deriveapprodi.org
Storie che provano a restituire voce alle ragioni ammutolite dalla Storia scritta. Storie del tradimento di saperi, dell’inganno del progresso mercantile, del grande affare delle guerre, della rottura del patto con la vita e del prezzo per non averne difeso le condizioni. Storie di sfiduciata resistenza, di subordinate aspettative, di imprevidenza di morte per vanagloria di crescita illimitata.
Tre donne che si passano il testimone nel racconto del rapido consumarsi della civiltà dell’illimitato sfruttamento di ogni risorsa. La stessa che continua a promettere futuro, felicità e benessere, a vendere il proprio modello a chi oggi ne sta seguendo le orme, dopo aver brutalmente compromesso con i suoi punti di non ritorno la riproduzione di un’impronta umana nella vita del pianeta. Dopo aver sterilizzato nei registratori di cassa libertà, diritti, comunanze e mascherato la sua offerta di ogni miseria con gli ammiccamenti alle virtù della sudditanza.
Tre donne che chiudono in un circolo virtuoso le battaglie di una manciata di generazioni per mantenere il senso di sé e il legame con i fondamenti dell’esistenza. Nel silenzio, nell’ascolto, nella riconoscenza verso chi ha tracciato un percorso forse ancora praticabile.
Un Assaggio
Mi sveglio di lunedì.
Se solo sapessi come fare ricomincerei. Potrei spalancare la porta e cogliere di sorpresa il mondo di fuori. Lo faccio e mi ritrovo in uno dei cerchi di Babele senza un codice, né un alibi. Nessuno più a pretendere il rispetto di un obbligo, nessuna porta carraia a imporre la direzione.
Di troppa aria si può soffocare.
La testa è leggera ma non libera. I sensi, ognuno per suo conto, sconnessi dal mio sentire. Quello che vedo non mi mette al corrente, quello che annuso non mi ricorda, quello che tocco non ha forma.
Disabitudine al corso breve della vita. Alle giornate con le chiavi in tasca. Mi dico che se provo a stare in superficie forse non annego. Che i filamenti della memoria non mi tireranno giù se mi concentro sui particolari.
Vado al mercato. La borgata mostra ferite antiche, tra cumuli di ingiustizie accanite. Giro tra i banchi e le cassette di merci. Confronto prezzi e colori ma le facce raccontano storie e la materialità dell’odio dei potenti si fa strada fino a riempire la scena. Le ragioni d’esistenze umiliate, tutte presenti.
Il viaggio, anche a bagaglio ridotto, riprende. Ancora sospinta tra rovine e futuro dalla stessa tempesta che impigliava le ali dell’angelo della storia.
Da capo. Ancora più indietro.
Tante le stazioni, diversi i paesaggi e gli accenti. Ogni volta un approdo che sembra buono, fino a sentire l’argine franare sotto l’impazienza dei piedi. A pensarci, da tanto non so più da dove vengo. Forse da una barca portoghese di pescatori di corallo lungo le coste della Calabria. Forse dai monti del biellese con gli eretici di Dolcino sfuggiti all’inquisitore. O dai fecondi altopiani kenioti, in fuga dai predoni bianchi.
Le vicende del mondo mi sono entrate dentro, mi hanno attraversata come una carta geografica aperta, e mi sono ritrovata in ogni Vietnam senza attraversare nessuna frontiera. In ogni piega della grande avventura umana ho messo su casa, orientando la porta d’ingresso verso la sorgente del sole. Sapevo di essere sulla strada e non volevo farmi trovare da un’altra parte quando sarebbe arrivato il futuro. Quei raggi di ogni dove mi hanno raggiunta, contaminata. L’anima ne è uscita tanto solcata da poterci passare le dita dentro e la pelle scurita, ispessita, meticcia.
Ancora incompiuto il racconto.
Tre generazioni di donne per riallacciare il filo delle mie origini incerte.
Se solo sapessi come fare ricomincerei. Potrei spalancare la porta e cogliere di sorpresa il mondo di fuori. Lo faccio e mi ritrovo in uno dei cerchi di Babele senza un codice, né un alibi. Nessuno più a pretendere il rispetto di un obbligo, nessuna porta carraia a imporre la direzione.
Di troppa aria si può soffocare.
La testa è leggera ma non libera. I sensi, ognuno per suo conto, sconnessi dal mio sentire. Quello che vedo non mi mette al corrente, quello che annuso non mi ricorda, quello che tocco non ha forma.
Disabitudine al corso breve della vita. Alle giornate con le chiavi in tasca. Mi dico che se provo a stare in superficie forse non annego. Che i filamenti della memoria non mi tireranno giù se mi concentro sui particolari.
Vado al mercato. La borgata mostra ferite antiche, tra cumuli di ingiustizie accanite. Giro tra i banchi e le cassette di merci. Confronto prezzi e colori ma le facce raccontano storie e la materialità dell’odio dei potenti si fa strada fino a riempire la scena. Le ragioni d’esistenze umiliate, tutte presenti.
Il viaggio, anche a bagaglio ridotto, riprende. Ancora sospinta tra rovine e futuro dalla stessa tempesta che impigliava le ali dell’angelo della storia.
Da capo. Ancora più indietro.
Tante le stazioni, diversi i paesaggi e gli accenti. Ogni volta un approdo che sembra buono, fino a sentire l’argine franare sotto l’impazienza dei piedi. A pensarci, da tanto non so più da dove vengo. Forse da una barca portoghese di pescatori di corallo lungo le coste della Calabria. Forse dai monti del biellese con gli eretici di Dolcino sfuggiti all’inquisitore. O dai fecondi altopiani kenioti, in fuga dai predoni bianchi.
Le vicende del mondo mi sono entrate dentro, mi hanno attraversata come una carta geografica aperta, e mi sono ritrovata in ogni Vietnam senza attraversare nessuna frontiera. In ogni piega della grande avventura umana ho messo su casa, orientando la porta d’ingresso verso la sorgente del sole. Sapevo di essere sulla strada e non volevo farmi trovare da un’altra parte quando sarebbe arrivato il futuro. Quei raggi di ogni dove mi hanno raggiunta, contaminata. L’anima ne è uscita tanto solcata da poterci passare le dita dentro e la pelle scurita, ispessita, meticcia.
Ancora incompiuto il racconto.
Tre generazioni di donne per riallacciare il filo delle mie origini incerte.
Nessun commento:
Posta un commento