Mettere insieme il piano dei diritti con quello delle conquiste sociali, e il piano della democrazie con quello delle minoranze. Val la pena – per chi la conosce e per chi no – di indagare a ritroso nell’esperienza quanto mai attuale di Bianca Guidetti Serra, classe 1921, scomparsa nei giorni scorsi. Avvocata, impegnata in politica, infine presidente con Bobbio del Centro Piero Gobetti.
“Mi ha sempre interessato l’aula giudiziaria come luogo dei diritti in movimento, del confronto tra le istanze della società e i rapporti codificati di potere, di una dialettica tra le parti che tende a discutere e a ridefinire i confini di ciò che si intende per giusto o ingiusto della vita sociale.”
“Nel mestiere e nella militanza ho cercato di far valere contro la legge del più forte i diritti dei più deboli. Non mi sono mai sentita antagonista per principio: quando mi sono battuta contro qualcuno era per difendere qualcun altro. Mi è piaciuto il fare e ho fatto quel che ho potuto cercando sempre di essere me stessa. Nel mio operare ho anteposto i fatti concreti ai discorsi, la moralità delle persone alle idee. Non sono scontenta della mia vita non ho particolari rimpianti o rammarichi. Ne ho raccontato tutto il percorso lungo quasi un secolo tra le tante storie di giustizia ingiustizia che mi hanno coinvolto non solo professionalmente e in cui ho trovato un senso da dare al tempo che mi è toccato in sorte”.
Sono frasi tratte dalle ultime pagine della sua autobiografia ’Bianca la Rossa’. Nella quale ci sono tante cose. Anche sorprendenti come la curiosità umana – tutt’altro che revisionista – che spinse Bianca a esplorare la vicenda delle donne che collaborarono con la Repubblica Sociale.
Bianca è stata una strettissima amica della mia famiglia, per molti anni per me come una zia. Voglio spingere me stesso e compagni e amici a ricordare e far vivere il senso della sua esperienza originale e per molti versi attualissima.
Aggiungo il testo quasi integrale del discorso tenuto dalla sua “co-biografa” Santina Mobiglia alle cerimonia funebre.
Bianca amava dire: “Al mio funerale non piangete, perché sono contenta della mia vita. Ho avuto una vita indipendente, ho fatto quello che volevo, le cose in cui credevo, e ho avuto la fortuna di fare un lavoro che mi piaceva”.
Bianca si sentiva realizzata
soprattutto come avvocato, un lavoro che ha svolto con passione, fuori
dalla routine, in modo generoso e militante, sempre in difesa dei più
deboli.
Con Bianca, che pure conoscevo
da tempo, ho avuto la fortuna e il piacere di passare almeno un
pomeriggio alla settimana per oltre un anno (2008-09) per scrivere la
sua autobiografia (Bianca la rossa, un titolo editoriale che non le
piaceva perché non si considerava una pasionaria).
E
tra le fortune della sua vita elencava anche le amicizie, prime su
tutte quella con Primo Levi, conosciuto fin dal tempo del liceo insieme
ad Alberto Salmoni che sarebbe poi diventato suo marito, e quella con
Ada Gobetti, nata durante la Resistenza, al tempo delle cosiddette
“gite” in Val Chisone in cui combinavano il ruolo di staffette
partigiane alle visite l’una al figlio Paolo l’altra al fidanzato
Alberto che militavano nella stessa banda GL. E proprio Ada, nella sua
veste di vice-sindaco, avrebbe celebrato in questo Palazzo il matrimonio
tra Bianca e Alberto il 15 maggio 1945 (1° matrimonio civile dopo la
Liberazione).
Si convinse a scrivere l’
autobiografia, dopo qualche esitazione, con l’idea di lasciare
testimonianza di una storia collettiva fatta da tante persone anonime
che ha voluto ricordare con nome e cognome (come la vedova del
bracciante del Sud ucciso dalla polizia durante l’occupazione delle
terre o gli operai che dopo esserne stati vittime hanno cominciato a
denunciare le “fabbriche della morte”, la nocività dentro e fuori
l’ambiente di lavoro).
