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di Marco Bersani, Attac Italia
Spiace ancora una volta dover smentire la narrazione massmediatica
dominante, pronta ad assegnare il Pallone d’oro 2020 al premier Conte
per l’accordo siglato in merito al Recovery Fund, dopo un aspro confronto di quattro giorni nell’Eurogruppo.
Con questo correrò il rischio di suscitare qualche irritazione nei
molti che, in totale buona fede, accarezzano da tempo l’immagine di un
Paese che finalmente rialza la testa e porta a casa dei risultati per
migliorare la loro condizione. E di suscitare accuse di lavorare per il
nemico nei pochi, in cattiva fede, per i quali è vietato disturbare il
manovratore.
Ma, poiché i fatti non corrispondono al racconto che ne viene tramandato, a questi occorre attenersi e così farò.
I numeri dell’accordo
Il Recovery Fund sarà dotato di 750 miliardi di euro, 390 dei quali
messi a disposizione come trasferimenti (erroneamente definiti “a fondo
perduto”) e 360 come prestiti. Rispetto alla proposta iniziale, che
prevedeva 500 miliardi come trasferimenti e 250 miliardi di prestiti,
l’accordo ha dunque modificato la ripartizione.
Di questa somma, l’Italia porterà a casa 81,4 miliardi di trasferimenti e 127,4 di prestiti.
Sono indubbiamente cifre importanti, ma da dove arrivano?
Saranno raccolte sui mercati finanziari attraverso l’emissione di
bond da parte della Commissione Europea, che metterà a garanzia il
bilancio dell’Unione Europea.
Di conseguenza, il bilancio dell’Unione Europea verrà aumentato, e,
poiché, il bilancio dell’Ue è formato dai finanziamenti quota parte di
ogni singolo Stato, occorre tener conto della cifra che il nostro Paese
dovrà versare, per permettere l’avvio del Recovery Fund.
E qui troviamo un primo dato sorprendente, perché la quota parte
aggiuntiva che l’Italia dovrà mettere corrisponde a 96,3 miliardi[1]
Riassumendo: l’Italia verserà 96,3 miliardi per riceverne
81,4 come trasferimenti e 124,7 come prestiti. Quindi, se c’è qualcosa
che viene dato “a fondo perduto”, sono i 14,9 miliardi che l’Italia
mette in più rispetto a quelli che riceve come “trasferimento”, mentre i
soldi reali che ottiene sono tutti a prestito.
A basso tasso di interesse, ma, come chiunque può constatare, Babbo Natale non esiste.
Quando arrivano i soldi
Il Recovery Fund sarà incardinato nel bilancio 2021-2027 dell’Unione
Europea. La Commissione potrà quindi effettuare la raccolta sui mercati
finanziari a partire dal gennaio 2021. L’accordo prevede che il 70% dei
fondi siano erogati nel biennio 2021-2022 e il 30% l’anno successivo.
Tornando ai conti italiani, il nostro Paese dovrebbe quindi ricevere 146
miliardi nei prossimi due anni e 63 nel 2023.
La parte dei soldi presa a prestito (che, come abbiamo visto, è
l’unica che realmente arriverà all’Italia, dato il saldo negativo del
dare-avere sulla parte legata ai trasferimenti) dovrà essere
gradualmente rimborsata a partire dal 2027 e fino al 31 dicembre 2058.
E’ previsto dall’accordo un pre-finanziamento pari al 10% -per
l’Italia 20,9 miliardi- che dev’essere utilizzato per destinazioni in
linea coi programmi generali dell’Unione Europea.
Stiamo di conseguenza parlando di risorse che non saranno
disponibili prima della tarda primavera 2021, tempi non certo adatti ad
interventi di emergenza.
Le condizionalità dell’accordo
Il pasto non è gratis, tocca ripeterlo. E per ottenere i soldi del
Recovery Fund (tutti a prestito, a questo punto credo sia chiaro) il
percorso è irto di ostacoli, le famose condizionalità.
Per poter accedere ai fondi Ue l’Italia, così come gli altri Stati membri, deve predisporre un Recovery Plan,
un piano triennale (2021-2023), che andrà presentato in autunno. E che,
se anche verrà giudicato idoneo, sarà sottoposto a revisione nel 2022,
prima della ripartizione della tranche di fondi 2023.
