Non saranno soldi "liberi". La Commissione e il Consiglio Ue valuteranno il piano di riforme italiano sia prima che durante l'erogazione del denaro. Ecco come funziona.
I soldi che l’Italia avrà dal Recovery Fund sono in tutto 209 miliardi, tra prestiti e risorse a fondo perduto, ma cosa dovrà fare il Governo per farli arrivare nelle casse dello Stato? Quali riforme bisogna mettere sul piatto? E se un Paese ritiene che stiamo facendo i furbi, fino a che punto può bloccarci? Sono le risposte a queste domande a tratteggiare verità e punti oscuri di una vicenda che ha già spaccato la politica e il Paese tra chi esulta e chi, come Matteo Salvini, la ritiene invece “una fregatura”.
Un bazooka ma “limitato nel tempo”
La svolta è nel meccanismo che sta alla base del Recovery Fund.
Per la prima volta nella storia, infatti, i 27 Paesi membri dell’Unione europea danno mandato alla Commissione di indebitarsi a loro nome per una cifra record di 750 miliardi.
In pratica questi soldi saranno raccolti sui mercati e poi distribuiti ai singoli Paesi sotto forma di prestiti (360 miliardi) e sussidi (390 miliardi).
Ma a pagina 1 delle conclusioni del Consiglio europeo che ha raggiunto l’intesa c’è scritto che la strategia anti Covid è “limitata nel tempo” perché il quadro base è e resta il quadro finanziario pluriennale, cioè il bilancio 2021-2027 che pur subisce modifiche proprio per l’innesto del Recovery Fund.
I soldi. Quando arrivano?
La gamba più pesante del Recovery Fund è il Fondo per la ripresa e la resilienza con 672,5 miliardi.
I soldi saranno distribuiti ai vari Paesi tra il 2021 e il 2023. Con quale cadenza? Il 70% dei soldi va impegnato dall’Europa nel 2021-2022, mentre il restante 30% deve essere impegnato entro la fine del 2023.
Quindi l’Italia avrà circa 146 miliardi nei prossimi due anni, mentre i restanti 63 miliardi arriveranno nel 2023.
Una novità dell’ultim’ora è il prefinanziamento del 10%: questa fetta di soldi arriverà prima di tutti gli altri.
Sempre nel 2021, ma sarà un anticipo rispetto al resto delle risorse che dovranno passare dal meccanismo dei controlli.
La condizione, però, è che questi soldi siano utilizzati per misure che siano coerenti con il programma generale.
Per l’Italia l’anticipo si traduce in 20,9 miliardi e questi soldi possono coprire le spese sostenute a partire da febbraio di quest’anno. In pratica questi soldi potranno essere utilizzati per coprire una parte delle spese imposte dal Covid.
Come funzionano i rimborsi, la tara tra i soldi ricevuti e quelli da dare
La parte dei soldi presi a prestito (per l’Italia sono 127,4 miliardi su 202 miliardi) andrà rimborsata a partire dal 2027.
Sarà un rimborso graduale perché ci sarà tempo fino al 31 dicembre 2058. Anche la parte dei soldi a fondo perduto (la quota italiana è di 81,4 miliardi) va inquadrata in un meccanismo di dare-avere.
Perché se è vero che all’Italia andranno 81,4 miliardi è pur vero che l’Italia, come tutti gli altri Paesi, dovrà poi partecipare al rimborso comunitario relativo al Fondo.
I 750 miliardi, infatti, sono soldi che il mercato presta e l’Europa deve quindi restituirli.
E per restituirli ci sono due meccanismi: le tasse, come quella sulla plastica, e i contributi che ogni Paese dà al bilancio comunitario. La stima dei soldi che l’Italia dovrà dare in termini di contributo è di 40,6 miliardi.
Per questo tra dare e avere quello che resterà in Italia saranno circa 40 miliardi di soldi a fondo perduto.
Il criterio della ripartizione
Il criterio guida per i soldi che saranno erogati nel 2021 e nel 2022 è quello della disoccupazione relativa al periodo 2015-2019: più è alta, più soldi arrivano.
Nel 2023 si cambia: il criterio sarà la perdita del Pil nel 2020 e quella cumulativa, sempre del Pil, nel 2020-2021.