Come per
le Compagne di cui aveva voluto raccogliere le testimonianze nella sua
imponente opera pionieristica di storia orale, anche la biografia di
Bianca è uno spaccato di storia italiana del Novecento di cui è stata
protagonista in molti modi che non possiamo ora ripercorrere e
conosciamo tutti bene (dalla Resistenza alla militanza nel Pci fino alla
dolorosa rottura del ’56, al lavoro nel sindacato, ai grandi processi
degli anni ’70, all’impegno nelle associazioni – di cui sono un esempio
quelle fondate con Francesco Santanera per la riforma della legge sulle
adozioni e in difesa dei minori maltrattati negli istituti – attraverso
cui riusciva a coniugare la battaglia per una causa giusta con
l’esercizio della difesa processuale). Ha saputo dare l’esempio di una
pratica professionale del diritto come terreno per l’allargamento dei
diritti.
Mi diceva: “Sai, ho proprio
lavorato molto per oltre 50 anni”, e la mole di lavoro che è riuscita a
concentrare spesso negli stessi anni è davvero imponente, come dimostra
il suo Archivio, ricca messe di fonti per la Storia giudiziaria ma anche
per la Storia sociale del nostro paese (data la natura delle cause
patrocinate).
Nei suoi racconti mi ha
sempre colpito la distanza tra l’importanza delle vicende di cui è stata
protagonista e la semplicità e modestia del tono e del modo di
presentarle.
La sua cifra personale è
stata quella della sobrietà, dell’assenza di enfasi anche nella memoria.
C’è una sua frase che ne è un perfetto ritratto: “Mi è piaciuto il
fare, e ho fatto quello che ho potuto, cercando sempre di essere me
stessa […]. Nel mestiere e nella militanza ho cercato di far valere,
contro la legge del più forte, i diritti dei più deboli. Non mi sono mai
sentita antagonista per principio; quando mi sono battuta contro
qualcuno, era per difendere qualcun altro”.
Non
esibiva certezze politiche e tanto meno ideologiche. Le sue erano
certezze morali su ciò che considerava giusto o ingiusto, da cui
conseguivano le scelte politiche (fin dalla scelta antifascista, che
fece da giovanissima per reazione alle leggi razziali, di cui vedeva i
soprusi che imponevano ai suoi amici ebrei). Dall’attività politica,
dopo il periodo entusiasmante della Resistenza e dei gruppi femminili
(di cui con Ada Gobetti organizzò la rete clandestina torinese), aveva
tratto sempre meno soddisfazioni rispetto all’attività professionale.
Anche nelle esperienze istituzionali, soprattutto in Parlamento (“in
politica si parla troppo e si ascolta poco”), mentre più a suo agio in
Consiglio comunale, forse perché su temi più concreti.
Negli
ultimi tempi un tema fisso su cui interrogava e si interrogava era la
“democrazia”, intesa come capacità di convivere con gli altri, tra
diversi e anche avversi, confrontandosi in modo aperto per trovare
tuttavia una risoluzione regolata dei conflitti, senza sopraffarsi: “È
un progetto di libertà al plurale” diceva “che per una sua realizzazione
in senso pieno considero inscindibile dalla giustizia anche sul terreno
sociale”. “La democrazia si impara facendola, e bisogna ammettere che
siamo ai primordi” concludeva, dicendo che siamo apprendisti di un
processo in costruzione, che può esaurirsi se si perde il filo delle sue
ragioni e ne vedeva i limiti e i pericoli.
Era
una donna limpida, coraggiosa e determinata, mai settaria nel suo
sguardo sempre rispettoso delle persone e attento ai contesti (anche
quelli in cui maturavano scelte non condivise: donne collaborazioniste,
terroriste, banda Cavallero).
Voglio
concludere ricordando come Bianca amasse anche i piccoli piaceri della
vita: il bicchiere di vino “rosso” che il figlio Fabrizio non le ha mai
fatto mancare fino all’ultimo , i “torcetti” torinesi che offriva con
il tè al pomeriggio, il “ballo” in cui l’abbiamo vista volteggiare
ancora alla sua festa dei 70 anni…
Se riusciremo a non piangerti, cara Bianca, comunque ti rimpiangeremo e certamente non ti dimenticheremo.
Consiglio anche questo ricordo di Diego Novelli
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