domenica 2 maggio 2021

Il piano del gattopardo.

Il Recovery Plan del governo Draghi è un piano che si rifiuta di pianificare, un elenco di investimenti il cui impianto ideologico è lo stesso che ci ha portato fin qui, tutto concorrenza, liberalizzazioni e aggiustamento strutturale. 


jacobinitalia.it Lorenzo Zamponi  

A pochi giorni dalla scadenza del 30 aprile, il governo Draghi ha finalmente pubblicato, presentandolo al parlamento per un’approvazione a tempo di record, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr), conosciuto comunemente come Recovery Plan. Un testo di cui si discute da quasi un anno e che ha generato aspettative gigantesche: sarebbe dovuto essere la bibbia del New Deal italiano, mettendo fine al decennio dell’austerità e trascinando l’Italia, a colpi di investimenti pubblici, verso il futuro. 

Leggere il testo da questo punto di vista non può che deludere: l’impianto ideologico resta lo stesso che ci ha portato fin qui, tutto concorrenza, liberalizzazioni e aggiustamento strutturale. Non mancano, per fortuna, le misure utili e positive: la sete di investimenti pubblici è tale, nella situazione in cui siamo, che tutto fa brodo. Però c’è un problema di fondo: questo non è un piano. Non ha una logica di piano, non indica una direzione di sviluppo all’investimento pubblico. Elenca una serie di investimenti e di riforme in termini spesso vaghi, ma non disegna il futuro alternativo che pandemia ed emergenza climatica ci spingono a immaginare. La spesa pubblica in sé, soprattutto quando pesantemente condizionata da riforme di aggiustamento strutturale, non è per forza progressiva: lo è quando è inserita in un programma di trasformazione sociale. Di questo, però, non c’è traccia nel piano Draghi. La ristrutturazione capitalista sembra avvenire su binari noti, gli stessi degli ultimi decenni. Il mondo nuovo post-pandemia, almeno da noi, sembra davvero simile a quello di prima.

L’impronta liberista

In parte ciò è dovuto al grande bluff sui numeri: la cifra di 205 miliardi di euro venduta come enorme da gran parte dei media negli ultimi mesi, a conti fatti, non è così eccezionale. Per capirci, nel 2020 l’Italia ha speso in deficit, derogando alle norme europee a causa della pandemia, 157 miliardi di euro, a cui si aggiungono i 123 messi a bilancio per il 2021, i 32 dello scostamento effettuato dal governo Conte a gennaio e gli ulteriori 20 annunciati da Draghi a marzo: in totale fanno 332 miliardi di spesa in deficit nei due anni della pandemia, eppure la grande attenzione politica e mediatica si è concentrata sui 205 finanziati da Next Generation Eu.

La distinzione, pur rilevante sul piano contabile, perché i soldi del Next Generation Eu non vengono conteggiati come nuovo debito, diventa poco interessante sul piano politico, perché quel debito continuerà in ogni caso a crescere, come annunciato in conferenza stampa dallo stesso Draghi, e a essere sostenuto dalla Banca centrale europea. La scommessa del presidente del consiglio, almeno in pubblico, è che gli investimenti siano sufficienti a far riprendere la crescita, e di conseguenza a rendere più sostenibile il debito nel medio periodo, a prescindere dall’ombrello monetario.

Una tesi tutta da verificare e che al momento lascia ampi spazi allo scetticismo. Nel frattempo, il piano c’è, e spende: 42 miliardi sulla digitalizzazione, 61 sulla transizione ecologica, 25 sulla mobilità sostenibile, 33 su istruzione e ricerca, 27 su inclusione e coesione, 17 sulla salute. I destinatari di queste risorse, in gran parte, sono le imprese. E non stupisce: in un mondo in cui il presidente degli Stati uniti Joe Biden annuncia pubblicamente la fine della trickle-down economics, in Europa e in Italia la centralità dell’offerta rispetto alla domanda nel generare crescita è tuttora un assioma. Del resto il Pnrr non nasconde una precisa impronta ideologica: vi compare 189 volte la parola «imprese», 77 «mercato», 84 «competitività», 44 «concorrenza». La parola «diseguaglianze», per capirci, compare 7 volte. L’impronta ideologica c’è, ed è liberista. La logica di modernizzazione del capitalismo italiano che il Pnrr propone sa di già sentito. Tra le «quattro importanti riforme di contesto» annunciate, insieme a pubblica amministrazione e giustizia, compaiono «semplificazione   della   legislazione» e «promozione della concorrenza». Torna l’idea dell’Italia come un paese in cui lo stato, i suoi enti e le sue regole hanno un peso eccessivo sulla vita di imprese e cittadini, in cui l’economia è bloccata dai famigerati «lacci e lacciuoli» della burocrazia e dell’impresa pubblica, in cui basterebbe liberare gli animal spirits del mercato per poter generare ricchezza e benessere diffusi.

