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A 23 anni Bernardo Bertolucci già girava la sua opera seconda, Prima della rivoluzione, «il mio primo film autobiografico, quello in cui uno mette tutto sé stesso» (I was born in a trunk, in Qui comincia l’avventura del signor…, a cura di A. Garibaldi-R. Giannarelli-G. Giusti, 1984). Disprezzato dalla critica italiana, che consigliò quasi unanimemente al giovane regista di tornare a scuola perché aveva ancora molto da imparare, vinse invece due premi a Cannes nel 1964, presentato alla Semaine de la critique, ed ebbe l’apprezzamento della stampa straniera. Se il Bertolucci noto ai più è quello “kolossal” della maturità, forse il suo profilo più autentico sta proprio qui, in un film girato nella sua città natale (Parma), con la sua donna (Adriana Asti) e un piccolo gruppo di amici e/o conterranei (Morando Morandini, Gianni Amico, il pittore Goliardo Padova as himself), in cui il protagonista, Francesco Barilli, non solo fisicamente sembra il suo sosia ma è anche membro di una famiglia di intellettuali parmigiani esattamente come il regista, figlio del poeta Attilio Bertolucci.
Prima della rivoluzione prende il suo titolo da una frase del politico francese Talleyrand (1754-1838), posta ironicamente in epigrafe al film: «Chi non ha vissuto negli anni prima della Rivoluzione non può capire cosa sia la dolcezza del vivere». Il protagonista infatti si dibatte in una crisi, esistenziale più che politica, per cui la vita facile che conduce gli sembra un peso insostenibile, o comunque qualcosa che si paga a caro prezzo, col sacrificio della parte migliore di sé. Sembra sia soprattutto il clima culturale del tempo a far indicare al regista col nome di “rivoluzione” quello che è soprattutto una scelta, un cambiamento di vita atteso, inseguito ma mai raggiunto perché mai perseguito con autentica convinzione. In questo rifiuto della “dolcezza del vivere”, il film si pone anche come l’anti-Dolce vita, film di poco precedente (1960). Se Fellini, sempre al di qua della morale, ha una inesauribile disponibilità a farsi trascinare dal flusso vitale, in cui alla fine tutto sembra riconciliarsi spontaneamente in un attimo magico, Bertolucci manca completamente dell’atavica arte italiana di adagiarsi nel compromesso, sentendo delle contraddizioni tutto il dramma e la responsabilità morale, il che basta forse a spiegare perché anche la sua stessa città sembri averlo dimenticato e lì non vi sia oggi nulla che parli di un uomo, in un certo senso, così poco italiano.
Il film è ispirato a La Certosa di Parma (1839) di Stendhal, in molteplici modi. A prima vista sembra che Bertolucci ne abbia tratto soltanto i nomi dei protagonisti e i loro ruoli ai tre vertici di un triangolo amoroso: il giovane rampollo di una famiglia bene, Fabrizio; la zia Gina, di una decina d’anni più vecchia di lui e sorella della madre; la bionda fidanzata Clelia, di famiglia ancora più ricca e bene di quella di Fabrizio (la superiorità è sancita indiscutibilmente dal possedere un proprio palco al Teatro Regio). Nel romanzo entrambi questi amori, benché ardentemente ricambiati, sono di fatto impossibili: il primo in quanto incestuoso, il secondo perché Fabrizio è un religioso e Clelia andrà poi sposa a un altro uomo. Nel film, invece, l’amore per Clelia non è solo possibile, ma addirittura doveroso. Con lei, infatti, il protagonista è fidanzato «da sempre». Clelia è la quintessenza della «piccola città, bastardo posto», della vita immobile che il protagonista, all’inizio del film (simbolicamente nei giorni in prossimità della Pasqua, giorno di morte e rinascita), si propone di abbandonare, andando proprio a dare un ultimo sguardo a quella bellezza che è anche un addio al dolce lasciarsi vivere dell’esistenza “borghese”. Non a caso la cercherà per tutte le chiese di Parma fino a trovarla nel Duomo con la madre. Clelia infatti non appare mai nel film senza sua madre, a sottolineare il fatto che il fidanzamento non è con una singola persona, ma piuttosto con un’intera famiglia e un sistema di vita. Bertolucci alterna poi i primi piani della ragazza con i volti delle sculture romaniche del Duomo, assimilandola a queste pietre guardiane del tempio, belle e inanimate (cioè prive di anima) com’è infatti lei stessa, muta vestale di un ordine immutabile (non la sentiremo dire una parola per tutto il film). Allo stesso modo era stata presentata la città nelle prime inquadrature del film, con una visione dall’alto nella quale risaltavano i suoi monumenti, tra tutti il battistero, ma che contemporaneamente la voce off del protagonista inchiodava al suo essere pietra. Quando poi la macchina da presa era scesa per immergersi nel via vai delle strade cittadine, in piazza Garibaldi, sempre la stessa voce si chiedeva se i suoi concittadini fossero mai stati vivi.
