Forse il padronato non saprà portare fuori dalla recessione l’economia occidentale, ma di certo dispone di centri studi per interpretare la crisi migliori dei nostri. Per meglio dire, ogni tanto questi centri studi confermano con i numeri quello che noi affermiamo attraverso un discorso politico. Per chi se lo fosse perso, su CorriereEconomia di lunedì scorso è apparso un interessante contributo di Paolo Ciocca, responsabile del Servizio Studi BNL – gruppo BNP Paribas, che conferma tante cose dette in questi anni di crisi. Vediamo cosa dice il Servizio Studi della BNL, e poi confrontiamolo con ciò che abbiamo detto nel corso di questi anni per cercare di spiegare la natura strutturale della crisi economica. Ne riportiamo un ampio passaggio, ma va letta attentamente ogni parola:
In Italia, i consumi rappresentano circa il 60% dell’economia. 900 dei 1.500 miliardi di euro di beni e servizi prodotti dalle nostre imprese sono assorbiti dalla spesa delle famiglie. Lo sviluppo del paese dipende, dunque, dalla crescita dei consumi[...] Nel 1990, ognuno di noi aveva in media a disposizione un reddito annuo pari a 9mila euro. Ne destinavamo 7mila ai consumi. Nel 2007, i consumi avevano superato i 15mila euro, crescendo molto più del reddito. In 17 anni, avevamo aumentato le quantità consumate di oltre un quinto, mentre il potere d’acquisto dei nostri redditi era cresciuto di solo l’8%. Cosa aveva permesso la quadratura tra reddito stagnante e consumi in crescita? Semplicemente, avevamo ridotto il risparmio e contemporaneamente aumentato il debito. Nel 1990, per ogni 100 euro di reddito ne mettevamo da parte quasi 25. Nel 2007, ne avevamo risparmiati solo 12. Nel 1998, ognuno di noi aveva in media 2.200 euro di debiti. Dopo dieci anni, eravamo saliti oltre i 6.300. Dietro l’aumento dei consumi c’erano, dunque, profondi cambiamenti nelle nostre abitudini di spesa, ma anche del nostro stile di vita. Risparmiavamo di meno, e ci indebitavamo di più, non tanto per bisogno di acquistare beni di primaria necessitò, quanto, soprattutto, per poter disporre di beni voluttuari[...]
Secondo l’analista, dunque, nel periodo compreso tra il 1990 e il 2007, nonostante i redditi delle famiglie (cioè i salari dei lavoratori) si siano costantemente abbassati, abbiamo continuato ad aumentare i livelli di consumo. Questo è stato possibile erodendo il risparmio ma, soprattutto, indebitandoci. Nel decennio 1998-2007, il nostro debito è esploso del 300%. Questa preziosa analisi ha il difetto di guardare allo scenario economico dal lato del consumo e non da quello della produzione. Nonostante il risultato sia in fondo lo stesso, cambiando prospettiva si colgono cose che nell’articolo menzionato scompaiono. Dal punto di vista produttivo il sistema economico ha necessita di migliorare costantemente il proprio saggio di profitto, cioè produrre a minor costo le varie merci e contestualmente aumentare i propri mercati di sbocco. Le due cose sono però in contraddizione. Minimizzare i costi di produzione comporta un peggioramento delle condizioni salariali dunque un restringimento delle potenzialità di mercato. Come ha risolto, da un trentennio a questa parte, il sistema economico questa contraddizione? Sviluppando un’economia del debito che andasse a tamponare l’erosione dei salari dei lavoratori. L’esplosione del debito (qui stiamo parlando del debito privato dei lavoratori, non del debito pubblico degli Stati, cosa ben diversa) ha comportato un mantenimento soddisfacente del saggio di profitto nonostante si continuassero a tagliare le risorse economiche dei lavoratori, cioè dei consumatori. Ma questa dinamica, che ha comportato la successiva finanziarizzazione di parte dell’economia, poteva essere un “valido” tampone, non certo una soluzione strutturale. Rimandando di continuo il problema salariale, o detto altrimenti aumentando a dismisura l’economia finanziaria del debito, le cose non potevano che produrre un blocco del sistema, puntualmente avvenuto.
