Gli italiani governati da un premier thatcheriano. Ieri sudditi degli
Usa, oggi della Ue e del suo neoliberismo economico. Di cui Matteo
Renzi, leader carismatico e assolutista, altro non sarebbe che il
cavallo di Troia. L’analisi del guru della New Left.
colloquio con Perry Anderson di Leonardo Clausi, da L'Espresso, 20 giugno 2014
Perry
Anderson non la manda a dire. L'ultimo saggio sulla "London Review of
Books" dell'insigne storico inglese, nume tutelare della New Left, è una
lucida scorreria nella storia italiana recente. S'intitola, senza
troppi guizzi metaforici, "The Italian Disaster",
Ma anziché essere l'ennesima geremiade sulla presunta incapacità civile
e culturale del Paese di assurgere a membro virtuoso del consesso
europeo, il saggio di Anderson individua l'origine dei mali negli stessi
principi inerenti alla governance dell'Unione europea, ai quali
l'Italia è stata finora recalcitrante: soprattutto quel neoliberismo
economico saldamente agganciato alla marginalizzazione della politica e
della sua rappresentanza. Di questo neoliberismo Matteo Renzi, leader
carismatico e assolutista di un partito alla cui tradizione politica è
del tutto alieno, altro non sarebbe che il cavallo di Troia. Ne consegue
l'analisi puntigliosa di varie tappe della storia italiana recente,
dalla fine di Tangentopoli sino al crollo di Berlusconi, fortemente
voluto da Bruxelles attraverso la presidenza di Napolitano, e
all'abbraccio di Renzi come ultima spiaggia di fronte alla disorientante
eterodossia del fenomeno Grillo. Ad Anderson abbiamo rivolto una serie
di domande.
Lei ha scritto di una deriva degenerativa
della democrazia in Europa e di una corruzione pervasiva della sua
classe politica. Sono sviluppi strutturali, o piuttosto un deficit
momentaneo di volontà e di moralità?
«Non è facile
giudicare quanto profondo sia diventato l'effettivo radicamento di
simili tendenze. Quel che è chiaro finora è che le forze che avrebbero
potuto contrastarle restano sparse e deboli. In Italia sono state,
naturalmente e a lungo, personificate entrambe da Berlusconi, ma si
estendono a un panorama istituzionale che va ben oltre. Quanto alla
corruzione, la prossima Expo di Milano, un progetto tipico della
vanagloria politica di quest'epoca, per tacere del megascandalo a
Venezia nel quale Pd e Pdl sono immersi vicendevolmente fino al collo,
ci ricorda quanto futile sia stato il Pool vent'anni fa: le mani degli
appaltatori, di destra o di sinistra che siano, non sono certo più
pulite di prima. Quanto alla democrazia, le performance della presidenza
della Repubblica e della Corte costituzionale offrono ulteriori
lampanti illustrazioni del degrado dello Stato di diritto in questi
anni, aggravato ora dal Neo-porcellum imposto al Parlamento a tutti i
costi. Si tratta di pressioni che non risparmiano nemmeno coloro che gli
si erano rivoltati contro. Basti pensare all'autocrazia che governa lo
stesso Movimento 5 Stelle nel suo ruolo di avversario più intransigente
del sistema di governo».
Lei proprio non crede che Matteo
Renzi rappresenti un cambiamento in meglio. Ma è giusto liquidarlo come
una versione ritardataria e provinciale di Tony Blair?
«L'ammirazione
di Renzi per Blair, assai ampiamente condivisa da parte degli
opinionisti in Italia, è provinciale giacché ignora che oggi, in Gran
Bretagna, Blair è così screditato e ampiamente detestato da osare a
malapena mostrarsi in pubblico, proprio come il Craxi della fine
all'hotel Raphael. Guai però a sottovalutare Renzi come uomo politico: è
chiaramente più capace e dotato del suo lontano modello. Blair non era
un innovatore: ha semplicemente ereditato la ristrutturazione del
panorama economico politico inglese da Thatcher, spingendosi un po'
oltre. Figura mediocre, la cui corruzione personale adesso disgusta
anche i suoi ex ammiratori del "Financial Times", la sua unica
iniziativa di rilievo fu affiancarsi a Bush nella guerra in Iraq. Renzi
punta assai più in alto, a una trasformazione dell'Italia che si
avvicini a quanto ottenuto in Gran Bretagna da Thatcher».
