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Letzte Briefe aus Stalingrad: “Ultime lettere da Stalingrado”. È un libro che nella linea pedagogica da “scuola quadri” che “Cumpanis”, con consapevole ambizione ma con totale modestia, ha voluto adottare, vorremmo presentare e consigliare alle nuove generazioni, specie a queste di oggi, alle ragazze, ai ragazzi di questi anni così difficili, così tendenti ad obliare la Storia. Vorremmo parlarne, intanto, con le molte lettrici e i lettori, giovani e meno, della nostra rivista.
Ultime lettere da Stalingrado esce per la prima volta in Germania nel
1950. La prima edizione italiana è dell’editrice Einaudi, ed esce nel
1958.
Di cosa si tratta?
Il libro raccoglie 39 lettere di soldati del Terzo Reich che nel
dicembre del 1942, da Stalingrado, tentano di scrivere a casa, alle loro
famiglie, ai loro amici, ai loro amori, in Germania.
Nel dicembre 1942 siamo a poche settimane (2 febbraio 1943) dalla grande
vittoria dell’Armata Rossa e del popolo sovietico sulle orde militari
nazi-fasciste che dal 17 luglio del 1942 assediano la città. La Guerra
di Liberazione sovietica era vicina alla Vittoria e il terrore che
l’armata nazifascista, formata dagli eserciti tedeschi, italiani,
ungheresi, croati e rumeni, voleva diffondere tra il popolo sovietico si
andava ritorcendo contro la stessa armata nero-bruna guidata dal
generale hitleriano Friedrich Paulus.
La conquista di Stalingrado, da parte della Wehrmacht, era una tappa
decisiva del disegno generale di conquista dell’Unione Sovietica e
dell’Europa dell’Est che Hitler aveva già delineato nel suo orrorifico e
lurido Mein Kampf (“La mia battaglia”, 1925), libro nel quale il futuro
Führer già elencava gli obiettivi insiti nella conquista, da parte
della Germania, dell’Unione Sovietica e dell’Est Europa: trasformare
questi immensi territori nelle riserve tedesche di grano e granaglie e
ridurre le popolazioni russe e slave in eserciti di schiavi per la
ricchezza della Germania. Così, esattamente così, nel Mein Kampf.
Ma sarà proprio la potenza ideale e materiale dell’esercito e del popolo sovietico a Stalingrado a bruciare le pagine del Mein Kampf, a distruggere l’esercito nazifascista che assediava la città da 900 giorni e a cambiare la storia della Seconda Guerra Mondiale, avviando il crollo del regime di Hitler. Nell’assedio a Stalingrado l’esercito tedesco, sino allora il più potente della storia militare dell’umanità, avrebbe perso 185 mila uomini, l’esercito italiano 40 mila, gli eserciti ungheresi, rumeni e croati, insieme, circa 100 mila. 400 mila sarebbero stati i prigionieri dell’armata nazifascista finiti nei campi sovietici dopo la sconfitta a Stalingrado.
Siamo, dunque, nel dicembre del 1942: il terrore e la consapevolezza
della disfatta si diffondono tra le truppe tedesche della VI Armata che
attendono la morte attorno alla città di Stalingrado tornata ormai nelle
mani sovietiche. Per i soldati del Terzo Reich i viveri e i
rifornimenti vitali sono quasi esauriti, i feriti vengono abbandonati
alla morte poiché non è più possibile curarli né evacuarli, si
moltiplicano i tentativi di fuga e di diserzione e iniziano i suicidi.
È in questo quadro che i soldati tedeschi cercano di scrivere a casa, di
inviare lettere, sempre più disperate (spesso veri e propri addii) in
Germania. I sacchi pieni di lettere vengono trasportati dagli aerei
tedeschi verso Berlino perché poi, dalla capitale, avrebbero dovuto
essere smistati verso i territori interni. Ma l’ultimo aereo tedesco si
alza da Stalingrado il 18 gennaio 1943, poiché il successivo 24 gennaio
le truppe dell’Armata Rossa conquistano anche l’ultima pista aerea
disponibile per i tedeschi, quella di Gumrak.
La Bertelsmann Verlag, la casa editrice tedesca che nel 1950 pubblica
la prima versione in Germania di Letzte Briefe aus Stalingrad (“Lettere
da Stalingrado”) afferma che il viaggio delle lettere dalla sacca di
Stalingrado verso la Germania avrebbe dovuto essere esso stesso
raccontato in un libro, vista la densità e l’importanza storica che le
traversie di questo viaggio rappresentano.