Nonostante la Cina, l’India e altri paesi “emergenti” stiano covando una potenzialmente enorme “classe media” consumatrice, cioè stiano preparando quei territori ad essere mercati di sbocco delle merci prodotte dall’occidente, questa trasformazione avviene ad un ritmo molto più lento di quanto è stato previsto. Se i consumatori occidentali non consumano più (cioè i lavoratori non tornano ad avere livelli salariali accettabili), e questi non vengono sostituiti in tempo da nuovi consumatori, il sistema economico non può risolvere questa crisi. Non solo non la potrà risolvere strutturalmente, ma neanche temporaneamente.
Vediamo brevemente cosa scrivevamo noi alcuni anni fa, quando l’analisi mainstream indicava nell’economia finanziaria il problema e la causa della crisi economica generale:
Come andiamo dicendo ormai da anni, questa crisi – a nostro modo di vedere – nasce da una lenta ma inesorabile perdita di diritti e potere d’acquisto dei lavoratori occidentali. Una crisi che non inizia nel 2008, o nel 2007, ma parte da molto più lontano, e solo l’assuefazione finanziaria e debitoria ha reso possibile mascherare l’enorme problema che covava il capitalismo, manifestandosi solo recentemente. La droga del consumo a debito ha potuto rimandare di qualche anno un esito che però appariva prevedibile (e infatti c’è chi lo aveva previsto, e non il solito pluricitato Roubini, che ormai ha assunto il ruolo di stregone dell’economia mondiale), e cioè una sovrapproduzione sempre più dilagante a fronte di sempre peggiori condizioni di vita di coloro che producevano. [Qui il pezzo per esteso]
In un altro nostro intervento, di altro tenore, ribadivamo le cose che oggi ci racconta l’analista della BNL spacciandole per innovative conclusioni del centro studi:
E invece noi dobbiamo tornare a parlare delle nostre condizioni di vita. Dobbiamo ribadire con forza, in ogni dove, che le nostre condizioni economiche erano disastrate ben prima del 2007, che i nostri stipendi si andavano abbassando da decenni, che i nostri diritti sul lavoro e nella società si stavano poco a poco erodendo sensibilmente ma inesorabilmente molto prima che uscisse fuori questa storia delle finanza cattiva e dell’economia industriale buona. Cose però di cui abbiamo abbondantemente parlato[...]La finanza non è riformabile, né tantomeno abbattibile, perché la finanziarizzazione dell’economia è la risposta che il sistema si è dato -dalla fine degli anni settanta in avanti – ad un sistema economico che non riusciva più ad assorbire tutto ciò che produceva, nonché alla caduta tendenziale del saggio di profitto per cui le aziende non riuscivano più a mantenere quel livello di profitto creato in precedenza. Quindi, la nostra crisi economica è data dalle scelte politiche in economia di questi anni, e non dalla cattiva finanza che ha fagocitato i bravi produttori. [Qui il pezzo completo].
Quando scrivevamo cose del genere, nel 2011, eravamo nel pieno dell’attenzione mediatica sulla crisi. Oggi che la crisi permane, il racconto è un altro, quello di “un Italia che può farcela”, di un economia europea che “sta uscendo dalle secche della crisi”, e cose così. La realtà, come cercavamo di dire, è più complessa, perché il sistema economico non ha soluzioni praticabili nel breve periodo. La risposta avviata dagli Stati europei, cioè la costruzione della UE, che dovrebbe servire a creare quel sistema oligopolistico tale da poter competere nell’economia mondiale, può funzionare solo con la contestuale costruzione di un mercato di sbocco per le merci prodotte. Se questo non avviene, l’unica possibilità di sopravvivenza è aumentare i salari, cioè stimolare nuovamente i consumi. Ma i salari senza conflittualità operaia non aumentano, perché i capitalisti, presi singolarmente, non ragionano razionalmente come fossero un sistema economico. I capitalisti cedono quote di profitto solo attraverso il conflitto di classe. Tocca allora allo Stato promuovere un innalzamento dei salari, e questo dovrebbe avvenire sfruttando la leva fiscale. Anche questa però è una politica di corto respiro, perché aumenta il salario diretto (lo stipendio) diminuendone quello indiretto e differito (beni e servizi pubblici e le pensioni), rendendo inutile l’ennesimo tampone. Oppure c’è la guerra.
COLLETTIVO MILITANT
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