Inquadrata nell’ottica italiana, il secondo tempo sarà migliore del primo.
Quindi il vantaggio maggiore sarà nel 2023 perché il Pil, proprio secondo le stime della Commissione europea, avrà un trend molto negativo nei prossimi due anni.
Il cambio del criterio è arrivato sul filo di lana e proprio per questo motivo l’importo dei prestiti in favore dell’Italia è risultato alla fine maggiore rispetto a quello previsto inizialmente.
I requisiti del piano italiano per avere i soldi. Quali riforme e quali impegni?
Ogni Paese, e quindi anche l’Italia, deve preparare un piano nazionale, quello comunemente definito Recovery Plan.
Un piano triennale (2021-2023) che andrà presentato in autunno e che tuttavia, se giudicato idoneo, non garantirà l’erogazione totale dei soldi.
Uno dei punti delle conclusioni, infatti, specifica che i piani “saranno riesaminati e adattati, ove necessario, nel 2022 per tenere conto della ripartizione definitiva dei fondi per il 2023”.
Questo significa che la fetta del 30% dei soldi, che sarà distribuita nel 2023, potrebbe essere vincolata a una revisione del piano.
Ma l’Italia cosa dovrà fare? Come tutti gli altri Paesi dovrà presentare un piano coerente con le raccomandazioni specifiche che la Commissione dà a ogni singolo Paese.
Al punto A19 delle conclusioni, infatti, si legge che il piano per la ripresa sarà valutato dalla Commissione entro due mesi dalla presentazione.
Sarà quindi novembre-dicembre.
Ma soprattutto c’è scritto che nella valutazione il punteggio più alto “deve essere ottenuto per quanto riguarda i criteri della coerenza con le raccomandazioni specifiche per Paese”.
Il riferimento alle raccomandazioni è qui.
Considerando che quelle del 2020 non valgono per via del Covid, bisogna andare a riprendere quelle del 2019. Eccole le richieste: contrasto all’evasione, alla corruzione e al lavoro sommerso, ma anche riduzione dei tempi della giustizia e politiche attive per quanto riguarda il mondo del lavoro. Soprattutto c’è una riduzione della spesa pubblica che deve portare a una correzione strutturale (quindi a una manovra) pari allo 0,6% del Pil. E poi le entrate straordinarie devono andare ad abbattere il debito, ma è necessario anche tagliare le agevolazioni fiscali e “razionalizzare” le aliquote Iva.
Tradotto: l’Italia deve fare una riforma della giustizia, ma anche una del fisco e una del lavoro.
Tra gli elementi che impattano sulla valutazione positiva ce ne sono di altri altrettanto impegnativi: il potenziale di crescita, la creazione di posti di lavoro e “la resilienza sociale ed economica dello Stato membro.
E anche “l’effettivo contributo alla transizione verde e digitale” rappresenta una condizione preliminare per ottenere il disco verde.
Come funzionerà il giudizio dell’Europa sul piano italiano
La valutazione del piano dovrà essere approvata dal Consiglio, a maggioranza qualificata, su proposta della Commissione.
Il via libera è un atto di esecuzione che il Consiglio adotta entro un mese dalla proposta. Ma bisogna soddisfare i target intermedi e finali.
Perciò la Commissione chiederà al Comitato economico e finanziario se questi target vengono conseguiti.
Il freno
Uno o più Stati membri, però, potrebbe dire: no, così non va.
“In via eccezionale” è scritto sempre nelle conclusioni, ma l’eccezione è comunque una possibilità e come tale può essere quindi esercitata.
Un Paese può dire che ci sono “gravi scostamenti dal soddisfacente conseguimento dei pertinenti target intermedi e finali”.
Può allora chiedere che il presidente del Consiglio europeo rinvii la questione al successivo Consiglio europeo.
In caso di rinvio c’è una strada tenue nel senso che la Commissione non prenderà nessuna decisione sul conseguimento dei target fino a quando “il prossimo Consiglio europeo non avrà discusso la questione in maniera esaustiva”. Ma non potrà prendere tempo all’infinito. Anzi. Potranno passare al massimo tre mesi dal momento in cui la Commissione ha chiesto il parere del comitato economico e finanziario.
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