La tensione al cambiamento si incarna invece in due personaggi, che sembrano poter compiere il miracolo di evitare che Fabrizio diventi di pietra come la sua fidanzata, i suoi parenti, la sua città. A queste persone si rivolge, all’inizio del film, la voce off del protagonista, riflettendo a posteriori sulla sua storia: «Esistevo perché voi esistevate. Adesso che me ne sto in pace, attaccato alle mie radici, mi sembra di non esistere più». Da subito, quindi sappiamo che a nulla servirà tutto quello che vedremo nel corso del film, tanto che lui stesso, alla fine, lo ammetterà esplicitamente: «sono una pietra e non cambierò mai».
Il primo personaggio che sembra offrire una via d’uscita a Fabrizio è Cesare, maestro elementare (ben interpretato dal critico cinematografico Morando Morandini). Parla con lui, gli suggerisce dei libri da leggere, lo avvicina al partito comunista. Cesare è una persona già salva, perché estraneo al mondo di Fabrizio, come suggerisce anche visivamente la contrapposizione tra i ricchi saloni della casa del protagonista, in centro città, e la vecchia casa, dai muri esterni scrostati, in cui vive il maestro, in una periferia che è già campagna. Un personaggio poco approfondito e schematico nella sua positività, che sa un po’ di lezione ripetuta, tanto che lo stesso protagonista osserva che quando ne ripete le parole, nella sua bocca sembrano meno vere. Più un contraltare programmatico che un uomo in carne e ossa.
L’altra possibile via d’uscita è rappresentata dall’amore con Gina, alla quale dà l’acqua della vita una meravigliosa Adriana Asti, di fatto coautrice col regista del suo personaggio («Bernardo in quel film mi ha preso l’anima: il mio personaggio mi assomigliava troppo. E quando una cosa ti riguarda così direttamente, può sembrare addirittura ripugnante» – Un futuro infinito. Piccola autobiografia, 2017). Gina è intrinsecamente diversa da tutti, ha tagliato le sue radici e se n’è andata a Milano. Scopriremo che è tornata temporaneamente a Parma su consiglio del suo psicoanalista. Da una parte rifiuta il mondo adulto, dall’altra se ne sente esclusa e non può non ammirarlo, odiandosi per essere diversa: in una conversazione con Fabrizio, prima dice che non le piacciono gli adulti, poi nega di averlo detto e sostiene che le piacciono invece molto, «alti e biondi» – cioè il suo opposto. Allo stesso modo, gli dirà: «odio gli uomini, con le loro donne, i loro figli, le loro famiglie; tu mi piaci perché non sei ancora un uomo». Gina oppone la libertà dell’infanzia alle costrizioni e convenzioni della società, il «mondo degli adulti», per l’appunto. Non a caso Fabrizio e Gina faranno l’amore per la prima volta in un vecchio magazzino del palazzo di famiglia in cui il ragazzo si rifugiava a giocare da bambino. Gina non è felice, non ha neppure lontanamente la serenità di Cesare, certo di essere nel giusto, però anche lei è già salva, perché basta la sua nevrosi a tagliarla fuori: è il suo stesso inconscio ad aver scelto per lei. Non può essere una pietra chi soffre così tanto.
