Il parco del cibo ideato da Farinetti era in crisi già prima del Covid. Una ricerca di un'ex lavoratrice ne spiega i motivi, svelando le contraddizioni tra marketing e condizioni di lavoro di chi viene definito «ambasciatore del gusto» ed è invece semplice precario.
jacobinitalia.it Arianna Cuomo
Il 30 maggio all’interno del parco agroalimentare firmato Eataly World si è svolta la conferenza stampa intitolata «Stai sicuro. In 100.000 metri quadri Fico ti aspetta con grandi spazi per grandi emozioni del gusto», in vista della riapertura del sito prevista del 2 giugno dopo la chiusura per l’emergenza sanitaria nazionale. Sicurezza e salute sono stati gli argomenti maggiormente trattati: oltre al controllo della temperatura corporea previsto per ogni cliente nel momento di accesso alla struttura, l’Amministratrice Delegata Tiziana Primori ha descritto i vasti spazi che caratterizzano il parco, tra cui i vari dehor dove poter sostare e pasteggiare prudentemente. Per rendere le possibilità di contagio ridotte al minimo nel parco sono stati creati insieme all’Asl appositi percorsi.
La pandemia non ha semplicemente modificato il servizio in termini di tutela del cliente, ma ha generato una forte crisi che si è riversata in tutto il settore turistico ed enogastronomico. I giornalisti si sono soffermati sugli effetti subiti da Fico e dalle aziende annesse e sulle nuove mobilità di approccio al pubblico ideate. Tiziana Primori è fiduciosa: Fico sembrerebbe essere pronto per una ripartenza, grazie al grande lavoro svolto a fianco degli imprenditori. Per questi mesi è previsto un ritorno al pubblico che «per natura delle cose» sarà però graduale. È stato ricordato infatti come la clientela di Fico fosse formata da un 70% di turisti, per questo motivo, in assenza di pubblico proveniente dall’estero e quindi di un calo di incassi, molti store all’interno del parco hanno dovuto chiudere temporaneamente o definitivamente. Conseguentemente l’amministrazione ha dovuto impegnarsi nel mettere in pratica una serie di nuove strategie per conquistare il pubblico locale: in primis riprendendo le già collaudate visite del parco e dei vari stand, seppur con un orario decisamente ridotto in quanto Fico è ora aperto solamente dal giovedì alla domenica e non più tutti i giorni. In aggiunta è stato avviato un campo estivo per bambini e ragazzi mentre l’esterno è stato adibito ad arena con programma di spettacoli e cinema. Il giorno della riapertura, lo scorso 2 giugno, è stato descritto come un vero e proprio successo da rubriche online e quotidiani.
Sono stata a Fico in questi giorni per visitare il parco nella sua versione post lockdown. La struttura mi è familiare, avendo svolto un periodo di lavoro all’interno del parco, come barista presso uno chiosco ormai chiuso, già prima della diffusione del Coronavirus. Entrati nel parco ci si può rendere conto di quanto sia effettivamente controllato il rischio di contrarre il virus: oltre ai dispositivi installati per misurare la temperatura corporea a ciascun cliente (inevitabili le code all’ingresso ogni qualvolta sia presente anche solo una dozzina di persone), la possibilità che si creino assembramenti è bassa: il parco sembra quasi in stato di abbandono, se non per qualche raro visitatore, per lo più famiglie disperse nei grandi spazi che lasciano ampio margine di distanziamento sociale.
La pagina Facebook di Fico Eataly World ha pubblicato un video per pubblicizzare la nuova apertura del sito «Stai sicuro e goditi l’emozione», ma il dubbio nasce sulla seconda affermazione: quale tipo di emozione e sentimento si dovrebbe provare una volta entrati nella struttura? L’intero complesso non sembra solo svuotato dai suoi clienti, ma anche dello stesso personale: gli store, prima aperti a orario continuato, sono sbarrati, molti sono stati rimossi lasciando al loro posto uno spazio vacante. Che a Fico l’afflusso di pubblico non fosse molto abbondante, tranne in qualche weekend o giorno festivo fortunato, non è una novità, ma la situazione dà l’impressione di essere estremamente peggiorata. Durante la passeggiata sono riuscita a parlare con alcuni dei pochi dipendenti presenti nel parco, ricevendo conferma delle mie ipotesi: gli incassi, anche nel weekend, hanno raggiunto il loro minimo storico, la situazione auspicata dall’amministrazione e raccontata dai giornalisti è in realtà molto diversa da quella che si incontra facendo un giro nel parco.
