lunedì 23 giugno 2014

Libro. Il triangolo ribelle.

Scaffale. Storia e immaginario del gesto femminista più usato: quel segno della vagina che è diventato un simbolo per tutte le donne in lotta. Un estratto dal saggio contenuto nel libro pubblicato da DeriveApprodi.

controlacrisi.org Laura Corradi
Dif­fi­cile rin­trac­ciare la genesi poli­tica di tale segno, era come se vi fosse sem­pre stato. Alcune ne attri­bui­vano l’origine al movi­mento fem­mi­ni­sta nor­da­me­ri­cano, quasi per abi­tu­dine: così come era arri­vata la musica della West Coast e altri ele­menti cul­tu­rali diven­tati subito di moda. Eppure, que­sta ipo­tesi non mi con­vin­ceva a livello di espe­rienza per­so­nale: negli anni in cui ho vis­suto negli Stati Uniti non mi è mai capi­tato di vedere esi­bi­zioni del segno della vagina in mani­fe­sta­zioni di donne. Dun­que, dovevo veri­fi­care, pro­ce­dere per esclu­sione. Oltreo­ceano, le fem­mi­ni­ste che ho inter­pel­lato mi hanno rispo­sto di non aver mai notato que­sto segno nelle mani­fe­sta­zioni dell’epoca in Nord-America. Mary Haw­ke­sworth, diret­trice della rivi­sta di semio­tica fem­mi­ni­sta Signs, mi scrive che non ricorda di aver visto il «segno V» in occa­sione delle mani­fe­sta­zioni fem­mi­ni­ste degli anni Ses­santa, Set­tanta e nem­meno negli Ottanta. Certo, anche negli anni Set­tanta gira­vano nel movi­mento molte rap­pre­sen­ta­zioni dei geni­tali fem­mi­nili – tra cui i più spet­ta­co­lari quelli del Din­ner Party di Judy Chi­cago. Il segno fem­mi­ni­sta si asso­cia, invece, alle mobi­li­ta­zioni suc­ces­sive alla pub­bli­ca­zione del testo di Eve Ensler, Mono­lo­ghi della vagina e alle più recenti mani­fe­sta­zioni con­tro la vio­lenza alle donne.