I piani andranno predisposti, tenendo conto che il punteggio più alto di valutazione “deve essere ottenuto per quanto riguarda i criteri della coerenza con le raccomandazioni specifiche per Paese” (punto A19 dell’Accordo).
Le raccomandazioni cui si fa riferimento sono quelle del 2019,
essendo saltate, causa pandemia, quelle del 2020 e, per quanto riguarda
l’Italia, sono: riforma del fisco, riforma del lavoro,
riforma della giustizia, riduzione del debito cui vanno indirizzate
tutte le entrate straordinarie, taglio strutturale della spesa pubblica
pari a 0,6% del Pil.
Ovvero, il ritorno in grande spolvero della trappola del debito pubblico e delle politiche di austerità.
Se questa è una vittoria, meglio non pensare a quando arriverà una sconfitta.
Chi giudica e decide
Su indicazione della Commissione Europea, che avrà due mesi di tempo
per valutare i piani presentati dagli Stati, sarà il Consiglio Europeo a
decidere a maggioranza qualificata (55% dei Paesi pari al 65% della
popolazione) se approvare il piano. Il via libera è un atto di
esecuzione che il Consiglio adotta entro un mese dalla proposta. Ma
bisogna soddisfare i target intermedi e finali. Perciò la Commissione
chiederà al Comitato economico e finanziario se questi target vengono
conseguiti. Se in questa sede, “in via eccezionale”, qualche Paese
riterrà che ci siano problemi, potrà interrompere l’erogazione dei
finanziamenti, chiedendo di affrontare la specifica questione in una
riunione apposita del Consiglio Europeo. E’ il famoso “freno a mano” ottenuto dal ‘paradiso fiscale frugale’ dei Paesi Bassi per dare il via libera.
Un percorso sorvegliato passo dopo passo, che per un
Paese come il nostro, che già oggi ha un rapporto debito/pil intorno al
150%, rischia di riservare più di una brutta sorpresa.
Prima considerazione
Se è vero che in Europa si è finalmente aperto uno scontro sul
profilo dell’Unione Europea, occorre constatare come tale conflitto sia
rimasto totalmente all’interno di una visione liberista della dimensione
europea.
Prova ne è il fatto che nessuno abbia posto la necessità di affrontare il nodo principale: il ruolo della Banca Centrale Europea e la sua cosiddetta indipendenza (dall’interesse generale, non da quello dei mercati).
Rivendicare un carattere pubblico della Banca Centrale Europea
(analogo a quello di tutte le banche centrali del mondo), avrebbe
permesso a tutti gli Stati di dotarsi delle risorse necessarie, senza
ulteriori gravami sul debito pubblico e soprattutto senza le famigerate
condizionalità.
Seconda considerazione
Se è vero che l’Unione Europa ha evitato il tracollo arrivando a
sottoscrivere, dopo quattro giorni, un accordo, occorre constatare come
tale risultato ne peggiori il profilo di comunità politico-sociale e le
capacità d’intervento strategico sulle grandi sfide di questo tempo
Sotto il profilo politico, basti la
concessione ai cosiddetti Paesi di Visegrad (Ungheria e Polonia in
primis) di svincolare gli aiuti finanziari dal rispetto dello stato di
diritto.
Dal punto di vista della strategia d’intervento,
basti pensare che, con la nuova ripartizione fra trasferimenti e
prestiti (che abbassa notevolmente i primi e aumenta i secondi), vengono
tagliati fondi cruciali ai programmi congiunti europei, a partire da
quelli relativi alla transizione eco-sostenibile.
Dal punto di vista decisionale, si
riafferma, di fatto, un’Unione europea come mera giustapposizione di
Stati, ciascuno interessato al proprio interesse nazionale e in diretta
competizione con gli altri.
Contrariamente a quanto racconta la narrazione massmediatica, non
siamo di fronte a nessun cambio di paradigma nelle nostre istituzioni
europee.
Perché, dopo la pandemia niente sia davvero più come prima, diviene urgente, per il prossimo autunno, predisporre un Recovery Plan delle mobilitazioni sociali.
[1]È scritto nero su bianco sulla Table A1 Allocation Key, allegata al “Commission Staff Working Document“, (Brussels 27.5.2020, SWD(2020) 98 final).
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