Nei giorni seguenti alla visita a Fico ho avuto l’occasione di
incontrare dipendenti ed ex dipendenti per farmi raccontare in che modo è
stato gestito in termini contrattuali questo periodo di pandemia.
Opinione comune è che i lavoratori si sono ritrovati in balia degli
eventi: le decisioni prese in merito sono state deliberate giornalmente,
le comunicazioni avvenivano pochi giorni prima o addirittura in più
occasioni il giorno stesso.
A molti dipendenti, dopo un periodo di cassa integrazione, il contratto non è stato rinnovato. Con la riapertura molti sono stati assunti con orario estremamente ridotto, coerentemente alla riduzione dei giorni di apertura da sette a quattro a settimana. Molti store hanno ricominciato le attività per poi chiudere qualche giorno dopo la riapertura, ricacciando i lavoratori in un nuovo periodo di cassa integrazione. Questi avvenimenti e la situazione di instabilità possono essere considerati come una normale conseguenza del periodo di totale incertezza in cui si trova il settore turistico ed enogastronomico post pandemia, infatti lavoratori lasciati a casa, scarsa clientela, locali costretti a chiudere, non sono una prerogativa della Disneyland del cibo.
Bisogna però dire che a Fico quest’aria di crisi e insicurezza si
respirava già da prima che il Coronavirus entrasse nelle nostre vite:
precari erano i singoli lavoratori del parco, così come l’esistenza
stessa delle strutture e degli store che lo compongono. Di sicuro la
pandemia ha aggravato le problematiche presenti all’interno del parco,
ma il periodo di crisi era stato preannunciato dal momento dell’apertura
della struttura stessa. Se in generale per il settore turistico ed
enogastronomico si può parlare di ripartenza, quella di Fico dovrebbe
essere una partenza vera e propria, in quanto la struttura non è mai
riuscita davvero a prendere il via.
Si può dubitare quindi che le sorti di Fico potranno essere risollevate per mano di strategie di marketing e pubblicità.
Fin dalla sua creazione l’amministrazione di Fico ha speso molte energie dedicandosi all’aspetto emozionale e didattico che deve essere comunicato al cliente, in linea con il nuovo stile di turismo che viene chiesto dal mercato. Gli aspetti legati alla sfera del biologico e dell’ecologia, della qualità dei prodotti, tutti di origine italiana, ma anche fattori come la formazione di bambini e ragazzi, sono da sempre stati venduti alla clientela come la particolarità del parco. Eppure questo lato non è stato del tutto percepito dal pubblico che ha invece trovato diverse contraddizioni tra la pubblicità e l’effettiva offerta. Sarebbe dunque difficile pensare a una nuova partenza basandosi soltanto su nuove strategie di marketing e pubblicità che non fanno altro che dichiarare aspetti in realtà deboli e mai veramente funzionali.
Durante il mio periodo di lavoro presso il chiosco a Fico, come studentessa di Antropologia Culturale iniziai a sviluppare una ricerca etnografica e una serie di interviste condotte sul posto di lavoro ai miei colleghi, indagine che è poi diventata la mia tesi di Laurea. L’idea era cercare di mettere in luce alcuni fattori che secondo l’opinione dei lavoratori sono responsabili della poca clientela e in particolare le cause della chiusura anticipata del bar dove svolgevo servizio. Il fatto di aver lavorato io stessa all’interno del parco, mi ha permesso di sviluppare una visione il più interna possibile soprattutto attraverso il dialogo con i miei colleghi, ai quali veniva data voce. Inoltre il mio store, punto di incontro tra i lavoratori nei momenti di pausa e a fine servizio, ha saputo offrirmi una postazione privilegiata di ascolto, visto che presso il chiosco si era creato un punto di incontro e sfogo dei dipendenti, in mancanza di altri spazi comuni per i lavoratori all’interno del complesso.
Tra i dipendenti era comune l’opinione che il motivo principale dell’insuccesso e della poca affluenza fosse rintracciabile proprio nel sistema pubblicitario su cui viene fondato il parco: il lato esperienziale, esaltato nella pubblicità e che il pubblico si aspettava di trovare era in realtà difficile da comunicare, per questo motivo spesso la visita di Fico non sembrava diversa da una giornata passata in un qualsiasi altro centro commerciale, lasciando la clientela delusa. Il marketing e la pubblicità di Fico hanno da sempre fatto leva su un «turismo dell’esperienza», ma le modalità attraverso cui trasformare la vendita del prodotto o il servizio gastronomico in qualcosa di completo e multisensoriale non sono mai state definite ed era difficile dimostrarne il senso e l’esistenza.
