Il 4 giugno in molte parti d'Italia associazioni culturali, circoli letterari, gruppi di lettura e librerie ospiteranno incontri collettivi per discutere del diritto alla libertà d'espressione sancito dall'articolo 21 della Costituzione ("Tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione").
Nei mesi scorsi, sui media e in rete si è detto molto a proposito di queste affermazioni. Qualcuno - il senatore del Pdl Giuseppe Esposito - è arrivato a chiedere pubblicamente il boicottaggio dei libri dello scrittore. Qualcun altro - il critico televisivo Aldo Grasso - ha usato la tribuna del Corriere della Sera per tacciare De Luca di "neodannunzianesimo proletario" e "ieratismo partenopeo" esercitato con il sostegno di un "folto seguito di groupies attempate". E io, collocandomi con qualche diritto in quest'ultima categoria, sono stata subissata da commenti negativi per un post scritto lo scorso settembre in questo blog, intitolato "Si va all'attacco di Erri de Luca e si dimentica Calderoli". Numerosi critici rigorosamente coperti da nickname mi hanno accusata di "benaltrismo" per aver trovato paradossale l'accanimento sullo scrittore in un Paese che si tiene come vicepresidente del Senato il protagonista di numerosi episodi d'incitamento all'odio razziale e alla rivolta.
Allora, alla vigilia del processo, vorrei rincarare la dose di benaltrismo: certo che insultare un ministro per il colore della sua pelle (Cecile Kyenge) o indossare una maglietta con vignette anti-Islam che danno la stura a rivolte di piazza, come quella che provocò 11 morti a Bengasi, è cosa diversa dal dire che le cesoie servono a tagliare le reti. Però accostare i due casi può servire a dare l'idea del tipo di Paese in cui viviamo. Il Paese dove un pluricondannato sconta una pena per frode fiscale con quattro ore settimanali d'intrattenimento agli anziani in una casa di riposo. E dove uno scrittore rischia cinque anni di galera andando a processo per un reato di opinione. Perché tale è il carattere del processo torinese contro Erri De Luca.
Ai giudici il compito di decidere se "sabotare" significhi istigazione alla violenza contro i cantieri della Tav o se, come ribatte Erri De Luca, adombri "opposizione politica" all'opera. A noi la domanda: è chiaro che si tende a punire un'opinione, che può essere condivisa oppure no? Cioè, che si mette in moto un'azione penale per sanzionare l'espressione di un pensiero? Io penso di sì, forse anche perché ritengo la Tav Torino-Lione un'opera più dannosa che utile. E penso di sì perché mi sembra che quel pensiero, che infastidisce la società franco-italiana LTF e nuoce ai suoi interessi, sia piuttosto contiguo a un'istanza di disobbedienza civile. Cioè, sia un caso di quel tipo di lotta politica di cui scrisse Thoreau nel 1849, che rese possibile ed efficace l'esercizio dei diritti civili dei neri statunitensi, che in India aprì la strada all'emancipazione nazionale, che a don Milani fece dire "l'obbedienza non è più una virtù".
Certo, questi sono esempi di pensiero nonviolento, e a fare la differenza è qui proprio la categoria della violenza. Ma quanto è corretto sanzionare un'opinione ritenendola contagiosa a causa della rilevanza pubblica di chi l'ha formulata, al punto da farne un'istigazione alla violenza e da perseguire penalmente chi l'ha espressa con l'etichetta di "cattivo maestro"?
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