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Dopo mesi di agonia e di manovre che hanno portato tecnici ed esperti alla guida del paese, il Governo Draghi ha ultimato il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Si tratta del programma di investimenti che l’Italia dovrà presentare alla Commissione europea nell’ambito del Next Generation EU, lo strumento messo in campo dall’Europa per rispondere alla crisi da Covid-19. Come abbiamo avuto modo di verificare, il Piano si compone di pochi soldi e tante richieste di riforme: una nuova stagione di attacco al mercato del lavoro, alle pensioni e ai servizi pubblici è alle porte.
Tuttavia, vi è una parte del PNRR, quella in cui ci si interroga circa gli impatti macroeconomici del piano di investimenti che saranno finanziati dal Next Generation EU, che ci permette di mettere a fuoco il legame tra il paradigma teorico entro cui si muove il Governo e la dimensione politica di queste misure.
Proponendo delle proiezioni basate su simulazioni circa l’impatto del Piano sul prodotto interno lordo (PIL) italiano per il periodo 2021-2016, nel PNRR viene mostrata una stima dei moltiplicatori fiscali del piano di investimento, affermando testualmente: “Al termine dell’orizzonte di simulazione il moltiplicatore cumulato risulta pari a 0,7 nello scenario basso, a 0,9 in quello medio a e a 1,2 in quello alto.”
Cosa ci mostra il moltiplicatore (fiscale)? Il moltiplicatore è uno strumento utilizzato dagli economisti per valutare gli impatti di una manovra fiscale sull’economia. Esso ci mostra quanto aumenta o diminuisce il PIL a seguito di un aumento di 1 euro di spesa pubblica. Dato che il moltiplicatore non è una grandezza osservabile, gli economisti hanno stimato il suo valore attraverso l’utilizzo di metodi statistici. Le stime del moltiplicatore hanno acceso un’ampia discussione negli ambienti accademici circa l’efficacia o meno della spesa pubblica nello stimolare la crescita economica.
Cosa ci dicono gli studi sui moltiplicatori? Agli inizi degli anni ’90, quando in casa Bocconi, alla corte di Giavazzi e company, fu coniata la “teoria dell’austerità espansiva”, molti economisti liberisti credevano che il moltiplicatore fiscale fosse addirittura negativo. Ciò implicava che aumenti della spesa pubblica portassero a diminuzioni del PIL, soprattutto attraverso il cosiddetto “effetto di spiazzamento”. In sostanza, si riteneva che un aumento della spesa pubblica aumentasse i tassi dell’interesse sul debito pubblico, diminuendo (spiazzando) così i consumi ed investimenti privati. Si credeva, dunque, di essere riusciti a trovare una giustificazione teorica per la riduzione della spesa pubblica e, dunque, per limitare l’intervento dello Stato nell’economia.
Tale tesi, particolarmente estrema anche per la teoria economica più ortodossa, è andata via via affievolendosi tanto che, a partire dagli anni successivi alla crisi economica del 2008, si è assistito a un mea culpa generalizzato sia da parte delle istituzioni internazionali come il Fondo monetario internazionale (FMI), che di molti economisti liberisti – fatta eccezione, come al solito, per i bocconiani, che ancora nel 2019 hanno rilanciato il tema dell’austerità pubblicando un libro dal titolo “Austerità. Quando funziona e quando no”. A partire dal 2013, Olivier Blanchard – ex capo economista del FMI – e molti altri hanno mostrato come i moltiplicatori fiscali fossero positivi e tendenzialmente maggiori di 1. In parole povere, ciò significa che gli aumenti di spesa pubblica comportano incrementi più che proporzionali del PIL.
Riferendoci alla letteratura relativa alle stime dei moltiplicatori in Italia, l’articolo che impressiona di più, non tanto per i risultati quanto per la firma, è quello del professor Roberto Perotti (altro bocconiano doc), che in un saggio del 2007 stima un moltiplicatore fiscale per l’Italia maggiore 2, arrivando ad effetti massimi vicino a 2.5. Nonostante questi risultati, e in barba alle sue stesse ricerche scientifiche, l’autore (e i suoi sodali) non si è mai speso per sostenere la necessità di implementare politiche fiscali espansive al fine di risolvere la crisi economica. È un fatto, questo, che mostra in maniera lampante il portato politico e ideologico delle misure economiche che vengono adottate dai governi e acclamate dall’accademia ortodossa.
Ancora più interessanti sono gli studi sui moltiplicatori degli investimenti e consumi pubblici. Per l’analisi del PNRR, questo è forse il punto importante dato che le proiezioni fatte nel documento programmatico da sottoporre alla Commissione europea riguardano appunto gli effetti degli investimenti sul PIL. La parte più consistente della letteratura sul tema ritiene che gli investimenti pubblici abbiano un impatto sul PIL maggiore rispetto ai consumi pubblici, e diversi contributi recenti mostrano che il moltiplicatore degli investimenti pubblici assume valori maggiori di 4, ossia valori 4 volte superiori rispetto a quanto riportato dal PNRR che assume un moltiplicatore degli investimenti compreso tra 0.7 e 1.2. Di conseguenza, nonostante la letteratura accademica ammetta che i moltiplicatori fiscali siano generalmente maggiori di 1 e che per gli investimenti pubblici assumano moltiplicatori vicino a 4, il Governo italiano si è mostrato più realista del re.