Ma
può l'Italia, un Paese che in fondo non ha mai goduto autentica
sovranità, sottoposto com'era al patronato americano della Democrazia
Cristiana durante la guerra fredda e poi alla vigilanza dei mercati
finanziari europei, essere paragonata così facilmente alla Gran
Bretagna?
«Di certo, l'Italia del dopoguerra ha avuto
una politica estera raramente degna di questo nome: forse il suo unico
atto memorabile fu il colpo di Andreotti che intrappolò Thatcher al
summit europeo di Roma nel 1990, e ne causò la caduta a Londra.
Altrimenti è stata una storia per la maggior parte vacua. Ora Renzi
promette di cambiare tutto questo, e di fare dell'Italia la stella
polare dell'Unione europea, una millanteria che altrove farà alzare
sopracciglia, se non sorridere. Peraltro, il grado di autonomia esterna
goduto dalla Gran Bretagna del dopoguerra è stato anch'esso abbastanza
limitato. I governi laburisti e quelli conservatori - invariabilmente
gli uni, solitamente gli altri - hanno obbedito agli ordini americani.
Dopo la caduta di Eden con Suez, nel 1956, l'unica reale eccezione
furono Heath - che non andò mai a Washington - e Thatcher, che
precedette Reagan e su di lui esercitava una sorta di potere».
Il
Pd ha appena conseguito un trionfo alle elezioni europee. Lei scrisse
prima del voto che Renzi cavalcava l'onda del successo. Eppure come
spiega la netta differenza tra il risultato delle elezioni in Italia in
Francia, Gran Bretagna e Spagna?
«Il contrasto non è
così misterioso e, anzi, abbastanza logico. Per un quarto di secolo
Francia e Gran Bretagna hanno vissuto all'incirca le versioni alterne -
di centro e di centro-destra - dello stesso regime neoliberista, più
radicale in Inghilterra, più moderato in Francia. In entrambi i paesi,
gli elettori sono profondamente insoddisfatti dai risultati, ma in
ciascuno il sistema elettorale è concepito in modo tale da escludere
qualunque altra scelta. Nessuna formazione a sinistra del Labour è mai
stata capace di sopravvivere alla stretta della diarchia di Westminster,
imposta da un sistema uninominale maggioritario che discende da epoche
feudali. In Francia, il Partito comunista ancora resiste, ma sotto il
doppio turno soltanto come parassita marginale del partito socialista, e
senza alcuna reale indipendenza da esso».
Però alle elezioni europee non si vota con leggi maggioritarie...
«Infatti,
sono basate sulla proporzionalità democratica, e quei meccanismi di
esclusione non funzionano. Così, una volta tanto che gli elettori hanno
reale libertà di scelta, non sorprende che la maggioranza in ciascun
paese opti per le uniche formazioni che paiono offrire una protesta
senza compromessi contro l'ordine neoliberista, che adesso si situa alla
destra dello spettro mainstream, piuttosto che alla sua sinistra. Dove
il sistema elettorale non è così chiuso, e le formazioni a sinistra
della diarchia al potere sono state in grado di sopravvivere
indipendentemente da esso, lo stesso voto di protesta è andato
nell'altra direzione: è accaduto ampiamente in Grecia e Irlanda, e in
misura minore in Spagna. D'altronde in Italia, dove non c'è mai stato un
regime neoliberista dello stesso stampo dualista, Renzi può promettere
il suo Big Bang come qualcosa di davvero nuovo, qualcosa di cui gli
italiani non hanno ancora avuto alcuna esperienza paragonabile e, forte
di questo, guadagnarsi una grande vittoria elettorale».