Altro elemento negativo, rilevato da tutti i lavoratori, risedeva nella mancanza di comunicazione. Il dialogo veniva giudicato insufficiente tra i dirigenti dei vari chioschi e i lavoratori, ma anche tra l’amministrazione di Fico stesso e i vari brand presenti. L’amministrazione raramente era presente all’interno del parco e non conosceva personalmente il proprio personale, risultava dunque estranea alla vita quotidiana dello store. La comunicazione tra lo store e i vertici del marchio avvenivano infatti tramite il capo store che si faceva portavoce di ciò che accadeva nel parco. Ma la sua condizione di precarietà, portava lo store manager stesso a essere in difficoltà a comunicare ai propri superiori le esigenze dello staff. Inoltre molte delle iniziative proposte per cercare di aumentare gli incassi rendendo lo store più appetibile alla clientela, si scontravano con le direttive imposte dall’amministrazione di Fico che sembrava essere sorda davanti alle esigenze dei singoli marchi, creando così diversi limiti nell’azione dei singoli. Già nei mesi successivi all’apertura, lo store non era riuscito a registrare risultati soddisfacenti, probabilmente a causa della scarsa affluenza della clientela all’interno della struttura. Di fronte all’insoddisfazione per non aver ottenuto i risultati sperati, l’amministrazione, prima di decidere di chiudere lo store anticipatamente e interrompere i propri rapporti con il parco, ha cercato di mettere in campo una serie di iniziative volte a ridurre costi e rischi. Queste azioni possono aver portato immediati risultati in termini di risparmio economico ma, ascoltando le parole dei lavoratori, non hanno fatto altro che peggiorare la situazione di precarietà che ha caratterizzato lo store fin dal momento della sua apertura.
Un esempio pratico di ciò che hanno messo in luce i lavoratori intervistati sta nelle modalità di svolgimento dell’attività formativa. Per eliminare i costi in eccesso, l’attività di formazione così come era stata pensata inizialmente – una visita all’azienda in cui i nuovi dipendenti erano invitati a conoscere la storia del marchio, a imparare il mestiere con l’aiuto di esperti del settore, a mettere in pratica le prime conoscenze apprese e infine in una degustazione dei prodotti offerta dall’azienda, occasione anche di socializzazione e di incontro con i superiori – è stata rimossa. Questo è stato sicuramente un alleggerimento in termini economici, ma tutti i lavoratori concordano che abbia danneggiato altamente la qualità del servizio. L’esperienza formativa è stata sostituita infatti con del materiale didattico digitale che il nuovo dipendente avrebbe dovuto imparare per conto proprio, la preparazione sarebbe stata testata e ritenuta adeguata o meno durante l’orario di lavoro, nel servizio con la clientela, spesso creando un grande imbarazzo tra il lavoratore e il cliente. In linea con i principi di Fico, allo staff veniva insegnato che non sarebbero stati semplici baristi, ma avrebbero ricoperto il ruolo di «ambasciatori del gusto», veri e propri esperti del settore. Per quanto questa richiesta fosse impossibile, in quanto si trattava per tutti i dipendenti di un’esperienza di lavoro momentanea, i lavoratori che avevano partecipato alla giornata di formazione si dimostravano più fiduciosi nei confronti del proprio marchio. Questo tipo di rapporto con il brand rendeva i dipendenti più attenti nel rapporto col cliente e intenzionati a voler comunicare qualcosa che andasse oltre la vendita di una merce. Questa modalità di lavoro più interattiva e attrattiva, si è iniziata a perdere fin da subito, il personale, soprattutto dopo la rimozione dell’attività formativa, ha iniziato a considerare una vera e propria truffa cercare di vendere qualcosa che andasse oltre il semplice prodotto. Oltre all’esperienza di formazione, a subire dei tagli è stato presto il personale stesso, ridotto dopo solo un anno di apertura al pubblico.
