Stampa e rete da un paio di giorni pubblicano a raffica le severe reprimende contro i negazionisti del Covid, i no mask e i revisionisti del vaccino in Senato, nello studio di Sabino Cassese e nelle spiagge guardate opportunamente a vista da militari con tanto di mitra intimidatorio, sviluppo questo largamente prevedibile della criminalizzazione dei trasgressori rinnovata in occasione del prolungamento dello stato di emergenza.
Come mai? vi direte, non avevamo assistito a analoga insurrezione moral-sanitaria quando Gori, promosso poi sindaco martire e modello esemplare di governo delle città vittime della pestilenza, dichiarò con burbanzosa determinazione: Bergamo non chiude!, o quando Sala dal canto suo ribadì: Milano non si ferma!.
Tutti abbiamo la risposta ma pochi hanno il coraggio di darla: prima, durante e dopo, nella cabina di comando a dettare misure e regole c’era il padronato, audace e ardimentoso con le vite dei dipendenti mandati ad esporsi, a norma di legge, anzi di decretazione di urgenza, al contagio per garantire la continuità dei profitti “normali” incrementati da accaparramenti e borsa nera, in vista dei futuri arricchimenti del dopoguerra.
Basta ricordare quella magistrale faccia di tolla di Bonometti, presidente di Confindustria lombarda, ai primi di marzo, dopo le agitazioni subito deplorate e poi represse dei lavoratori che chiedevano protezione e tutela nei posti di lavoro e cui si rispose con un patto unilaterale che lasciava alle imprese libertà discrezionale di adottare provvedimenti e di concedere dispostivi e attrezzature di sicurezza in forma volontaria e arbitraria, quando proclamò: la fabbrica oggi è il posto più sicuro!
E ancora: le fabbriche non possono chiudere!, epico editto accolto con giubilo dai resilienti sul divano davanti alla Casa di Carta, di modo che in Lombardia, il luogo della catastrofe, il 40% di operai e operaie ha viaggiato sulle metropolitane e sui bus pieni e non ha interrotto le produzioni, anche quando non si trattava di comparti essenziali, grazie alle acrobazie delle nuove frontiere dello spirito di iniziativa che legittima il cambio dei codici Ateco per attribuire carattere di indispensabilità a qualsiasi attività e alla compiacente decisione di Conte che rivendica di aver riaperto le aziende “in nome dell’interesse generale sia pure contro il consiglio degli scienziati”.
Grazie al Covid, che non sarà un complotto, ma che ha messo in piedi una cospirazione contro il lavoro, da quel momento e per legge non è diventato imprescindibile, necessario, “essenziale” quello che si realizza e produce, ma che le macchine girino, la catena non si fermi, il profitto arrivi a destinazione, nelle tasche degli azionariati, degli imprenditori, di quelli che guidano il motore del Paese.
E figuriamoci se non si approvvigionavano anche di un sostegno ideologico-scientifico, materializzato nel corpus roboante del cosiddetto Piano di Rilancio messo a punto dal gruppo di tecnici indipendenti presieduti da Colao, già Ad di Vodafone e consegnato nelle mani di Conte, che ha fatto finta di impiegarlo per reggere una zampa della sua poltrona traballante, ma a ben vedere ne ha tratto spunto e ispirazione della sua programmazione in 137 punti, approvata dagli Stati Generali e sottoposta come una letterina per Babbo Natale all’Ue, densa di cantieri, digitalizzazione, smartworking e didattica a distanza forieri di licenziamenti e contratti atipici, insomma la fuffa abituale degli impotenti.
Ma dietro alla quale si celano le strenne più gradite ai fan della cultura di impresa e della responsabilità sociale, tanto da sembrare scritta sotto dettatura di Confindustria : scudi penali, immunità e impunità, rinnovo e rinvigorimenti della precarietà con i contratti a termine sotto la bandiera della improrogabile deregolamentazione del mercato del lavoro per incentivare l’occupazione, defiscalizzazione di tutta una serie di misure e interventi, il tutto accompagnato dall’opportuno incremento dei fondi pubblici a sostegno delle aziende che vogliono investire in mecenatismo peloso nei settori della scuola, della ricerca, della formazione e della sanità, offrendo generosamente le loro competenze nello stabilite priorità e finalità.
È ovvio che in questo disegno suggerito caldamente dal padronato e condiviso entusiasticamente dal miglior governo che ci potesse capitare e dagli enti regionali e locali, lo Stato ritorna nelle retrovie, in funzione di erogatore di aiuti a perdere, assistenzialismo a chi ha e punizioni a chi non ha saputo avere e ottenere, per indolenza, codardia, indole parassitaria, subalterno al mercato, esautorato di competenze e poteri, retrocesso a cattivo pagatore ancora prima di ottenere i crediti dal racket europeo.
Nel caso ci fossero dubbi sulla weltanschauung della nostra élite “industriale” ci aveva pensato subito il presidente Bonomi a fare chiarezza, fresco di nomina alla presidenza di Confindustria in una intervista del 30 maggio calda di passione “civile” e vibrante di sdegno, un j’accuse contro il governo e tutta la classe politica, accusati di prodigarsi per dare soldi agli immeritevoli miserabili anzichè aiutare le imprese, soprattutto quelle più grandi, che quelle piccole sono comunque destinate a affondare del grande mare della globalizzazione.
