Il bastone è per i pubblici dipendenti, identificati come causa dell’inefficienza dell’“azienda Italia”. Quelli da far contenti sono i politici che potranno avere dirigenti obbedienti e i Brunetta di turno: cioè chi pensa, e non sono pochi, “pubblici dipendenti = fannulloni”. Quanto al riordino verrà in un secondo tempo… Ma intorno alla Pubblica Amministrazione si accumula in realtà un groviglio di problemi che investe l’insieme della società italiana. Il primo è quello della produttività
L’Italia, si dice, continua a perdere posizioni nei confronti dei partner europei. Ma la produttività del lavoro si misura con il rapporto tra valore aggiunto (che aggregato a livello nazionale è il Pil) e ore lavorate. Ad aumentare queste (il denominatore) a parità di prodotto concorrono molti costi amministrativi (ingenti perché sono troppi, in termini di tempo e impegno di personale, gli adempimenti a cui fare fronte, dietro a cui si realizzano spesso vere e proprie estorsioni) e molte finte assunzioni di chi sta lì e non produce niente. Mentre a ridurre il valore aggiunto (il numeratore) concorre tutto ciò che viene registrato come costo diverso da quello del lavoro: sia le tangenti in senso stretto, nascoste sotto altre voci, che le regalìe e le consulenze di cui è gravato chiunque lavori in tutto o in parte per la pubblica amministrazione; poi i costi di un’urbanizzazione selvaggia (la logistica di un tessuto produttivo costruito senza piani non perdona) e quelli di una infrastrutturazione distorta perché il sistema dei trasporti manca di un disegno complessivo.
Sono tutte cose che dipendono dalla politica, ma che passano attraverso la pubblica amministrazione, incidendo spesso sul rendimento dell’impresa ben più del costo del lavoro o dei guadagni generati dagli investimenti.
Il secondo problema si chiama pubblico o privato?
Stato o mercato? Finché ci si attiene al dogma che privato è efficiente e pubblico no, non se ne esce. Perché l’intreccio tra pubblico e privato è talmente stretto – specie, ma non solo, quando sono in ballo opere e servizi pubblici o forniture connesse – che è impossibile distinguere tra l’uno e l’altro. Il pubblico, si dice, è sottoposto a tutte le pressioni della politica, del clientelismo, del familismo; non ha un criterio per misurare le sue performance, perché l’unico criterio valido è il profitto, cioè il rapporto costi-ricavi, a cui presta attenzione solo chi rischia in proprio un capitale. Per questo Renzi continua l’attacco dei suoi predecessori contro i servizi pubblici: per privatizzarli. Ora, solo per fare un esempio, confrontate quell’affermazione con questa: «il Mazzacurati spiega che il magistrato delle acque non è in grado di assumere 30 o 40 persone, ‘allora gliele assumiamo noi’». (Corriere della sera, 15.6.2014). «Noi» sta per Consorzio Venezia nuova, ente privato; il magistrato delle acque, invece, è un ente pubblico. E’ così dappertutto. Perché l’alternativa non è tra pubblico e privato; è tra pubblico e privato, da un lato, e comune, cioè trasparente e partecipato, dall’altro. Ci torneremo.
Il terzo problema si chiama merito
E’ l’ideologia ufficiale della competizione di tutti contro tutti, estesa dal mondo delle imprese a quello del lavoro. Ogni lavoratore deve mettersi in competizione con i suoi compagni: per un avanzamento o per evitare un arretramento, che può anche essere il licenziamento; e i lavoratori di ogni impresa devono mettersi in competizione con quelli di tutte le altre per non soccombere insieme alla loro impresa. La stessa logica si vuole introdurre nella PA. Il concetto di merito, che nasconde le diseguali condizioni di partenza, ma anche la diseguaglianza dei vincoli a cui si è soggetti o dei contesti in cui si opera, è ciò che dovrebbe decidere chi vince e chi perde e legittimarne il risultato. Ma chi decide del merito? La gerarchia, cioè chi si trova già “al di sopra”; e non per merito, ma per qualche altro motivo. Altrimenti con la storia del merito si risalirebbe all’infinito. Così, affidando ai dirigenti il compito di valutare se stessi e i propri dipendenti, non si fa che perpetuare i vizi che si pretende di correggere.