Il gruppo dei lavoratori si poteva dividere in due: gli assunti a tempo pieno e quelli impiegati con un tipo di contratto a chiamata. Seppur gli impiegati full time fossero i più stimolati a mantenere il lavoro presso lo store, in quanto lo stipendio era per loro fonte primaria di sostentamento economico, sono stati quelli che hanno risentito di più di queste riduzioni. Spesso i contratti non venivano infatti rinnovati, altre volte era il lavoratore stesso che davanti ad assenza di garanzie per il proprio futuro, decideva di abbandonare il posto prematuramente. Il personale a chiamata non è stato invece ridotto, per molti di loro nel corso del tempo l’impegno lavorativo presso lo store è divenuto sempre più ridotto, arrivando a svolgere massimo un turno a settimana. Inizialmente l’amministrazione aveva previsto un numero minimo di due colleghi per turno presenti in store, nell’ultimo anno invece è stato scelto per lo store la gestione di un solo dipendente per turno. Questo, oltre a rendere il lavoro, già di per sé poco attivo dato la scarsa affluenza, più alienante e frustrante per i dipendenti, costretti a passare diverse ore in solitudine, ha peggiorato in termini qualitativi il servizio offerto alla clientela. I lavoratori a chiamata si sono ritrovati a svolgere pochi turni e a rimanere sempre più distanti dalle dinamiche interne al parco, mentre i lavoratori full time hanno iniziato a sviluppare una visione svalutante del proprio mestiere e iniziato a cercare nuove occupazioni. La conseguenza immediata è stata un lavoro svolto sempre più con disimpegno e poche attenzioni.
Il lato esperienziale si è così perso completamente e la clientela ha iniziato man mano a sparire. Per evitare questa deriva il capo store ha cercato di mettere in pratica delle proposte più o meno accattivanti per attirare il pubblico, ma sono state respinte o ignorate dall’amministrazione. A soli due anni dall’apertura, la situazione sembrava già irrecuperabile, l’amministrazione ha deciso così di uscire dal contratto con Fico e chiudere anticipatamente, seppur significava pagare una penale. Evidentemente dopo aver tagliato servizi e personale, per eliminare il problema non era rimasto che eliminare lo store stesso. Nessuno è stato licenziato, semplicemente i contratti non sono stati rinnovati, l’avviso ai dipendenti è stato comunicato a due settimane dalla chiusura, ma non è stata una sorpresa per il personale.
L’incertezza e la precarietà che la maggior parte dei dipendenti di Fico ha vissuto e sta vivendo in questi ultimi mesi non è dunque una novità all’interno del parco, dove il lockdown ha soltanto accelerato il processo di crisi già in atto fin dai mesi della sua apertura. Se molti locali all’interno di Fico sono costretti a chiudere oggi, non si tratta semplicemente della naturale conseguenza di un periodo difficile, ma è perché le gestione del parco ha sempre ignorato i problemi dei vari store, dedicando poca attenzione al lavoratore, come se le condizioni dei dipendenti fossero irrilevanti per mettere in atto un buon servizio. Ignorare le esigenze del personale, considerandolo solo un costo, ha influito negativamente, come dimostrano le parole dei lavoratori stessi, sul rapporto col pubblico.
Una pubblicità e un marketing accanito che puntano a valorizzare il parco attraverso aspetti che in realtà non sono curati all’interno della struttura, si è rivelato una mossa poco efficace. Una retorica completamente basata sul made in Italy, l’eccellenza dei prodotti e l’esperienza unica che si può avere visitando il parco si scontra con le cattive condizioni di lavoro e la flessibilità estrema presenti, gerarchie, alienazione, una mancata formazione e valorizzazione del lavoro, creando un forte scontro tra la pubblicità e la quotidianità della vita al suo interno.
Se il punto di vista interno dei dipendenti ha messo in luce questi aspetti, l’amministrazione anche in questa nuova fase continua a non accorgersene e va avanti sulla propria linea: Fico e la sua gestione si basano su campagne pubblicitarie e tagli previsti per i singoli dipendenti. Nella realtà il lavoratore si trova a muoversi come una pedina in balia degli eventi all’interno del parco mentre il cliente che viene imbrogliato nel corso della sua visita. Mantenere in vita questo sistema sarà sempre più difficile, soprattutto ora che i turisti stranieri, generalmente più facili da affascinare e accontentare, dovrebbero essere sostituiti dal pubblico locale.
Le prime vittime di questo sistema non saranno però i titolari dei grandi marchi presenti nel parco, nonostante i rischi a cui vanno incontro, ma i dipendenti che in assenza di solide tutele vengono trattati senza alcuna attenzione dagli stessi imprenditori di cui invece vengono esaltate le gesta e la capacità di rimettersi in gioco.
*Arianna Cuomo, nata in provincia di Varese nel 1994, ha studiato
all’Alma Mater a Bologna e a Paris 8 Saint Denis ed è laureata in
Antropologia Culturale con una tesi riguardante sull’antropologia e il
mondo del lavoro.
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