In quella fase (ricordiamo, nel dicembre 1942), l’Ufficio tedesco della
Propaganda dipende dal ministero diretto da Joseph Goebbels. Quando gli
ultimi pacchi di lettere dei soldati tedeschi, ormai chiusi nella sacca
mortale di Stalingrado, giungono a Berlino, la burocrazia dell’Ufficio
di Propaganda, aperte e visionate le lettere colme di disperazione e
senso della sconfitta e della fine, decide, per ordine di Goebbels che
“queste lettere sono insopportabili per il popolo tedesco”, decidendone,
dunque, la non divulgazione e la distruzione.
L’Ufficio Propaganda, su ordine di Goebbels, vuole capire, attraverso la
lettura degli ultimi sette sacchi di lettere, “qual è lo stato d’animo
dei soldati tedeschi a Stalingrado”.
L’esito della lettura delle ultime missive, degli ultimi sette sacchi di
lettere giunti a Novočerkassk, centro della Russia europea meridionale,
nell’oblast’ di Rostov, sulla sponda destra del fiume Tuzlov, e poi
trasferiti in Germania è, per lo stesso Goebbels e per l’intero Comando
tedesco, disastroso.
Il reparto informazioni di Goebbels stila una classificazione della natura “politica” delle lettere, la seguente:
a)- favorevoli alla condotta della guerra 2,1%
b)- dubbiosi 4,4%
c)- sfiduciati, contrari 57.1%
d)- decisamente contrari 3,4%
e)- senza opinione precisa, indifferenti 33,0%
Dopo il controllo delle lettere, queste, assieme a tutti gli altri
documenti che si riferivano a Stalingrado (appelli del Führer, ordini,
trasmissioni radiofoniche, notizie da Berlino e dal fronte), in tutto
cinque quintali di materiale, furono consegnate ad un ufficiale del
servizio di propaganda, incaricato di redigere un’opera documentaria
sulla battaglia del Volga. Gli originali delle lettere da Stalingrado
finirono poi nell’archivio dell’esercito, a Potsdam, dove erano stati
spostati per sicurezza pochi giorni prima della resa tedesca a Berlino. E
dove nessuno trovò più il tempo e il modo di distruggere.
Le lettere si salvarono così, nel caos finale della caduta rovinosa del
potere nazista, per sempre, anche se Goebbels avrebbe preferito, a mo’
di censura preventiva, bruciarle prima, come dimostra il fatto che sulle
buste delle lettere arrivate in sette sacchi da Novočerkassk vennero
cancellati i nomi di tutti i mittenti. Una paura per queste lettere dei
soldati tedeschi che dimostra peraltro, e se mai ce ne fosse bisogno, il
valore storico della Vittoria sovietica a Stalingrado, la forza
dirompente di questa Vittoria ai fini del crollo del regime hitleriano e
ai fini dell’esito della Seconda Guerra Mondiale.
Le 39 lettere contenute nel libro che nel 1950 la Casa editrice tedesca
Bertelsmann Verlag decide di pubblicare, sono una scelta della stessa
Casa editrice. E sono 39 lettere che definiscono pienamente quello
“stato d’animo” che Goebbels voleva conoscere e che conobbe, assieme al
Comando generale hitleriano, come il segno supremo della fine e della
disfatta nazista. Una fine, una disfatta, iniziate a Stalingrado.
Nelle lettere, ogni soldato tedesco vicino alla morte nella sacca di
Stalingrado parla di sé, per sé, racconta e descrive ai propri cari il
proprio personale terrore vissuto e che sta vivendo. Ma l’insieme delle
lettere forma un ordito che parla dello spegnersi del folle sogno di
Hitler, della fine, sotto le bombe sovietiche e sotto il rombo degli
aerei dell’Armata Rossa, dell’incubo nazista.
Che i giovani leggano queste lettere. Sapranno da esse cosa è stato
l’orrore nazista e conosceranno quanto abbia inciso nella Storia la
lotta di liberazione dell’esercito e del popolo sovietico, una lotta di
liberazione non solo per l’Unione Sovietica ma per ogni popolo del
mondo.
Dalla conoscenza della Storia, i giovani potranno meglio capire il
valore universale della Vittoria sovietica a Stalingrado e potranno
meglio comprendere anche l’attuale lotta della Russia contro il fascismo
ucraino che sostiene Zelensky, a sua volta sostenuto dagli Usa, dal
fronte imperialista e dalla Nato.
