sabato 25 luglio 2020

Sovranità, sovranità popolare e sovranità costituzionale

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Quale dovrebbe essere la “road map” giuridica di una formazione, o di una coalizione, sovranista nel caso riuscisse a raggiungere il Governo del Paese? È una domanda che è opportuno iniziare a porsi perché gli eventi evolvono talmente in fretta da rendere non impossibile un tale scenario. E la risposta non può che partire da un chiarimento intorno allo stesso aggettivo, oggi tanto popolare quanto vituperato, da cui siamo partiti: “sovranista”.
La “sovranità” –  da un punto di vista giuridico  e per qualsiasi testo base di diritto costituzionale – è una delle tre caratteristiche indispensabili affinchè uno “Stato” possa considerarsi tale. Gli altri due requisiti sono il “popolo” e il “territorio”. Ergo, uno Stato esiste se, e solo se, c’è una “comunità” di consociati (il popolo) i quali esercitano la piena sovranità su un territorio delimitato da confini ben definiti.
Più precisamente, la “sovranità” coincide con la “potestà di imperio”. Cioè, da un lato con la piena autonomia e indipendenza dello Stato rispetto ad altri soggetti o persone giuridiche (sia di diritto interno, sia di diritto internazionale), dall’altro con la supremazia dello Stato su chiunque (privato o organizzazione) abbia sede o si trovi occasionalmente nel territorio. Il che comporta anche il potere dello Stato di decidere, di imporre e di far rispettare le “regole del gioco”, vale a dire le leggi, a chi nello Stato vive, transita e opera. Nonché di agire in via esecutiva, ed esclusiva, per realizzare qualsiasi progetto ritenuto di utilità sociale per la cittadinanza, senza “soggezioni” o coindizionamenti di sorta. Ovviamente, la potestà di imperio è nulla se, a sua volta, non si declina attraverso i classici tre poteri di cui parlava Montesquieu: legislativo, esecutivo, giudiziario. A questi va aggiunto il quarto, e decisivo, potere che è quello coincidente con la “sovranità” monetaria, cioè con il monopolio nella produzione e nella governance della moneta statale.

Per quanto anzidetto, “sovranità” è un concetto che non è in toto sovrapponibile a quello di “democrazia”. Può ben essere pienamente sovrano anche uno stato dittatoriale, o addirittura totalitario o, comunque, non compiutamente democratico. Non a caso, ultimamente gli europeisti blandiscono i sovranisti ricordando loro che esiste una “sovranità” europea in cui essi possono riconoscersi, pur avendo perduto, di fatto  e in gran parte, quella italiana. Purtroppo per gli euro-entusiasti, nel caso dell’Italia la “sovranità”, come sopra rettamente intesa, viene affidata, dalla nostra Suprema Carta – sia pure “nelle forme e nei limiti stabiliti dalla Costituzione” (art. 1) – al “popolo”.
Quindi, se scendiamo dal generale al particolare e dall’astratto delle enunciazioni di principio al concreto della realtà giuridico-istituzionale, la potestà di imperio, nel nostro Paese, appartiene in ultima istanza al popolo. E ciò in base a una logica non elitaria, non aristocratica, non oligarchica, ma semmai antitetica a tali “deformazioni”. Una logica ispirata alla più ampia, diffusa e articolata “partecipazione” popolare nella titolarità e nell’esercizio di tutti i poteri in cui la “sovranità” si esplicita.
Alla luce di quanto esposto, qualsiasi movimento si dichiari oggi “sovranista” non potrà che esserlo – perlomeno a Costituzione vigente – nel senso, con le forme e nei modi stabiliti dalla Carta del 1948. Il che pone ogni politico autenticamente “sovranista” di fronte a tre inderogabili linee d’azione (da tradursi in obbiettivi programmatici) rispetto al tema della sovranità: una di carattere conservativo, una di carattere emendativo e una di carattere proattivo. Tutte, comunque, ispirate alla difesa o, addirittura, al miglioramento della ratio del concetto di sovranità “costituzionale”. Vediamole rapidamente.
1) Possibili azioni di carattere conservativo: proteggere in tutti i modi lo spirito profondamente “popolare” e “democratico” della sovranità italiana e, quindi, opporsi alla stipula di ogni ulteriore trattato internazionale volto a ridurla, sminuirla, comprimera o, addirittura, cederla. Soprattutto se ciò implica il trasferimento di tali quote di sovranità a organi non elettivi, trans-nazionali, extraterritoriali e “irresponsabili” (come Commissione, BCE, MES, authority varie, etc.)

2) Possibili azioni di carattere emendativo: emendare, nel senso di correggere (se del caso, abrogandole), le modifiche degli articoli della Costituzione (81, 97, 117, 119) attraverso le quali sono stati introdotti, nell’ordinamento italiano (con leggi costituzionali nr. 3 del 18.10.2001 e nr. 1 del 20.04.2012): a) la soggezione della Repubblica al c.d. “vincolo esterno” dell’ordinamento comunitario; b) l’equilibrio (id est il “pareggio”) di bilancio;
3) Possibili azioni di carattere proattivo: inserire nella Costituzione la sovranità monetaria (“dimenticata” dai padri costituenti) e integrare come segue (cioè in melius) l’articolo 5: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali. È,  altresì, indisponibile a qualsiasi forma di fusione o aggregazione sovra-statuale e transnazionale, di natura  federativa o confederativa, con altri Stati, tale da implicare definitive cessioni di sovranità a organismi extra-statuali in violazione dell’articolo 11”. Integrare, infine, l’articolo 139 come segue: “La forma repubblicana, così come specificata dagli articoli da 1 a 12, e in particolare dall’articolo 5, non può essere oggetto di revisione costituzionale”. Questa riforma renderebbe definitivamente inattuabile, per via costituzionale, l’obiettivo (quasi mai apertamente confessato) degli europeisti odierni: e cioè la confluenza dell’Italia negli “Stati Uniti d’Europa”.
Francesco Carraro
www.francescocarraro.com

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