domenica 26 luglio 2020

La mia storia al 41bis, un morto a guardia del proprio cadavere (di C. Gallico)


Il racconto dell'esperienza da detenuto per 5 anni in regime di carcere duro in stato di custodia cautelare. "Morendo soffri un attimo. Poi tutto svanisce nella morte. Il 41bis, invece, è l’orribile attimo della morte che si perpetua all’infinito".

Carmelo
Carmelo Gallico, per 5 anni detenuto in regime di carcere duro in stato di custodia cautelare, intervenuto al Consiglio direttivo di Nessuno tocchi Caino dedicato al 41 bis
huffingtonpost.it Carmelo Gallico
Del 41 bis ricordo i racconti di chi l’ha patito agli inizi della sua applicazione, simili a quelli già ascoltati durante la detenzione all’altro regime di carcere duro, l’ex art 90, nato per contrastare il terrorismo e poi assurto a modello dello stesso 41 bis: violenze fisiche, incursioni notturne nelle celle con pestaggio del detenuto, isolamenti, finte esecuzioni, inscenamento di impiccagioni che tanto se andavano male potevano sempre essere spacciate per suicidio, umiliazioni e pressioni psicologiche capaci di fiaccare anche i più temerari criminali. La ratio era quella di incutere il terrore sia ai sottoposti al 41 bis, sia a chi giungeva notizia, e, come nella lotta al terrorismo, il fenomeno del pentitismo travolse anche le più agguerrite organizzazioni criminali.

Io allora affrontavo la prima accusa per associazione mafiosa, ma ebbi la fortuna di evitare il 41 bis. Lasciato il carcere nel 2007 vissi da subito con l’intensità di chi ha un enorme gap di vita da recuperare: Frequenza e laurea alla Facoltà di giurisprudenza, scrittura di testi teatrali e pubblicazione di libri. Ma non conoscevo quel principio caro a certe Procure, poi tradotto in sentenze di condanna, secondo il quale un condannato per mafia sarà mafioso per sempre e dunque sempre imputabile per il reato associativo senza alcun onere per l’accusa di dimostrare la sua partecipazione al sodalizio criminoso: “dalla ’ndrangheta si esce per morte o per collaborazione; la mancanza di uno dei due eventi è da sola elemento sufficiente per la condanna”, avrebbe tuonato il PM nel richiedere una pena a 30 di reclusione.
La nuova accusa per 416 bis mi ristrappò alla vita in una notte del giugno 2010. Dalla detenzione dei primi anni 90 molte cose erano cambiate: il 41 bis da norma emergenziale e temporanea era passato a misura permanente; le carceri di Pianosa e l’Asinara, teatro delle violenze oggetto delle più terrificanti narrazioni, erano tornate ad essere due isole amene; cimici e trojan avevano reso inutili i pentiti e la partecipazione dell’imputato al processo in videoconferenza relegava la sua figura a quella di inane spettatore. Anche la ratio non è ormai più la stessa: divenuta marginale l’influenza dei pentiti nel processo, il fine è diventato quello di svilire il processo stesso impedendo all’imputato il compiuto esercizio del diritto alla difesa attraverso l’esasperazione della pratica dell’isolamento.
Da imputato, in custodia cautelare e a poche settimane dal mio arresto, tutte le cose che ritenevo di conoscere riguardo al 41 bis si materializzarono d’improvviso nella mia vita e potei capire che mai nessun racconto, mai nessuna immaginazione, possono davvero trasmettere e rappresentare l’orrore e la sofferenza dell’uomo costretto a subire quella violenza.
Fui destinato a Rebibbia, Reparto G13. Era inizio agosto, fuori il sole accecava, ma dentro io stazionavo nel buio e nell’asfissia assoluti: mi era concessa un’ora di luce, una soltanto, nell’arco di un’intera giornata. La trascorrevo in quella scatola di cemento coperta da due fitte reti di metallo chiamato passeggio. Quindici passi per percorrerla in lungo, appena 5 in larghezza. All’inizio li contavo: camminavo in lungo con gli occhi chiusi sui miei pensieri e giravo a memoria.
Le rimanenti 23 ore le trascorrevo nel chiuso della cella sotto il freddo pallore di un neon. Un passo dalla branda al lavandino; due per la bilancetta; a tre c’era la turca; a quattro sbattevo già il naso contro la parete. La finestra era una piccola fessura attaccata al soffitto con una rete dalle maglie così strette da trattenere anche l’aria.
Chiamavo gli agenti solo in rarissime occasioni: Appuntato! – chi è che chiama? – cella numero 21! Col tempo, il detenuto al 41 bis dimentica quasi il proprio nome e diventa il numero della sua cella anche agli occhi di sé stesso. In sezione vigeva il divieto della parola tra compagni e la loro presenza si riduceva ad un ridondante rumore di sottofondo: cella 3 intratteneva esilaranti dialoghi con i personaggi televisivi; cella 4 era il rumore delle gocce di psicofarmaci versati dall’infermiere nel bicchiere di plastica. Non lo vidi che una o due volte: barba e capelli lunghi, sguardo perso nel vuoto, movimenti lenti, braccia abbandonate lungo i fianchi. Il più chiassoso era cella numero 6: la notte ululava, poi si fermava qualche istante come ad origliare e articolava il suo ululato nella cantilena di un richiamo: Luuuuuupiiiiii. Non capivo se fosse uno sberleffo alle guardie o fosse invece una richiesta di aiuto lanciata a degli amici invisibili che popolavano la sua mente. Quando era stremato, la sua voce si trasformava in uno straziante urlo. Forse si era lasciato vincere dalla follia o forse aveva un barlume di lucidità e urlava, urlava contro orrori che non accettava, urlava contro le mura che lo trattenevano, urlava all’inferno da cui si sentiva divorare.
Io, senza alcuna possibile via di fuga dalle urla di disperazione che sentivo intorno a me, rimanevo rannicchiato in un angolo della branda. Un foglio e una penna tra le mani, esorcizzavo l’inferno dal quale non potevo fuggire imprigionandolo tra le righe di una pagina, nella cronaca dei suoi momenti, per dare un nome ed una storia a quelle anime disperate cancellate dal mondo e dalla vita. Era il modo per mantenere la mia umanità, il filo di Arianna che mi consentì di non smarrirmi nella disperazione. Innocente per Costituzione ma colpevole per pregiudizio, trascorsi 5 anni al 41 bis in stato di custodia cautelare e di detenzione inumana, come riconosciuto dal Tribunale Civile di Brescia.
A ragion veduta, ritengo che il 41 bis sia la violenza più grave che mai uomo possa subire, persino più grave della morte. Morendo soffri un attimo. Poi tutto svanisce nella morte. Il 41 bis, invece, è l’orribile attimo della morte che si perpetua all’infinito. Una violenza che non conosce soluzione di continuità, un dolore che non conosce limite, una sofferenza che annienta l’uomo, un tormento che ammorberà per sempre lo spirito. Ed è la morte l’immagine indelebile impressa nella mia memoria. Quella dei detenuti abbandonatisi all’apatia, morti a guardia del proprio cadavere, e quella vista nell’ombra appesa alle sbarre di una cella, l’ombra del mio compagno di gruppo che nella morte scelse di trovare la sua liberazione dall’orrore del 41 bis.

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