Alla ricerca della programmazione perduta

Il combinato disposto di quest’impronta ideologica che mette al centro l’impresa, di un governo che si autorappresenta come tecnico esecutore di ricette precostituite, e di una maggioranza talmente ampia e subalterna da non esprimere alcuna linea politica, è un piano che non è un piano, che rifiuta di pianificare. 

Intendiamoci: nessuno si aspettava di rifugiarsi sotto il Patto di Varsavia in cerca di «un piano quinquennale, la stabilità» come cantavano i Cccp. Né ci si illudeva che un governo d’emergenza partorito da un parlamento nettamente spostato a destra, dopo trent’anni di egemonia neoliberista, partorisse un piano coerente con la Costituzione, che, all’articolo 41, parla di «programmi e controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Perfino la socialdemocrazia svedese ha abbandonato il piano Meidner da decenni, e in Italia il ministero della programmazione economica ha smesso di esistere anche di nome con la Riforma Bassanini del 1999. Quell’orizzonte fu spazzato via non solo dal crollo del socialismo reale e dal trionfo dell’egemonia neoliberista, ma anche dall’incapacità degli stati nazionali di esercitare un controllo sull’economia globalizzata. Eppure fino a pochi mesi fa a Palazzo Chigi, in veste di consigliera economica dell’allora presidente del consiglio Conte, c’era Mariana Mazzucato, teorica dello stato come «venture capitalist» che guida lo sviluppo. Il suo passaggio non sembra aver lasciato traccia. 

In una logica di modernizzazione capitalista pianificata, dare soldi pubblici alle imprese dovrebbe essere teso a qualche obiettivo generale, dovremmo leggere quali imprese stiamo finanziando, in che settori economici e geografici, con quali obiettivi occupazionali, di sviluppo, di sostenibilità sociale e ambientale. Questo, nel Pnrr, non c’è. Altro che «nulla sarà come prima»: l’impressione è che stiamo finanziando il sistema economico di prima. Da questo punto di vista, lamentarsi che non ci sono abbastanza fondi per il sud è una tautologia: se va finanziato il sistema produttivo che c’è, invece di cambiarlo, allora i soldi andranno alle aziende dove ci sono, cioè al nord. Il sud ha bisogno più di altri di un piano.

Anche nei limiti delle risorse date, della situazione sociale ed economica e di un quadro politico che non vede certo la sinistra come protagonista, lo spazio per qualcosa di ben diverso c’era: quantomeno il Pnrr poteva essere l’occasione per un dibattito tra forze sociali e politiche, attori economici, mondo della ricerca e società civile sugli assi di sviluppo del nostro paese. Si sarebbe potuto discutere del ripopolamento delle aree interne, di politica industriale, di salari e politica dei redditi, di riforma fiscale, di rilancio dei servizi pubblici universali, di investimenti seri sulla conoscenza… Evidentemente, non era l’occasione giusta.

Le-riforme-di-cui-il-paese-ha-bisogno

Sarebbe sbagliato sottovalutare il fatto che, dopo anni di austerità e di smantellamento dei servizi pubblici, il Pnrr mette in campo risorse importanti su temi centrali: transizione ecologica, medicina territoriale, inclusione sociale, per non parlare della scuola. Si tratta evidentemente di buone notizie. Ma è proprio questo a rendere evidente l’occasione persa di non aver inserito questi investimenti positivi in un piano di trasformazione generale. Sulle timidezze e ambiguità che caratterizzano il piano sulla transizione ecologica hanno già detto tutto associazioni ambientaliste come Legambiente e Greenpeace, tanto che un pugno di parlamentari ambientalisti della maggioranza si è astenuto sul Pnrr. Come hanno ben sintetizzato i ragazzi e le ragazze di Fridays For Future Italia, sembra un piano per «gli anni venti. Ma del Novecento»: la loro piattaforma Ritorno al futuro, sottoscritta da tutto il mondo ambientalista, sarebbe stata un punto di partenza ben più avanzato. 

