Il 2022 sarà ricordato come il migliore degli ultimi decenni per le aziende dei combustibili fossili. I cinque produttori principali chiuderanno l’anno con 200 miliardi di dollari di profitti, che finora sono finiti essenzialmente nelle tasche dei loro azionisti. Il 2023 dovrebbe confermare questa tendenza, anche perché la domanda di petrolio è prevista in crescita.
DI JUSTIN JACOBS – Il Fatto Quotidiano
La stagione dei bilanci per Big Oil si è aperta con Chevron, che ha sollevato un polverone con un nuovo massiccio programma di riacquisto di azioni da 75 miliardi di dollari. I risultati delle supermajor occidentali del petrolio quest’anno saranno particolarmente interessanti. Quando comunicheranno i loro guadagni ai mercati, nelle prossime settimane, ExxonMobil, Chevron, BP, Shell e TotalEnergies secondo le stime dovrebbero rivelare un anno di profitti da record, da 200 miliardi di dollari. La maggior parte dei quali totalizzati per effetto dell’invasione russa dell’Ucraina.
Tuttavia, per i primi cinque produttori di petrolio quello raggiunto quest’anno sarà probabilmente questo sarà probabilmente il picco massimo di questa fase. I prezzi del petrolio sono ben lontani dai massimi della scorsa estate, quando avevano raggiunto quasi 130 dollari al barile, e anche i prezzi del gas naturale si sono notevolmente raffreddati quest’inverno. Secondo le stime degli analisti di S&P Capital IQ, nel 2023 il calo dei prezzi delle materie prime dovrebbe ridurre di circa 50 miliardi di dollari i profitti combinati di Big Oil rispetto al 2022, portandoli a circa 150 miliardi di dollari.
Ma anche se le stime fossero confermate, i 150 miliardi di dollari di profitto previsti supererebbero comunque l’ultimo record del 2011 e darebbero alle aziende una potenza finanziaria importantissima, oltre a far felici gli investitori.
Per
queste ragioni è molto probabile che la ricetta di Big Oil per i
prossimi mesi resterà la stessa adottata l’anno scorso. Dopo dieci anni
passati a rispondere alle forti accuse rivolte contro il settore, ora le
aziende sembrano aver trovato la formula per funzionare, e accontentare
gli azionisti. I produttori di petrolio hanno avuto per due anni tra le
migliori performance di borsa (dopo dieci anni di magra) e hanno aperto
il 2023 in rialzo.
Ciò significa che la maggior parte della liquidità continuerà a essere usata per i dividendi e per i piani di riacquisto di azioni, che finora hanno contribuito a far salire i prezzi delle azioni. Exxon, che nell’ultimo anno ha superato tutti i rivali di Big Oil, ha un piano di riacquisto da 50 miliardi di dollari tra il 2022 e il 2024. Ma le quattro concorrenti potrebbero voler tenere il passo.
Assegni così cospicui staccati agli azionisti hanno esposto le società petrolifere agli attacchi di alcuni politici. Tra i più in vista, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, che ha detto che avrebbe preferito che i guadagni fossero stati reinvestiti per la ricerca e sviluppo di nuove fonti di energia. Non esistono prove, tuttavia, che la polemica abbia in qualche modo influenzato le intenzioni dei consigli di amministrazione delle aziende fossili.
In realtà, quest’anno la pressione politica su Big Oil potrebbe addirittura diminuire. I prezzi dei combustibili fossili non sono più a livelli critici e l’inflazione negli ultimi mesi ha cominciato a calare. Negli Stati Uniti, la questione dei prezzi alla pompa di benzina non sarà così politicamente, ed elettoralmente, pressante com’è stata per tutto l’anno scorso.
È vero che le aziende hanno promesso che aumenteranno un po’ gli
investimenti rispetto al 2022, ma gran parte della spesa sarà assorbita
dall’inflazione sui giacimenti petroliferi piuttosto che essere
destinata a nuove grandi campagne di perforazione.
Inoltre,
l’attenzione (e probabilmente anche la spesa) continuerà a essere
concentrata sui progetti più ecologici delle compagnie petrolifere. Un
segnale in questo senso è dato dal fatto che nell’ultimo anno le
transazioni di Big Oil si sono concentrate soprattutto sulle attività a basse emissioni di carbonio,
invece che sull’acquisizione di nuove riserve di combustibili fossili.
La più grande operazione di Chevron dello scorso anno è stata
l’acquisizione per 3 miliardi di dollari del produttore di biocarburanti
Renewable Energy Group. La BP ha speso 4,1 miliardi di dollari per lo
sviluppatore di gas di discarica Archaea Energy. Shell ha investito da
poco 169 milioni di dollari nell’acquisto di Volta, che gestisce una
rete di caricabatterie per veicoli elettrici negli Stati Uniti. E c’è da
credere che i nuovi incentivi di Washington per le energie rinnovabili,
l’idrogeno, i biocarburanti e la cattura del carbonio, contenuti
nell’Inflation Reduction Act, non faranno che accelerare questo
processo.
Naturalmente, le fortune finanziarie delle società rimarranno una funzione dell’andamento dei mercati delle materie prime. La prospettiva di una recessione continua a incombere sul settore, e ha già contribuito al calo dei prezzi del greggio alla fine del 2022. A Davos, l’amministratore delegato di Chevron, Mike Wirth, ha dichiarato l’eventualità della recessione “molto probabile”. Ma diversi segnali indicano che la domanda di greggio è ancora in crescita. Molti prevedono che ad alimentare la domanda sarà in particolare la riapertura dell’economia cinese. L’Agenzia Internazionale dell’Energia prevede un aumento del consumo di petrolio di 1,7 milioni di barili al giorno, ancora superiore alla maggior parte degli anni precedenti alla pandemia di coronavirus. Anche se i prezzi del petrolio non dovessero tornare sopra i 100 dollari al barile, come prevedono alcuni a Wall Street, per ora i prezzi sembrano avere basi abbastanza solide. Per Big Oil, questo significherà probabilmente un altro anno record all’orizzonte.
© 2023 The Financial Times Ltd
Traduzione di Riccardo Antoniucci
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