Un altro tema che riecheggia il romanzo di Stendhal è la dialettica tra rivoluzione e restaurazione. Fabrizio del Dongo, fuggito di casa per unirsi all’esercito napoleonico, dovrà poi adattarsi al mondo ridisegnato dal Congresso di Vienna; il Fabrizio di Bertolucci, invece, non riesce a compiere il moto contrario. Per contribuire a costruire quell’ «uomo nuovo» che vagheggia, dovrebbe avere il coraggio di compiere delle scelte, rinunciare ai privilegi della sua classe, andarsene da Parma. Sarà invece più facile dirsi deluso da tutti, da Gina (che se n’è andata) e dal popolo (che accusa di imborghesimento), piangendo sulla fine dei propri ideali, politici e amorosi, immagine impietosa del narcisismo inconcludente dell’intellettuale borghese. Questo sguardo impietoso e per niente compiaciuto del regista fa scrivere a Lino Miccichè, riguardo al primo Bertolucci, che «uno dei suoi grandi meriti è quello di aver fatto un cinema in qualche modo sottratto alle pratiche di deviazione e consolazione della coscienza che dominarono in quegli anni, sovrane, gli schermi italiani» (Il cinema italiano degli anni ’60, Venezia, Marsilio, 1975).
In una scena ambientata al Teatro Regio durante il Macbeth di Verdi, nella quale si consuma la fine del loro amore, Gina dice a Fabrizio: «Verdi dopo tutto che cos’è? Tutto quello che noi non siamo». Come a dire: per il dramma ci vogliono gli eroi, gente che va fino in fondo. A differenza dei suoi personaggi, il regista non è affatto estraneo a Verdi e al melodramma; un retaggio culturale profondamente emiliano (e viscontiano), se anche nell’esordio del piacentino Marco Bellocchio, l’anno seguente, l’agonia del protagonista si consuma sulle note della Traviata. Il finale di Prima della rivoluzione, infatti, è drammaticamente costruito per colpire al cuore lo spettatore; il montaggio alternato ci mostra infatti la pietrificazione simbolica di Fabrizio, rappresentata dal matrimonio con Clelia, accostata alle lacrime disperate di Gina che lo abbraccia fuori dalla chiesa e a Cesare che, in classe, legge Moby Dick ai propri alunni concentrati e attenti. Le parole del capitano Achab, che dichiara che non smetterà mai di inseguire la balena bianca, sono anche il pensiero di Cesare. Bertolucci non ci lascia dubbi sul fatto che quest’ultimo continuerà a lottare, così come le lacrime di Gina ci dicono che non smetterà mai di amare Fabrizio, per quanto impossibile sia questo amore.
Ma c’è ancora un altro elemento in comune con Stendhal, in un senso più profondo.
In una scena ambientata in campagna, lungo il fiume, assistiamo allo struggente monologo di un proprietario terriero soprannominato Puck, come il folletto del Sogno di una notte di mezza estate, interpretato da Cecrope Barilli. L’uomo, che sta per perdere tutte le sue proprietà da tempo ipotecate, recita una sorta di «Addio monti», enumerando e salutando gli elementi della natura che ha di fronte, destinata ad essere presto devastata dagli speculatori che ne prenderanno possesso, per concludere poi: «Qui finisce la vita e comincia la sopravvivenza». La voce off del protagonista commenta: «In quel momento mi accorsi che Puck aveva parlato anche per me. E avevo avuto la sensazione che per noi figli della borghesia non ci fosse scampo». Si tratta della stessa amara conclusione della Certosa di Parma, che in modo apparentemente incomprensibile prende il suo titolo dalla certosa che appare solo nell’ultima pagina del romanzo, e in cui il protagonista si ritira in attesa della morte. La gran parte della nostra vita, sembra suggerirci Stendhal, rischia spesso di non essere altro che una certosa, un luogo in cui ritirarsi e diventare pietra; in cui sopravvivere, non vivere. Quanti potrebbero dare un altro titolo, voltandosi a vedere cos’è stata la loro vita?
Ed è la stessa domanda che ci lascia, alla fine, questo splendido film di Bernardo Bertolucci, per sempre giovane, per sempre inquieto.
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