scorciatoie al giro di poltrone di manager e imprenditori corrotti fino al crimine, ai quali è doveroso rendere la vita e i profitti, facili e “semplici”.
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