Ogni investimento, inoltre, è accompagnato da «riforme», struttura che rimanda al classico meccanismo «credito in cambio di riforme» che ha caratterizzato i piani di aggiustamento strutturale del Fondo Monetario Internazionale nel Sud del mondo e la gestione dell’austerità in Europa nell’ultimo decennio. Sembra di essere tornati all’epoca delle «riforme-di-cui-il-paese-ha-bisogno», le ricette del pilota automatico, quelle da fare a ogni costo perché «ce le chiede l’Europa». L’innovazione del Next Generation Eu come meccanismo di debito comune europeo e di investimento a fondo perduto su obiettivi generali, partorita lo scorso anno, non sembra aver seppellito il meccanismo dell’aggiustamento strutturale. Come ha fatto notare nei giorni scorsi l’economista del Max Planck Institut di Colonia Benjamin Blaum, quella di tenere insieme stimolo fiscale nel breve termine e aggiustamento strutturale nel medio termine è un’idea che viene da lontano, per Draghi, la cui formazione teorica, come ha illustrato Adam Tooze sulle pagine di Foreign Policy, è ben radicata nel neoliberismo.

In questo contesto, leggere di riforme che facilitino concorrenza e liberalizzazioni, completando la privatizzazione del servizio elettrico e limitando la possibilità degli enti locali di servirsi delle partecipate, suona familiare. Sono ormai trent’anni che l’Italia scommette sulle privatizzazioni per attirare capitali e favorire la crescita: i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Altre riforme sono decisamente meno problematiche (non c’è nulla di intrinsecamente di destra nel rendere più efficienti giustizia e pubblica amministrazione, anzi), anche se il linguaggio utilizzato, come si diceva, è sempre quello dell’eliminazione di «lacci e lacciuoli» per permettere alla forza del mercato di dispiegarsi liberamente nella sua potenza creatrice. Ma come ha segnalato Giulio Marcon su Sbilanciamoci.info, il problema sono soprattutto le riforme che non ci sono, 

quelle che potrebbero dare il senso di un cambiamento sociale e più giusto del Paese: la riforma del fisco (che sta nel calderone generico delle “varie ed eventuali”), del mercato del lavoro (invertendo la rotta del precariato verso i diritti), della sanità pubblica ricostruendo le basi del Servizio sanitario nazionale, dell’introduzione dei Livelli essenziali di assistenza, già previsti da 20 anni e mai realizzati. Non c’è il coraggio di dire qualche parola in più sulla prospettiva e gli strumenti dell’intervento pubblico in economia. Nel piano manca la politica industriale (altra riforma che non c’è): non sono evidenziate le sedi, gli strumenti, i poteri di indirizzo, di stimolo e di monitoraggio delle scelte per il nostro sistema produttivo.

L’esempio dell’istruzione, su questo, è lampante. Partiamo dall’assunto che, dopo il decennio che abbiamo vissuto, ogni euro investito su scuola e università pubbliche è grasso che cola e che, in ogni caso, 4,6 miliardi per ottenere oltre 200 mila posti in più negli asili nido sono un passo avanti davvero notevole per il nostro paese. Purtroppo, anche qui, manca il piano. Il capitolo sull’istruzione del Pnrr inizia con una diagnosi accurata della situazione: abbandono scolastico, disuguaglianze territoriali, basso numeri di laureati, sottodimensionamento del sistema pubblico di ricerca. Ma le misure proposte sono tutte a spot. Sulla scuola, si promette una riforma che abolisca le classi pollaio senza dire come, dando una delega in bianco al ministero e senza investire un euro nell’assunzione di insegnanti o nell’edilizia scolastica (a parte quella sportiva): la palla è lanciata al prossimo governo, nel più perfetto stile italiano. Idem sull’università: dopo pagine di diagnosi sulla carenza di ricercatori e sulla necessità di trattenere i giovani, ci si aspetterebbe di trovare un grande piano di reclutamento che rilanci l’università italiana per i decenni a venire. E invece, ci sono sì 600 milioni stanziati «per i giovani ricercatori», ma sono per un bando una tantum per progetti di ricerca sul modello della starting grant dell’Erc: sicuramente un’idea positiva, per quanto non particolarmente innovativa (ricalca le borse Sir del governo Letta), ma non certo l’intervento strutturale di cui ci sarebbe bisogno.

Visto da sinistra, l’obiettivo di modernizzazione e maggiore integrazione nel contesto europeo e occidentale del capitalismo italiano incarnato dal governo Draghi va osservato con attenzione, sapendo che può indicare le tendenze che si svilupperanno nel prossimo decennio. Se il Pnrr è il primo passo in questo senso, il futuro non sembra in realtà molto diverso dal recente passato. Per ora, la montagna sembra aver partorito il topolino, o, meglio, il gattopardo.

Lorenzo Zamponi, ricercatore in sociologia, si occupa di movimenti sociali e partecipazione politica. È coautore di Resistere alla crisi (Il Mulino).

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