Un manuale per neofiti che mette in discussione argomenti poco noti o dati per scontati perché appartengono a quella sfera economica che i più considerano imperscrutabile, comprensibile solo agli “addetti ai lavori”, così Gaia Raimondi definisce il Trattato di economica eretica di Thomas Porcher, da lei stessa tradotto per i tipi di Meltemi.
micromega Carlo Formenti
Una definizione azzeccatissima, perché il libro di questo giovane economista francese di origine vietnamita è un pamphlet contro
i luoghi comuni che l’economia mainstream spaccia per dogmi scientifici
e, al tempo stesso, un “manuale di autodifesa” per consentire al comune
cittadino di proteggersi dalla tambureggiante propaganda con cui
partiti, media ed esperti di regime lo bombardano per indurlo ad
accettare come inevitabili i continui peggioramenti delle condizioni di
vita e di lavoro che gli vengono imposti.
Poi, nei tredici capitoli del libro, spiega in modo chiaro e
comprensibile al profano le ragioni per cui questa canzoncina è stonata e
priva di fondamento. Qui mi limito a richiamare alcune argomentazioni
che demistificano Il discorso dominante. A partire dalla seguente
affermazione (che potrebbe suonare sgradita anche alle orecchie di
alcuni economisti “alternativi”, i quali si sentono parte in causa di un
confronto scientifico con le correnti maggioritarie della disciplina):
l’economia non è una scienza, o perlomeno non è una scienza nel senso di
una scienza naturale in grado di esibire risultati indiscutibili, ma è
solo “una successione di scelte di regolamentazione definite dai
rapporti di forza in un preciso momento” (niente di nuovo per chi
conosca l’abicì del marxismo ma, visto che si tratta di una categoria in
via di estinzione, non guasta ripeterlo). Ancora: il dibattito
mediatico è infarcito di idee farlocche come quella secondo cui il
debito pubblico sarebbe un pericolo per le generazioni future, o come
quella che un mercato del lavoro flessibile aiuterebbe a ridurre la
disoccupazione, o infine come quella secondo cui adottare politiche
economiche neo keynesiane vorrebbe dire fare la fine del Venezuela e
della Corea del Nord (dello “statalismo” cinese si parla meno, aggiungo
io, perché il suo successo rischia di rendere controproducente
l’argomento).
La tragedia, scrive Porcher, è che queste idee non sembra possano
essere più messe in discussione perché le vittime delle politiche
neoliberiste “creano esse stesse le condizioni per la loro realizzazione
votando per chi intende privarle di ciò che dovrebbe essere garantito
in un paese ricco”: un lavoro dignitoso, una casa, potersi curare,
nutrirsi adeguatamente, andare in vacanza, godere di una pensione
decente, vivere in un ambiente sano ecc. Come liberarsi da questa
servitù volontaria, dalla fede incrollabile nel dogma thatcheriano per
cui there is no alternative? La risposta a questo interrogativo
non possiamo attendercela da Porcher, perché tale risposta non può che
venire dalla politica, o meglio da un ambiente politico altro da quello
in cui siamo oggi immersi, tuttavia il libro di Porcher ha almeno il
merito di offrirci alcuni principi di autodifesa contro il pensiero
dominante. Eccoli:
1) diffidare dei rimedi miracolosi universalmente applicabili (vedi
il parere univoco degli economisti sulla stabilità finanziaria dei
mercati e sulla solvibilità delle banche prima della crisi dei subprime
del 2007);
2) non permettere mai che siano imposti limiti al possibile (i
limiti imposti alla riflessione in ambito economico non sono fondati su
criteri oggettivi ma sui rapporti di forza e quindi possono cambiare);
3) il singolo individuo non è mai l’unico responsabile del proprio successo o dei suoi fallimenti;
4) non credere che la flessibilità del mercato del lavoro sia un
rimedio alla disoccupazione (l’unico vero scopo delle riforme del
mercato del lavoro è salvaguardare i profitti aziendali);
5) prima di ridurre la spesa pubblica si cerchi di capire cosa
finanzia (pensioni, salute, indennità di disoccupazione, investimenti in
infrastrutture, ecc.) e non dimenticare che lo scopo è offrire interi
settori dello Stato sociale ai grandi gruppi privati felici di sfruttare
questi mercati;
6) la finanza distrugge il sistema industriale perché oggi il
compito del manager consiste nell’assicurare profitti a breve agli
azionisti più che investimenti a lungo termine, ed è solo se svolge
questo ruolo che viene premiato con retribuzioni scandalosamente
elevate;
7) Non avere paura del debito pubblico (che è di gran lunga
inferiore a quello privato) e chiedersi perché, quando si tratta di
abbassare le tasse ai ricchi e ridurre gli oneri aziendali non è un
problema, mentre lo diventa se si tratta di investire in servizio
pubblico;
8) diffidare della retorica sul riscaldamento globale, perché non
si affronta seriamente la sfida ambientale senza rimettere in
discussione i nostri modelli di produzione e consumo;
9) la realizzazione di un’Europa fondata sul principio della libera
concorrenza ha favorito la competizione tra i modelli sociali e fiscali
degli Stati membri;
10) Non credere che il libero scambio vada a vantaggio di tutti
perché nel gioco della globalizzazione ci sono vincitori e vinti:
vincono le multinazionali che possono massimizzare i profitti
(producendo dove il costo del lavoro è più basso, vendendo dove c’è più
potere di acquisto e pagando le tasse dove la pressione fiscale è
ridotta), perdono tutti gli altri.
(27 luglio 2020)
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