La presidente della commissione Affari costituzionali del Senato in un'intervista a Repubblica ripaga con la stessa carta chi le aveva attribuito il ritorno dello scudo dopo la cancellazione nella bozza del governo: ''L'esecutivo ha vistato due volte i nostri emendamenti, compreso quello sull'immunità. Conosceva il testo, sapeva tutto. Ha fatto una scelta". E nel Pd le frizioni aumentano.
“Scaricabarile“. “Protezione necessaria”. “Noi non la vogliamo”. “Se è un problema, si può togliere”. Il patto che unisce Pd, Lega, Forza Italia e Ncd sull’altare del nuovo Senato si divide sulla questione dell’immunità per sindaci e consiglieri regionali che secondo l’intesa tra Renzi e Forza Italia siederanno a Palazzo Madama. Prese di posizione e pareri in ordine sparso, ma soprattutto veleni interni. Che lacerano innanzitutto il Partito democratico. Dopo le accuse della minoranza, questa volta è direttamente Anna Finocchiaro a sparare ad alzo zero. La presidente della commissione Affari costituzionali del Senato (che insieme a Roberto Calderoli è colei che ha depositato l’emendamento che abroga l’articolo 6 del testo del governo) non ci sta ad essere indicata come la fautrice dello scudo per gli amministratori locali che diventeranno senatori e in un’intervista a Repubblica ripaga con la stessa carta (e con toni infuocati) chi le aveva attribuito il ritorno della protezione. L’obiettivo delle sue accuse, neanche a dirlo, è il governo. ”L’esecutivo ha vistato due volte i nostri emendamenti, compreso quello sull’immunità. Conosceva il testo, sapeva tutto. Ha fatto una scelta”, ha spiegato la Finocchiaro, che poi ha ricostruito non solo il timing, ma anche ciò che inizialmente prevedeva il suo progetto.“Io avevo proposto che a decidere sulle autorizzazioni all’arresto e alle intercettazioni dovesse essere una sezione della Consulta e non il Parlamento – ha sottolineato – valeva sia per il Senato sia per la Camera. E’ una proposta di legge che ho presentato in questa legislatura e anche nella precedente”. Il suo disegno, però, è scomparso. Almeno a suo dire: “Stavolta l’avevo scritta in un emendamento, che è sparito dal testo perché il governo ritiene che non si debba appesantire il lavoro della Corte costituzionale“. Poi i veleni, con la Finocchiaro “disgustata dallo scaricabarile”. “Cosa vogliono da me? Vogliono dire che la Finocchiaro protegge i corrotti e i delinquenti? Ma stiamo scherzando. E’ questo il loro giochino? Sono disgustata”, ha attaccato la senatrice, che poi ha rivelato: “Sto pensando di proporre addirittura un emendamento al mio emendamento per far passare l’idea del rinvio alla Corte. Sono favorevole anche a uno scudo valido solo per le espressioni e i voti dati in aula. Risponderò così a questo fastidioso scaricabarile su di me. Però – ha osservato – è incredibile che tutto si riduca all’immunità: abbiamo fatto un lavoro pazzesco tutti insieme, ne è venuto fuori un Senato vero ma innovativo”.