La lettera n° 10, sulla quale, come a tutte le altre, Goebbels fece
cancellare il nome dell’autore, dice, in un passaggio: «La morte doveva
essere sempre eroica, entusiasmante, trascinante, per un fine grande e
convincente. In realtà, qui, che cos’è? Un crepare, un morire di fame,
di gelo, nient’altro che un fatto biologico, come il mangiare e il bere.
Cadono (i soldati tedeschi, N.d.R.) come mosche e nessuno pensa a loro,
nessuno li seppellisce. Giacciono dappertutto, qui attorno, senza
braccia, senza gambe, senza occhi, con i ventri squarciati. Si dovrebbe
girare un film per rendere impossibile “la più bella morte del mondo”».
Quella che Hitler voleva per la conquista dell’Unione Sovietica e per la cancellazione dalla storia del comunismo.
La lettera n°12 dice, tra l’altro: «Così ora tu sai che io non tornerò.
Dillo con riguardo ai nostri genitori. Sono profondamente sconvolto e
dubito veramente di tutto. Un tempo ero fiducioso e forte, ora sono
piccolo e sfiduciato. Non capirò molto di quello che succede qui, ma il
poco a cui prendo parte è già tanto da mandare giù. Non mi si può far
credere che i camerati muoiano con sulle labbra la parola “Deutschland” o
“Heil Hitler”. Si muore, questo sì, non si può negarlo: ma l’ultima
parola è per la mamma o per la persona più cara. Oppure è solo un grido
d’aiuto».
Il mito del nazismo svapora sotto le bombe liberatrici dell’Armata Rossa.
Frammento della lettera 14: «Siamo perfettamente consapevoli di essere
vittime di gravissimi errori di comando e certamente l’annientamento
della fortezza di Stalingrado avrà ripercussioni gravissime sul nostro
popolo e sul nostro futuro nazionale. Ciò nonostante, noi continuiamo a
credere in una felice resurrezione del nostro popolo… ci sarà molto da
fare per voi, a casa, per togliere di mezzo gli esaltati, i pazzi, i
criminali. Quelli di noi che torneranno li disperderanno come crusca al
vento».
Ed ecco come la vittoria dell’Armata Rossa a Stalingrado cambia le
coscienze, persino dei soldati della Wehrmacht. Come cambierà le
coscienze di interi popoli nel mondo.
Passaggio della lettera 15, scritta probabilmente ad una donna amata:
«Per molto tempo, forse per sempre, questa sarà la mia ultima lettera e
la porta via un camerata che deve andare all’aeroporto, poiché domani
dalla sacca deve partire l’ultimo aeroplano. La posizione si è fatta
insostenibile, i russi si trovano a tre chilometri dall’ultima base
aerea, e quando questa sarà persa, nemmeno un topo uscirà vivo di qui, e
neanche io. Certo, nemmeno altri centomila, ma è una magra consolazione
condividere con altri la propria distruzione. Non credo più in Dio
perché altrimenti questo Dio avrebbe illuminato il cervello degli uomini
che hanno scatenato questa guerra…».
E cioè Hitler e il Comando nazista. E anche qui abbiamo un soldato
nazista che sotto la spinta liberatrice della Vittoria sovietica prende
coscienza. Una coscienza dell’essenza del nazifascismo, di quel
nazifascismo che si presenta nella Storia con forme diverse e oggi, in
Ucraina, sotto le spoglie del Battaglione Azov e del movimento fascista
di ritorno “Bandera”. E che occorre combattere, poiché come dimostra il
passaggio che proponiamo della lettera 27, esso non è facile a morire.
Dalla lettera 27: «Se non fossimo qui noi i russi infrangerebbero il
fronte e distruggerebbero tutto… il freddo ai russi non fa niente. Ma
noi geliamo in modo spaventoso. Io sto qui nella buca della neve e
soltanto alla sera posso rifugiarmi in cantina… siamo sempre in meno e
se continua così, presto qui non ci sarà più nessuno. Ma la Germania ha
tanti soldati e tutti combattono per la patria… l’importante è che noi
si vinca. Fate gli scongiuri per me!».
È anche per queste idee malate che mai del tutto si estirpano e oggi
rivivono nella Kiev di Zelensky come nel Perù golpista, come dicevano
anche i nostri partigiani, “ora e sempre Resistenza!”.
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