La Ensler ha lan­ciato il «V-day» nei cam­pus ame­ri­cani nel 2000. La scelta della V come sim­bolo di quelle lotte è stata deter­mi­nata, secondo la nar­ra­zione di Haw­ke­sworth, anche da altri ele­menti: il segno della vit­to­ria, che pro­viene dalla Seconda guerra mon­diale, e il Valen­tine Day eletto come giorno per mani­fe­stare. Per dirlo con le sue parole, «vagine, vio­lenza e la visione fem­mi­ni­sta di una vit­to­ria che metta fine alla vio­lenza con­tro le donne». Altre ami­che fem­mi­ni­ste nor­da­me­ri­cane con­fer­mano di aver visto il segno nei V-day oppure nelle foto e nei docu­men­tari sul fem­mi­ni­smo euro­peo degli anni Set­tanta. A quel punto, sono in un vicolo cieco. Non è stato gene­rato in Usa, que­sto segno dalla pro­ve­nienza sfug­gente – il che non esclude che sia stato uti­liz­zato anche in que­gli anni, ma di certo non è stato un ele­mento distin­tivo del fem­mi­ni­smo ame­ri­cano. Riprende forza l’ipotesi di una ori­gine euro­pea del segno – ma da dove par­tire? È arri­vato dalla Sve­zia o dalla Fran­cia o dalla Gran Bre­ta­gna? Sicu­ra­mente non dalla Spa­gna, ancora sotto la dit­ta­tura fran­chi­sta… Ma deve esserci stato un punto di approdo: chi sono state le prime a usarlo in Ita­lia? Così, rico­min­cio dalle com­pa­gne del movi­mento fem­mi­ni­sta romano, per più motivi.
La tra­di­zione di mobi­li­ta­zioni pub­bli­che delle donne della capi­tale risul­tante da una tra­di­zione anti­go­ver­na­tiva di cor­tei e pro­te­ste mag­giori rispetto alle altre città, come ha messo in luce Paola Bono durante l’intervista. E anche l’esistenza di un sen­ti­mento anti­cle­ri­cale – con un tar­get molto visi­bile: l’epicentro della cul­tura patriar­cale che soprav­vive nel cri­stia­ne­simo, il Vati­cano, vis­suto dalle donne come grande signi­fi­cante dispo­tico, se posso usare un ter­mine laca­niano. La chiesa cat­to­lica, in effetti, è stata un ber­sa­glio delle ini­zia­tive fem­mi­ni­ste fin dall’inizio del movi­mento – che ha tro­vato una forte spinta pro­pul­siva nella bat­ta­glia refe­ren­da­ria con­tro l’abrogazione del divor­zio – vinta gra­zie allo scol­la­mento delle donne cat­to­li­che dai dik­tat dei preti. Il Vati­cano, il mora­li­smo bigotto, la demo­cra­zia cri­stiana, erano oggetto di una serie di invet­tive: «Tre­mate tre­mate le stre­ghe son tor­nate». Forse il segno non ha una pro­ve­nienza fem­mi­ni­sta, ma è stato coniato poli­ti­ca­mente come pro­vo­ca­zione anti­cle­ri­cale, forse dalle radi­cali del Cisa, o dalle lesbi­che sepa­ra­ti­ste… Il punto di svolta nella ricerca è rap­pre­sen­tato dall’incontro con Edda Billi, dell’Associazione Fede­ra­zioni Fem­mi­ni­ste Ita­liane; in un’intervista mi rac­conta del segno «del trian­golo»: forse nato durante una mani­fe­sta­zione, una riu­nione… in que­gli anni si cer­cava un gesto fem­mi­ni­sta da giu­stap­porre al pugno chiuso, che ne avesse la stessa forza simbolica.
L’occasione sem­bra essersi pre­sen­tata quando «all’inizio degli anni Set­tanta un gruppo di una decina di fem­mi­ni­ste del col­let­tivo di Pom­peo Magno a Roma si reca­rono a Parigi per un con­ve­gno – il primo sui cri­mini con­tro le donne. Si teneva alla Mutua­lité, era un posto gran­dis­simo dove c’erano migliaia di per­sone, tutte sedute a terra, al micro­fono poteva par­lare chiun­que; ad un certo punto sono inter­ve­nute insieme due donne: Gio­vanna e una com­pa­gna greca che si chia­mava Ron­nie sono salite sul palco a par­lare di lesbi­smo… poi hanno fatto quel segno». Gra­zie ad Edda Billi ho tro­vato il ban­dolo della matassa: Gio­vanna Pala, subito rin­trac­ciata e inter­vi­stata, mi ha rac­con­tato le sue memo­rie di quella prima volta. Ho cer­cato nel mara­sma dei miei ricordi la ragione per cui quel sim­bolo… mi colpì tanto il giorno che lo vidi pub­bli­cato sulla rivi­sta di un gior­nale fran­cese fem­mi­ni­sta. Certo, chi lo dise­gnò ebbe una intui­zione geniale (…). «Le Tor­chon Brûle» è il titolo del gior­nale fran­cese dove io vidi quel sim­bolo per la prima volta, ne usci­rono solo 5 numeri, tra il ’71 e il ’73. Ripen­san­doci oggi, a distanza di tanti anni, penso che ne rimasi emo­ti­va­mente col­pita per l’immediatezza del mes­sag­gio che poteva comu­ni­care «la forma della vagina!». Un mes­sag­gio con tanti signi­fi­cati: sfida, orgo­glio, auto­gra­ti­fi­ca­zione. (…) Siamo a Parigi con alcune com­pa­gne nella grande sala della Mutua­lité – quat­tro o forse cin­que­mila per­sone, uomini e donne. Sono le quat­tro gior­nate inter­na­zio­nali di denun­cia dei cri­mini con­tro le donne pro­mosso da Choi­sir (sce­gliere) un’associazione per la libe­ra­liz­za­zione dell’aborto. C’era un’atmosfera carica di pathos. Sul palco, una serie infi­nita di donne vio­len­tate, sfrut­tate, abban­do­nate con figli nell’indigenza, per­se­gui­tate dalla legge e obbli­gate alla pro­sti­tu­zione, lesbi­che rin­chiuse in mani­comi, dipen­denti licen­ziate per­ché ave­vano rifiu­tato le avan­ces del capo. Cri­mini e discri­mi­na­zioni di tutti i tipi, dai più comuni ai più effe­rati. Fac­ciamo anche noi un inter­vento, mi pro­pose Ron­nie e io dissi: sì, andiamo a dire che siamo lesbi­che! (…). Ricordo che nei giorni suc­ces­sivi l’atmosfera si era ras­se­re­nata. Messe da parte le testi­mo­nianze ci furono inter­venti di Simone de Beau­voir e di altre per­so­na­lità della poli­tica di sini­stra, alter­nate a per­for­mance musi­cali di donne, fil­mati e testi reci­tati. E pro­po­ste con­crete di azioni e stra­te­gie. Alcuni ragazzi alza­rono verso il palco il clas­sico sim­bolo mar­xi­sta del pugno chiuso, e istin­ti­va­mente mi venne di con­giun­gere le mani, pol­lice e indice uniti a creare il sim­bolo della vagina. Mi pareva, con quel gesto di pren­dere le distanze dalla poli­tica maschile e di affer­mare la mia diversità.
Tor­nata a Roma, ripe­tei il gesto alla prima mani­fe­sta­zione e il mes­sag­gio fu imme­dia­ta­mente rece­pito da tutte le donne pre­senti. In pochi mesi migliaia di donne in tutta Ita­lia mani­fe­sta­vano con quel sim­bolo. E il set­ti­ma­nale L’Espresso, che era ancora formato-paginone, uscì con una mia grande foto in coper­tina e il sim­bolo da quel momento fu adot­tato in molte altre mani­fe­sta­zioni in tutta Ita­lia… Poi, quando deci­demmo di pub­bli­care Don­nità, che curai insieme ad alcune com­pa­gne, misero le mie mani foto­gra­fate da Carol Spec­tor sulla coper­tina. Quella che nei paesi anglo­foni è stata defi­nita «Vagina pro­test», invece, è un feno­meno più recente: pur avendo radici nel fem­mi­ni­smo, le donne che si mobi­li­tano tal­volta defi­ni­scono se stesse come non fem­mi­ni­ste – altre met­tono a segno azioni di guer­ri­glia semio­tica e si auto­no­mi­nano Vagina War­riors. Que­sto movi­mento si è for­mato attorno alla neces­sità di ri-significare ed emen­dare un lin­guag­gio degra­dante e vio­lento nei con­fronti delle donne – spesso iden­ti­fi­cate con i loro geni­tali in forme vol­gari o vez­zeg­gia­tive, sem­pre infe­rio­riz­zanti – e ha per bib­bia il testo di Eve Ensler, Vagina Mono­lo­gues, diven­tato molto popo­lare nei cam­pus a metà anni Novanta. Invita a una rifles­sione poli­tica sulla vio­lenza e sul pia­cere, dando voce ai geni­tali fem­mi­nili: omessi o deni­grati nelle pra­ti­che discor­sive domi­nanti, che ancora vogliono ridurre le donne a un ruolo ripro­dut­tivo che molte rifiutano.

Nessun commento:

Posta un commento