L’ira funesta della Finocchiaro, per ora, non trova sponde né provoca reazioni scomposte all’interno dell’esecutivo. Se ieri Maria Elena Boschi aveva parlato di “punto non centrale”, sulla stessa linea d’onda il premier Matteo Renzi, che ai suoi ha offerto una posizione chiara: l’immunità per i senatori non è fondamentale, al contrario del buon esito della riforma. Ergo: se lo scudo è un problema, lo si può tranquillamente togliere. La pensa così anche il capogruppo del Pd alla Camera, Roberto Speranza: “Non mi sembra un problema centrale, nella strada verso le riforme. Anche perché alla Camera è già prevista” ha detto al Corriere della Sera, sottolineando che “è giusto che il Senato approfondisca. Dipende dalle funzioni che devono avere i senatori, e ci sono due elementi di contraddizione che vanno valutati: da una parte, con l’immunità, i sindaci e i consiglieri che fanno parte del Senato sarebbero diversi dai loro colleghi; dall’altra, senza immunità si stabilirebbe una differenza tra Camera e Senato“. Il politico lucano, poi, ha spostato il campo d’azione “sul percorso delle riforme, dove c’è ancora del lavoro da fare”. In tal senso per Speranza “il testo dell’Italicum può essere migliorato intervenendo su tre punti. La questione di genere, che era stata accantonata. Le soglie di accesso, o di sbarramento, che secondo me sono troppo alte. Il rapporto tra elettore ed eletto. Preferenze o collegi, l’importante è che si superino le liste bloccate”. Riassumendo ‘renzianamente’: immunità da togliere senza problemi se diventa un freno al cambiamento e alle riforme. Facile a dirsi, molto meno a farsi. Per due motivi: perché la minoranza interna al partito e gli altri protagonisti del patto (oltre ai tecnici di Palazzo Madama) non la pensano così.
Il governo tira dritto. “Sul tema dell’immunità sarà il Senato a decidere senza alcun pregiudizio”: lo ha detto il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Maurizio Lupi. “Il tema non è l’immunità, ma è quello di fare le riforme” ha aggiunto Lupi, sottolineando che “sul nuovo Senato finalmente si passa dalla parole ai fatti per le riforme. L’accordo è stato raggiunto tra la maggioranza e alcune forze dell’opposizione”. Secondo il ministro “l’immunità è un tema legato alla funzione che il Senato deve avere. Se deve essere la stessa della Camera, oppure no, ne discuteremo a Palazzo Madama”.
A farsi portavoce del malumore democratico è, come spesso accade negli ultimi tempi, Vannino Chiti. “L’immunità per sindaci e consiglieri regionali non solo non ha senso, ma diventerebbe anche molto rischiosa perché si estenderebbe all’attività amministrativa, all’azione di quel consigliere regionale-senatore, di quel sindaco-senatore. Così, in un Paese come l’Italia, si amplia la sfera della non trasparenza e aumenta il rischio dell’illegalità”. Intervistato da Repubblica, il senatore Pd Vannino Chiti annuncia emendamenti per cancellare l’immunità, “sia per i deputati che per i senatori”. “L’immunità non può essere estesa a consiglieri regionali e sindaci, non può esserci una differenza rispetto all’immunità tra deputati e senatori, quindi l’unica via è superare il problema abolendo il secondo comma dell’articolo 68″, afferma Chiti. “Con leggi fortemente maggioritarie come ormai sono quelle elettorali, il secondo comma, e cioè l’autorizzazione delle Camere sulla privazione della libertà personale, appare sempre più affidato a una ragione politica, cioè ai rapporti di forza. Se proprio si vuole mantenere l’autorizzazione, essa dovrebbe essere lasciata a una sezione speciale della Corte costituzionale che dovrebbe nascere appositamente”.
Se la minoranza dem attacca il governo per togliere l’immunità, non la pensano così gli alleati del ‘patto per le riforme’. A cominciare dalla Lega Nord. “Io terrei l’immunità solo per fatti riconducibili all’attività legislativa e politica del senatore che è anche sindaco o consigliere regionale”, ha detto alla Stampa Matteo Salvini, secondo cui “se piglio una mazzetta devo essere arrestato, punto e basta, anche se mi mandano a Palazzo Madama”. La spiegazione del leader del Carroccio, tuttavia, è condita da una valutazione politico-giudiziaria: “Se l’immunità viene estesa senza limiti non mi piace. Detto questo, in linea di principio io sono a favore a una tutela del parlamentare. In questi 20 anni ho visto troppi nostri sindaci e assessori comunali arrestati e poi rilasciati perché è emerso che non c’era nulla a loro carico. Ma intanto – ed è qui che Salvini ha alzato il tiro – sono stati rovinati da magistrati che non rispondono mai dei loro errori e messi alla gogna e nel tritacarne mediatico”. Tradotto: “Sono favorevole alla responsabilità civile dei magistrati“.
Nessun commento:
Posta un commento