E ricordando che se da 25 anni cala la produttività la colpa è dei lavoratori, viziati, accontentati nelle loro richieste irragionevoli, pigri e dissipati, secondo una propaganda smentita dai dati delle organizzazioni internazionali: in Italia si lavora mediamente di più che in Francia, Germania, Austria e Svezia ma di guadagna molto di meno. E siamo in testa nelle classifiche del doppio lavoro e degli straordinari nei giorni festivi insieme, che sorpresa, alla Grecia, a conferma che da noi si fatica molto perché si percepisce poco.
La ricetta quindi è la stessa di sempre, richiamata da Boeri, da Ichino, dal recuperato in corsa Brunetta e ci manca solo il Sacconi di “siamo sulla stessa barca”: più lavoro, meno salari, più profitto, meno diritti.
E proprio ieri sempre Bonomi alza la voce contro il blocco dei licenziamenti che “più tardi verrà eliminato e peggiore sarà l’impatto” e sghignazza contro gli sgravi per le neo assunzioni: “ Lei vede qualcuno oggi interessato ad assumere se col divieto di licenziamenti non può ristrutturare? Al danno dell’impianto attuale degli ammortizzatori si aggiunge la beffa”.
Proprio vero che l’appetito vien mangiando e alla smania bulimica del nostro ceto produttivo non basta il Jobs Act, la Legge Fornero, gli aiuti dalla qualità anche simbolica promettente di altre diffuse provvidenze alla Fca, la pietra sepolcrale a seppellire i crimini dei Riva, di De Benedetti, gli applausi al management della Thyssen, non è sufficiente l’offerta delle terga ai Benetton, gli esiti di trattative e negoziazioni condotte in suo nome da Calenda o dalla Bellanova, non è sufficiente la licenza di cementificare elargita alle cordate delle opere inutili e corruttive con l’avvio o la ripresa di 130 cantieri, neppure la deregulation e quindi l’autorizzazione all’abuso e alla speculazione del Decreto Semplificazione, perché vogliono la resa incondizionata dello Stato, delle istituzioni, del Parlamento, dopo aver avuto quella dei governi che si sono succeduti e l’opzione su quelli futuri, dei sindacati che da anni ormai hanno sostituito la pratica negoziale con l’accondiscendenza, la rappresentanza con i servizi di consulenza dei patronati e dei Caf e con la adesione “professionale” al Welfare aziendale e l’offerta di fondi assicurativi e pensionistici, mutue private, bolle pronte a esplodere, sicchè i lavoratori contribuiscano due volte al profitto dei padroni.
E d’altra parte in un Paese dove – per tradizione storica – anche un cavallo diventa senatore, e perfino un asino, a vedere Renzi e tanti altri, le figure di imprenditore che hanno l’onore delle cronache, meritando solo quella nera, sono i dinamici bricconi dei locali notturni grazie a nuove frontiere della colonizzazione interna in Sardegna e esterna in Kenya, il Briatore che ha fatto ballare tutta la sinistra fighetta e quello che l’ha appagata a suon di salsicce e provole, le stesse della socia Coop, maggiorate però in qualità di prodotti scelto dal patron Farinetti esibiti sugli scaffali di Eataly- negli Usa insieme alle guglia del Duomo concesse dal Ministro dei Beni Culturali – a uso di citrulli contenti di farsi prendere per i fondelli.
Gente che fallisce ricorrentemente ma viene sempre salvata con qualche salvagente a nostre spese, come c’è da aspettarsi proprio per l’augusto norcino il cui fiore all’occhiello, Fico, è appassito come merita con perdite nette di esercizio per il 2019 pari a 3,14 milioni. Così apprendiamo che si è lamentato il management della Città del cattivo gusto ormai avariato, per il basso indice di fedeltà dei visitatori, il cui numero è calato a picco.
Certo, hanno la competenza per parlare, che di tradimenti loro se ne intendono, come se ne intende l’esangue dinastia Fiat, le garrule imprenditrici, Marcegaglia o Todini, il cui mito di zarine implacabili e feroci in quota rosa è minacciato dell’influencer agli Uffizi o dalla Clio Zammatteo che, si legge sul suo prestigioso curriculum, ha insegnato, tramite YouTube, a milioni di donne “a truccarsi, a volersi bene e a prendersi cura di se stesse”. Sanno bene di cosa si tratta i delocalizzatori, che smontano azienda e futuro dei dipendenti in una notte cercando lidi più favorevoli ai brand egli abusi, delle evasioni, del riciclaggio, dell’inquinamento e della corruzione, quelli che stanno nei loro uffici prestigiosi a aspettare gli esiti di borsa da quando i produttori sono diventati azionariati che non investono in innovazione, tecnologia e competitività bensì nella roulette del casinò finanziario. O quelli che se devono spendere preferiscono riversare risorse per comprarsi i giornali, fonderla in un unico quotidiano in attesa del partito unico, del sindacato unico, che il pensiero unico c’è già e ha vinto.
Povera Costituzione: ha resistito a tanti assalti in forma golpista o referendaria o, spesso, tutte e due, a Benigni che l’ha trasformata in prodotto agile come i Baci il 14 febbraio, per “scartarla” e mangiarsela, a manomissioni e interventi di plastica per la riduzione dei diritti e delle garanzie. Ma adesso ormai è proprio condannata alla cancellazione, a cominciare dall’articolo 1: l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
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