Emblematica è la situazione degli Stati Uniti, il paese campione del mercato e delle politiche neo-liberiste, ma anche dei contagi e della pessima gestione della crisi Covid: quasi quattro milioni di casi (più di un quarto di quelli di tutto il mondo) e ancora in crescita, una contrazione del prodotto di almeno 6,5 punti percentuali per il 2020, l’aumento della disoccupazione ufficiale intorno all’11%, che si raddoppia considerando anche gli occupati precari e quanti sono scoraggiati dal cercare un lavoro, il più alto a partire dagli anni ‘40 del secolo scorso.
Eppure la nave della finanza va… anzi va col vento in poppa! L’indice Standard e Poor’s 500 ha segnato un rimbalzo di più del 40% a partire dai minimi di marzo scorso, malgrado le prospettive di un decremento medio del 10% dei ricavi delle corporation americane. Non parliamo poi delle banche di investimento: sia Goldman Sachs che Morgan Stanley hanno battuto le previsioni dell’andamento degli utili nel secondo trimestre 2020, con ricavi e profitti record. Quanti sono orientati sui segmenti più speculativi del mercato stanno facendo lauti guadagni.
Parafrasando il titolo di un film di Oliver Stone Il denaro non dorme mai e l’economia delle “cose e dei fatti” è quasi sempre scissa da quella della finanza, sempre più sovrastruttura è guidata dalla psicologia, dal timore e dal rimpianto di perdere l’affare, dall’eccesso di fiducia nei propri mezzi, dall’orgoglio di affermare uno status, dall’esistenza di comportamenti gregari (anche da parte dei gestori dei fondi finanziari) che inducono a imitare atteggiamenti altrui… finché dura.
La valanga di liquidità investita in obbligazioni dalle Banche centrali (e in particolare da quella statunitense) in risposta alla crisi sta gonfiando l’indebitamento mondiale. Molte grandi imprese, approfittando della situazione, stanno emettendo grandi quantità di obbligazioni, con il solo obiettivo di procurarsi ulteriore liquidità e non a scopo di investimento: a fine 2019 il controvalore dei debiti corporate delle principali imprese non finanziarie a livello globale aveva già raggiunto la cifra di 8.300 miliardi di dollari e per il 2020 è prevista una ulteriore crescita del 12%.Anche l’indebitamento pubblico, causa pandemia, sta salendo vertiginosamente e secondo il Fondo Monetario Internazionale a fine anno i bond dei paesi ad economia avanzata supereranno il 120% del Pil. Il coronavirus ha prodotto in pochissimo tempo la stessa quantità di debito pubblico accumulatasi in venti anni.
Si stanno ponendo le premesse perché si gonfi una ennesima bolla speculativa per il duplice effetto della speculazione di borsa e della crescita abnorme del debito pubblico e delle imprese. “Maiora premunt” dicevano i romani, di fronte a una così grave emergenza economico-sociale queste preoccupazioni possono passare in secondo piano, ma fino a quando?
C’è una condizione essenziale per fugare i rischi: che la grande massa di debito abbia, per così dire, un effetto moltiplicativo elevato sul Pil, ossia che una parte consistente delle spese effettuate con questi soldi sia rivolta verso investimenti produttivi e/o comunque serva ad alimentare una domanda effettiva e non si trasformi in un semplice – ulteriore – spostamento verso rendite oligopolistiche di vario tipo. La pandemia è una crisi globale simmetrica, ma sta creando fortissime asimmetrie tra categorie sociali.
Dal 1980 la disuguaglianza è fortemente aumentata a danno delle classi medie e medio-basse, che oggi rischiano di accusare un ulteriore brutto colpo. Il denaro non dorme, ma la finanza sta andando a scapito dell’economia reale. Guardiamo sempre gli Stati Uniti: oggi l’1% degli americani più ricchi possiede quasi il 52% delle azioni e dei fondi comuni del totale.
Se la borsa cresce, se le banche di affari guadagnano, se ne avvantaggiano le classi al “top del top” della ricchezza. Concentrare quote crescenti di ricchezza in questa fascia significa anche non alimentare adeguatamente il processo di spesa e quindi lo sviluppo, perché queste classi non esprimono una capacità di consumo, e spesso neanche di investimento reale, proporzionale al loro patrimonio.
Il crescente indebitamento dovuto all’emergenza Covid-19 potrebbe essere tenuto sotto controllo se ci fosse un adeguato sviluppo della domanda mondiale, che invece rischia di rimanere intrappolato a causa della minore capacità di spesa delle classi più abbienti (che stanno avendo vantaggi dall’aumento delle rendite finanziarie) e della minore capacità di acquisto di quelle “meno e medio abbienti” (il cui potere è ridotto per la contrazione dei redditi). Dobbiamo guardare anche in altre direzioni.
Thomas Piketty, uno dei più noti studiosi della diseguaglianza, nel suo ultimo volume Capitale e ideologia propone “un’imposta fortemente progressiva sui grandi patrimoni, che permetta di finanziare una dotazione universale di capitale”. Se vogliamo evitare che alla pandemia sanitaria segua una pandemia socio-economica per insostenibilità del debito superiamo i pregiudizi neo-liberisti.
Luigi Einaudi, grande liberale, scrivendo sulla ricostruzione che fece seguito alla Seconda guerra Mondiale (una situazione che per alcuni ha aspetti di affinità con la crisi attuale) era favorevole a una tassa sui patrimoni purché fosse straordinaria, rispondesse a un piano ragionato e accolto dall’opinione pubblica, fosse inserita in una riforma del sistema di tassazione del reddito e (soprattutto) segnasse l’inizio di una fase di forte credibilità per una nuova classe politica.
Un insegnamento – da traslare su scala globale – di grandissima attualità e da riprendere, per evitare un dopo Covid caratterizzato da una terribile combinazione tra insolvenza e aumento della disuguaglianza a livello planetario.
* Segretario generale dell’Associazione delle Camere di commercio italiane all’estero e docente di Economia Politica all’Universitas mercatorum. Attualmente si occupa del ruolo dei processi fiduciari nello sviluppo economico e di economia della sostenibilità istituzionale.
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