È lecito e doveroso dunque chiedersi cosa implicherebbe ammettere che i moltiplicatori fiscali siano elevati. Proviamo a elencare qualche considerazione in merito.
- La presenza di moltiplicatori fiscali elevati e maggiori di uno fornirebbe la prova che le politiche di austerità portate avanti dai vari Governi dal 2008 a oggi, tanto appoggiate e volute dalle istituzioni europee e dagli economisti che ora sono al Governo o che ne influenzano l’operato (due tra tutti, Mario Draghi e Francesco Giavazzi), fossero sbagliate. Come se ciò non bastasse, riconoscere l’efficacia delle politiche fiscali espansive sulla crescita economica rappresenterebbe un duro colpo alla legittimazione dell’austerità legata alle condizionalità previste nel Recovery Fund. A farne le spese, dunque, sarebbe l’intero impianto istituzionale dell’Unione Europea, che ha imposto e impone duri tagli alla spesa pubblica per rientrare nei parametri dei Trattati.
- Inoltre, bisognerebbe ammettere che le politiche fiscali espansive, specialmente quelle trainate dagli investimenti pubblici, porterebbero ad aumenti di PIL e, di conseguenza, a ricadute positive sull’occupazione. Significherebbe ammettere, in un Paese che attualmente sperimenta un tasso di disoccupazione vicino al 10% e un tasso di disoccupazione giovanile di circa il 30%, che la strada per aumentare l’occupazione c’è, esiste, e non è quella della precarietà e della compressone salariale che è stata seguita finora.
- Ammettere che i moltiplicatori fiscali siano elevati equivale, inoltre, ad ammettere che gli aumenti del PIL dovuti ai processi moltiplicativi garantirebbero che le manovre fiscali si ripaghino da sole. Infatti, per una data aliquota fiscale, un aumento del PIL potrebbe ad aumenti del gettito fiscale pari all’iniziale investimento da parte dello Stato. Facciamo un semplice esempio numerico. Supponiamo che l’aliquota fiscale media dell’Italia sia pari al 38%, che il moltiplicatore sia pari a 3 e che oggi il Governo decida di spendere 1 euro in investimenti pubblici. Il processo moltiplicativo, che di solito non si verifica in un solo anno ma che ha bisogno di più anni per espletarsi (si veda, ad esempio, pagina 300 del PNRR, dove nella tavola 4.3 si analizza l’impatto degli investimenti pubblici sul PIL su un arco temporale che va dal 2021 al 2026), porterebbe ad un livello di PIL di 3 euro più elevato. Applicando a questi 3 euro un’aliquota del 38%, si generano entrate fiscali pari a 1.14 euro, addirittura maggiori rispetti alla spesa inziale fatta dal governo. Ciò implica, che 1 euro di spesa per investimenti messa in campo oggi farebbe tornare nelle casse dello Stato un ammontare di tasse pari a 1.14 euro da qui al 2026.
- Una conseguenza importante riguarderebbe un altro spauracchio delle politiche economiche europee: il debito pubblico e in particolare il rapporto debito-PIL. Infatti, se i moltiplicatori fossero elevati, un aumento inziale del debito di 1 euro per finanziare la spesa iniziale per investimenti porterebbe ad un aumento del PIL più che proporzionale, diminuendo così il rapporto debito-PIL. Questo processo, che potrebbe in prima istanza apparire paradossale, è stato riscontrato anche in diversi lavori condotti da economisti mainstream, i quali hanno mostrato che le politiche di austerità o di “consolidamento fiscale”, solitamente basate sui tagli della spesa pubblica, hanno prodotto aumenti del rapporto debito-PIL piuttosto che diminuzioni. In Europa questa evidenza è sotto gli occhi di tutti. In tutti i paesi periferici, quelli dove i morsi della crisi sono stati più vigorosi, il rapporto debito-PIL è aumentato a seguito delle politiche lacrime e sangu: tra il 2010 e il 2014, è salito dal 147% al 180% in Grecia, dal 60% al 100% in Spagna e dal 119% al 135% in Italia. Inoltre, l’evidenza empirica mostra che aumenti della spesa pubblica hanno un maggiore effetto di riduzione del rapporto debito-PIL quando quest’ultimo parte da valori elevati, come nel caso dell’Italia. Quand’anche ridurre il rapporto debito-PIL rappresentasse un obiettivo ragguardevole, e abbiamo più volte mostrato come non sia così, le politiche di austerità non sono efficaci nel raggiungerlo.
Che implicazioni ha dunque per l’attualità politica il discorso che abbiamo sviscerato fin qui? Da un lato, conti alla mano, il PNRR rappresenta un pannicello caldo, un diversivo, rispetto alla quantità di spesa pubblica necessaria per risolvere la crisi. Dall’altro, per contrappasso, stimare gli effetti dell’intervento pubblico utilizzando valori più elevati dei moltiplicatori fiscali avrebbe palesato gli effetti nefasti dei tagli e della macelleria sociale a cui assistiamo da anni e che tornerà a fare danni nel futuro immediato, non appena il Patto di Stabilità tornerà a mordere in ossequio ai dettami europei: quell’austerità, pesantissima, che non ci ha mai abbandonato, che ci accompagnerà domani e contro la quale è necessario indirizzare tutte le nostre forze.
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