Per
la prima volta l'affluenza alle elezioni europee non è calata, anche se
sarebbe eccessivo definirla in aumento. Certi osservatori l'hanno
salutato come il segno positivo di un rinnovato interesse politico e di
partecipazione nell'Unione europea. Lei è d'accordo?
«Questa
lettura è tipica delle compiaciute illusioni di Bruxelles. La realtà è
che l'affluenza dei votanti è calata in 17 su 28 degli Stati membri
dell'Ue e l'affluenza totale è rimasta stabile soltanto perché aumentata
in quattro paesi dove il voto di protesta contro l'Ue ha battuto nuovi
record: il Regno Unito, la Francia, la Germania e la Grecia. Se
sottraiamo l'incremento per l'Ukip, il Fn, Syriza e Alternative für
Deutschland, i movimenti che Bruxelles teme di più, la partecipazione
"responsabile", ovverosia il voto convenzionale che cerca, è calata
ancora una volta drasticamente. Non meno in Italia, dove è scesa di un
ulteriore 5,5 per cento. Immaginare che questo sia un risultato
rassicurante per l'opinione dominante in Europa equivale a un
autoinganno».
Qual è la sua previsione per Renzi dopo il successo elettorale?
«Come
da intenzioni, il passaggio del neo-Porcellum ne consoliderà il dominio
per un bel periodo. I regimi neoliberisti strombazzano le virtù della
competizione economica come il motore della crescita dinamica, ma sono
assolutamente avversi alla competizione politica. L'ultima cosa che
vogliono nelle elezioni sono startup come quelle che esaltano nei
mercati. È l'oligopolio che cercano, e il neo-Porcellum lo fornirà.
Sotto il suo controllo la palude che adesso circonda da tutte le parti
il Pd sarà probabilmente assorbita: è un processo ancora agli inizi, già
visibile con Sel e Scelta Civica e che continuerà forse con Ncd, appena
Alfano capirà che con il 4 per cento la sua unica chance di
sopravvivenza sarebbe diventare un altro Dini. È quindi probabile che da
un punto di vista politico il carrozzone di Renzi prenderà velocità».
E da quello economico?
«Anche
nel breve periodo ha davanti a sé il campo abbastanza sgombro: infatti
alla prospettiva di un ampliamento della privatizzazione e della
deregulation gli spiriti animali del business italiano si rianimano e
danno vita a una ripresa degli investimenti, mentre Bruxelles e
Francoforte si assicurano che abbia abbastanza denaro contante per
installarsi stabilmente al potere. Alla fine, però, i limiti generali
del neoliberismo - un regime di accumulazione incapace di mantenere
ovunque in occidente i tassi di crescita e occupazione del dopoguerra -
entreranno in azione. Allora comincerà la disillusione popolare cui si
assiste altrove».
Il Movimento 5 Stelle offre
un'alternativa reale, o Beppe Grillo è soltanto un'altra espressione
dell'Italia come la più alta personificazione della società dello
spettacolo diagnosticata da Guy Debord? Dopotutto, abbiamo inventato
l'opera...
«Dopo l'impresa elettorale del 2013, in cui
era passato da un giorno all'altro dal nulla al 25 per cento dei voti,
anche i media ora duramente ostili al M5S ne avevano riconosciuto il
potenziale trasformativo come nuova forma democratica. Ma nei diciotto
mesi da allora trascorsi, Grillo ha prima sterilizzato questo potenziale
con un isolazionismo parlamentare che ha inflitto al Paese un'altra
presidenza di Napolitano e installato Renzi a Palazzo Chigi, poi l'ha
dilapidato con una campagna alle elezioni europee fatta di spacconate ed
escandescenze. Gli italiani devono sperare, contro ogni probabilità,
che lui e il suo movimento abbiano imparato la lezione della sconfitta.
In caso contrario, il M5S si estinguerà come una "rivolta di Reggio"
dell'epoca di Internet, con grande sollievo del salotto buono politico e
intellettuale del paese».
(20 giugno 2014)
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