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Il 7 giugno non sapeva nulla dei camici della società di suo cognato destinati alla Lombardia. Il 26 luglio, invece, sostiene di aver voluto partecipare pure lui alla donazione per la Regione. Che – per inciso – lo ha eletto governatore. Eppure nemmeno Attilio Fontana sembra avere le idee chiare sulla vicenda del materiale medico che il Pirellone avrebbe dovuto acquistare dall’azienda del fratello di sua moglie.
O almeno così pare dalle diverse versioni rese a partire dal 7 giugno scorso, cioè quando Il Fatto Quotidiano ha anticipato i contenuti dell’inchiesta televisiva di Report che ha scoperchiato l’affare. In un’intervista rilasciata oggi alla Stampa, il governatore dà la sua (ultima) ricostruzione dei fatti: “Quando è saltata fuori questa storia e ho visto che mio cognato faceva questa donazione, ho voluto partecipare anch’io. Fare anch’io una donazione. Mi sembrava il dovere di ogni lombardo”.
Ricapitolando: Fontana era a conoscenza del fatto che nei mesi scorsi la Dama spa – società gestita dal cognato Andrea Dini e di cui la moglie detiene il 10 per cento delle quote – voleva “donare” camici e altro materiale medico alla Lombardia per un valore di 513mila euro. E per questo decise di “partecipare” al gesto di solidarietà. Come? Attraverso un bonifico da 250mila euro destinato all’azienda del parente e partito direttamente dai suoi conti svizzeri. In pancia fino al 2015 c’erano oltre 5 milioni di euro gestiti da due trust alle Bahamas su indicazione della madre – poi scudati grazie alla voluntary disclosure – e su cui ora si concentrano le attenzioni dei magistrati. Il contestato bonifico, stando al Corriere della Sera, è datato 19 maggio, cioè quattro giorni dopo un’intervista rilasciata dallo stesso Fontana ai giornalisti di Report. Ma si è fermato a causa di un alert segreto che la milanese Unione Fiduciaria ha mandato a Bankitalia in base alle normative antiriciclaggio. Nel giro di poche settimane i finanzieri acquisiscono gli atti e l’11 giugno, riferisce sempre il Corriere, Fontana chiede alla fiduciaria di non effettuare più la transazione richiesta con “urgenza”. Nel frattempo i pm di Milano aprono un fascicolo. “Non c’è niente di illecito in quel conto”, chiarisce ora il governatore, “sono capitali denunciati e scudati, un’eredità di mia madre. Non vedo di cosa dovrei vergognarmi”. “Che vadano a vedere tutto quello che vogliono. Noi siamo tranquilli. È una eredità, scudata, regolarizzata, tracciabile e assolutamente ufficiale”, aggiunge poi il suo legale Jacopo Pensa, annunciando di voler incontrare al più presto i magistrati per discutere di questi temi.Sta di fatto che, da quando il caso dei camici è diventato di dominio pubblico, il governatore ha cambiato linea più volte. Il 7 giugno, di fronte all’articolo pubblicato sul Fatto, dichiarò la sua “totale estraneità alla vicenda“, annunciando querele nei confronti del giornale e diffidando la trasmissione di Rai3 dal mandare in onda il servizio integrale. “Si tratta dell’ennesimo attacco politico vergognoso, basato su fatti volutamente artefatti e scientemente omissivi per raccontare una realtà che semplicemente non esiste”, aggiunse Fontana. “Non sapevo nulla della procedura attivata da Aria Spa (la Centrale acquisti della Regione, ndr) e non sono mai intervenuto in alcun modo”. Poche ore dopo, dalla sua pagina Facebook, il presidente aggiunse nuovi dettagli sulla presunta “donazione” di camici fatta da Dini: “Nell’automatismo della burocrazia, nel rispetto delle norme fiscali e tributarie, l’azienda oggetto del servizio di Report, accompagnava il materiale erogato attraverso regolare fattura stante alla base la volontà di donare il materiale alla Lombardia, tanto che prima del pagamento della fattura, è stata emessa nota di credito bloccando di fatto qualunque incasso”. In base alle ricostruzioni giornalistiche, invece, le fatture sarebbero state stornate e l’acquisto trasformato in una donazione il 20 maggio, cioè solo dopo l’interessamento di Report alla vicenda. Dini finora ha sempre negato, affermando che il suo intento era sin dall’inizio a scopi benefici. Come riportato dal Fatto Quotidiano, però, lo stesso manager avrebbe firmato di suo pugno un’email in cui si parlava esplicitamente di “prezzi e forniture”. Documento poi recuperato dagli investigatori del Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di Finanza nel corso delle acquisizioni fatte in Regione.
Ma c’è di più. Perché ieri – dopo l’iscrizione di Fontana nel registro degli indagati – a dare una versione ancora diversa è stato il suo avvocato Pensa: “Quando è venuto a sapere della fornitura, per evitare equivoci” ha detto al cognato “di trasformarla in donazione e lo scrupolo di averlo danneggiato lo ha indotto in coscienza a fare un gesto risarcitorio“. Il riferimento è proprio al bonifico da 250mila euro destinato a Dini e bloccato dall’antiriciclaggio. “Questo risarcimento”, ha continuato il legale, “è rimasto lettera morta. Non sono in grado di capire dove sia il reato” contestato a Fontana (frode in pubbliche forniture), “ma i pm sanno quello che devono fare ed evidentemente sono state fatte indagini che hanno implicato l’iscrizione a garanzia dell’indagato”. Parole con cui il governatore evidentemente non è d’accordo, dal momento che nel giro di 24 ore definisce quel bonifico non un “risarcimento”, ma la sua quota nella donazione organizzata dal cognato. E al giornalista della Stampa che gli fa notare le incongruenze, iniziate il 7 giugno con la sua presunta “estraneità ai fatti”, lui ribatte così: “Ma è vero, io della fornitura non sapevo niente. L’ho saputo solo quando mio cognato ha deciso di fare la donazione”.
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