Il quarto problema si chiama spending review
Il governo deve cavare dalla spesa pubblica 30 miliardi in tre anni per far fronte ai vincoli di bilancio. Anzi, dal 2016 dovrà cavarne fuori altri 50 ogni anno per rispettare il fiscal compact. Come si fa? Si tagliano i servizi per ripagare debito pubblico e interessi e si affida ai dirigenti della PA il compito di decidere quali servizi sopprimere. Se non ci riescono si procederà con tagli lineari. In ogni caso la qualità del servizio pubblico peggiora drasticamente e così si potrà dire che privato è bello; anche nei casi, come la sanità, in cui il privato si regge interamente su soldi pubblici.
Come uscirne? Come ovunque, con una combinazione di partecipazione e conflitto. Partecipazione vuol dire che ad affrontare i problemi – inefficienza, corruzione, clientelismo, privilegi, opacità – e a definire le soluzioni non possono che essere, in forma condivisa, gli interessati: i dipendenti pubblici, ufficio per ufficio, in un confronto aperto con gli utenti e con la cittadinanza, che quel servizio lo pagano con le tasse, o con una loro rappresentanza. In ogni ospedale, un ufficio finanziario, un’anagrafe o una scuola – o qualcosa di presunto tale, come un Mose o un Expo – chi si trova a lavorare al suo interno o ai suoi confini ne sa abbastanza per ricostruire, in un confronto aperto con colleghi, cittadinanza attiva e utenti, un quadro di insieme di quel che succede.
Non si capisce perché solo Raffaele Cantone, e solo ora, debba avere accesso a dati come bandi, gare, contratti e bilanci che, resi noti a tutti per tempo e in forma leggibile, costituiscono uno dei presupposti ineludibili della democrazia: cioè la trasparenza; ovvero, open data, come la chiama Massimo Villone (il manifesto, 12.6.2014). Tesi con cui concordo, mentre dissento dall’altro rimedio proposto: il whisteblower, cioè affidare all’iniziativa del singolo la denuncia di ciò che non funziona o che è apertamente illegale, garantendogli adeguate protezioni. Naturalmente ben venga il whistleblower; ma quello di cui c’è bisogno è un’azione collettiva: la possibilità per i dipendenti, in contraddittorio con utenti e contribuenti, di entrare nel merito di come deve essere organizzato e funzionare il loro servizio e di che cosa deve essere soppresso, cambiato, o denunciato come illegale. Naturalmente nel rispetto delle competenze specialistiche, che devono però essere anche loro sottoposte a un contraddittorio tra pari. (In un contesto del genere diventerebbe più semplice anche affrontare la mobilità interna: liberare gli uffici affollati da personale inutile, perché inutili sono le pratiche e le attività che svolge, per trasferirlo su base volontaria, con decisioni condivise e con adeguati percorsi di formazione, ad altri servizi). Si tratta nel complesso di un’opera di autoeducazione alla condivisione delle responsabilità e un presupposto essenziale per rifondare dal basso la democrazia. Ed è anche l’unico metodo efficace per riportare la spesa pubblica non entro i parametri del fiscal compact, ma entro quelli della sostenibilità sociale e ambientale. Il Mose dovrebbe insegnarlo.
Utopia? No. C’è anche chi ha già cercato di mettere in pratica questa linea di condotta di elementare buon senso. Due anni fa avevo avanzato su questo giornale una proposta del genere. Mi aveva risposto una dipendente del Comune – guarda caso! – di Venezia, documentando un’iniziativa simile che aveva preso con numerosi colleghi: avevano fatto parecchie riunioni e messo a punto altrettante proposte; ma il processo era stato ben presto bloccato dalla dirigenza. In quella lettera non si parlava del Mose. Ma è chiaro che un Comune che da anni si regge in quel modo, un processo di condivisione del genere non se lo poteva permettere.
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