mercoledì 29 luglio 2020

Libro. Un manuale di autodifesa contro il pensiero economico dominante.


Un manuale per neofiti che mette in discussione argomenti poco noti o dati per scontati perché appartengono a quella sfera economica che i più considerano imperscrutabile, comprensibile solo agli “addetti ai lavori”, così Gaia Raimondi definisce il Trattato di economica eretica di Thomas Porcher, da lei stessa tradotto per i tipi di Meltemi.



micromega Carlo Formenti
Una definizione azzeccatissima, perché il libro di questo giovane economista francese di origine vietnamita è un pamphlet contro i luoghi comuni che l’economia mainstream spaccia per dogmi scientifici e, al tempo stesso, un “manuale di autodifesa” per consentire al comune cittadino di proteggersi dalla tambureggiante propaganda con cui partiti, media ed esperti di regime lo bombardano per indurlo ad accettare come inevitabili i continui peggioramenti delle condizioni di vita e di lavoro che gli vengono imposti.

Nella breve Premessa che ha scritto per l’edizione italiana di questo lavoro (che in Francia è un bestseller, visto che ha venduto decine di migliaia di copie, un risultato che ben pochi economisti, fra cui Thomas Piketty, possono vantare), Porcher aggiorna la sua requisitoria antiliberista ricordando che se la pandemia ha potuto mietere tante vittime è perché un ventennio di austerity ha imposto lo smantellamento della sanità pubblica, chiudendo ospedali e reparti e aggravando la cronica mancanza di risorse e personale. Dopodiché aggiunge che, dal momento che lo Stato, come dopo la crisi del 2008, sarà chiamato a sostenere le attività economiche, il che farà lievitare deficit e debiti pubblici, dobbiamo preparaci a sentirci ripetere le solite canzoncine sul fatto che non è il momento di “vivere al di sopra dei nostri mezzi”, né di pretendere eccessive misure sociali di tutela.

Poi, nei tredici capitoli del libro, spiega in modo chiaro e comprensibile al profano le ragioni per cui questa canzoncina è stonata e priva di fondamento. Qui mi limito a richiamare alcune argomentazioni che demistificano Il discorso dominante. A partire dalla seguente affermazione (che potrebbe suonare sgradita anche alle orecchie di alcuni economisti “alternativi”, i quali si sentono parte in causa di un confronto scientifico con le correnti maggioritarie della disciplina): l’economia non è una scienza, o perlomeno non è una scienza nel senso di una scienza naturale in grado di esibire risultati indiscutibili, ma è solo “una successione di scelte di regolamentazione definite dai rapporti di forza in un preciso momento” (niente di nuovo per chi conosca l’abicì del marxismo ma, visto che si tratta di una categoria in via di estinzione, non guasta ripeterlo). Ancora: il dibattito mediatico è infarcito di idee farlocche come quella secondo cui il debito pubblico sarebbe un pericolo per le generazioni future, o come quella che un mercato del lavoro flessibile aiuterebbe a ridurre la disoccupazione, o infine come quella secondo cui adottare politiche economiche neo keynesiane vorrebbe dire fare la fine del Venezuela e della Corea del Nord (dello “statalismo” cinese si parla meno, aggiungo io, perché il suo successo rischia di rendere controproducente l’argomento).

La tragedia, scrive Porcher, è che queste idee non sembra possano essere più messe in discussione perché le vittime delle politiche neoliberiste “creano esse stesse le condizioni per la loro realizzazione votando per chi intende privarle di ciò che dovrebbe essere garantito in un paese ricco”: un lavoro dignitoso, una casa, potersi curare, nutrirsi adeguatamente, andare in vacanza, godere di una pensione decente, vivere in un ambiente sano ecc. Come liberarsi da questa servitù volontaria, dalla fede incrollabile nel dogma thatcheriano per cui there is no alternative? La risposta a questo interrogativo non possiamo attendercela da Porcher, perché tale risposta non può che venire dalla politica, o meglio da un ambiente politico altro da quello in cui siamo oggi immersi, tuttavia il libro di Porcher ha almeno il merito di offrirci alcuni principi di autodifesa contro il pensiero dominante. Eccoli:

1) diffidare dei rimedi miracolosi universalmente applicabili (vedi il parere univoco degli economisti sulla stabilità finanziaria dei mercati e sulla solvibilità delle banche prima della crisi dei subprime del 2007);

2) non permettere mai che siano imposti limiti al possibile (i limiti imposti alla riflessione in ambito economico non sono fondati su criteri oggettivi ma sui rapporti di forza e quindi possono cambiare);

3) il singolo individuo non è mai l’unico responsabile del proprio successo o dei suoi fallimenti;

4) non credere che la flessibilità del mercato del lavoro sia un rimedio alla disoccupazione (l’unico vero scopo delle riforme del mercato del lavoro è salvaguardare i profitti aziendali);

5) prima di ridurre la spesa pubblica si cerchi di capire cosa finanzia (pensioni, salute, indennità di disoccupazione, investimenti in infrastrutture, ecc.) e non dimenticare che lo scopo è offrire interi settori dello Stato sociale ai grandi gruppi privati felici di sfruttare questi mercati;

6) la finanza distrugge il sistema industriale perché oggi il compito del manager consiste nell’assicurare profitti a breve agli azionisti più che investimenti a lungo termine, ed è solo se svolge questo ruolo che viene premiato con retribuzioni scandalosamente elevate;

7) Non avere paura del debito pubblico (che è di gran lunga inferiore a quello privato) e chiedersi perché, quando si tratta di abbassare le tasse ai ricchi e ridurre gli oneri aziendali non è un problema, mentre lo diventa se si tratta di investire in servizio pubblico;

8) diffidare della retorica sul riscaldamento globale, perché non si affronta seriamente la sfida ambientale senza rimettere in discussione i nostri modelli di produzione e consumo;

9) la realizzazione di un’Europa fondata sul principio della libera concorrenza ha favorito la competizione tra i modelli sociali e fiscali degli Stati membri;

10) Non credere che il libero scambio vada a vantaggio di tutti perché nel gioco della globalizzazione ci sono vincitori e vinti: vincono le multinazionali che possono massimizzare i profitti (producendo dove il costo del lavoro è più basso, vendendo dove c’è più potere di acquisto e pagando le tasse dove la pressione fiscale è ridotta), perdono tutti gli altri.

(27 luglio 2020)

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