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Alfredo Cospito ha superato i cento giorni di sciopero della fame contro la propria sottoposizione al regime di cui all’art. 41 bis ordinamento penitenziario e, più in generale, contro tale regime e contro l’ergastolo ostativo. Le conseguenze di un digiuno così prolungato variano, com’è ovvio, da persona a persona e, fortunatamente (nonché quasi incredibilmente), non sono state per lui, fino ad oggi, irreparabili. Non per questo le sue condizioni sono tranquillizzanti. Al contrario, Cospito ha ormai perso 42 kg, è fortemente debilitato e in difficoltà a reggersi in piedi (tanto che, nei giorni scorsi, è caduto sotto la doccia, provocandosi fratture al naso), deve – secondo i medici – astenersi dal camminare (attività comportante uno sforzo troppo intenso) e si muove su una sedia a rotelle. Soprattutto, non è dato sapere fino a quando il suo fisico reggerà. Di ciò v’è finalmente una consapevolezza diffusa in settori culturali e politici eterogenei (è significativa, per esempio, l’approvazione unanime da parte del Consiglio comunale di Torino di una mozione che chiede la revoca, nei suoi confronti, del 41 bis) ma le istituzioni responsabili continuano ad essere del tutto assenti. Per questo è necessario riprendere le fila di un discorso, pur ripetutamente affrontato su queste pagine (si vedano, in particolare, https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2022/11/25/morire-di-41-bis/ e https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/01/07/alfredo-cospito-non-deve-morire/).
Primo. La scelta di Cospito ha un’evidente valenza politica generale e, in questa prospettiva, ha raggiunto un primo risultato: le questioni del regime penitenziario ex art. 41 bis e dell’ergastolo ostativo sono tornate all’attenzione della politica, dopo essere state relegate ai margini del dibattito nonostante la loro centralità (dimostrata, tra l’altro, dai numeri, posto che, secondo le ultime rilevazioni, i detenuti sottoposti al 41 bis sono ben 749 e i condannati all’ergastolo ostativo addirittura 1280). Certo le strumentalizzazioni e le confusioni continuano. Ma alcune cose sono emerse con chiarezza. La legittimità del regime di cui all’art. 41 bis, con sospensione del trattamento penitenziario e applicazione di regole e divieti particolarmente penetranti, è strettamente legata al fatto che si tratti di una misura eccezionale e temporanea e che le prescrizioni e limitazioni imposte siano strettamente funzionali a impedire i contatti del detenuto con l’organizzazione criminale di appartenenza. Oggi, peraltro, non è così: il numero dei detenuti in 41 bis (molti dei quali di modesta caratura criminale), la durata (spesso senza fine) della sottoposizione a tale regime e la mancanza di correlazione tra alcune delle limitazioni imposte e l’obiettivo di impedire rapporti con l’esterno dimostrano che in sede di applicazione della misura si è creato un circuito detentivo ad hoc, un “carcere duro” (secondo un’espressione entrata nel linguaggio comune) caratterizzato da un surplus di afflittività per ragioni di vendetta sociale o per indurre chi vi è sottoposto a collaborare con gli inquirenti. Considerazioni analoghe valgono per l’ergastolo ostativo, segnato dall’assoluta impossibilità, per il condannato, di accedere a qualsivoglia beneficio per l’intera durata della pena (cioè fino alla morte): anche in questo caso l’automatismo della previsione e l’esclusione di ogni possibilità di valutazione della diversità delle situazioni da parte del giudice mostrano la costruzione di un circuito detentivo ad hoc sganciato dal sistema costituzionale il cui articolo 27 prevede che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Il gesto di Cospito ha posizionato il tema in questi termini e, da oggi in poi, la politica e le istituzioni non possono non tenerne conto.
Secondo. La questione generale non può, peraltro, mettere in secondo piano la vicenda specifica, al di là delle stesse richieste di Cospito. C’è un uomo che sta morendo in carcere. Quell’uomo, indipendentemente dai reati per i quali è stato condannato, è affidato non solo alla custodia ma anche alla cura dello Stato. Per questo le istituzioni non possono disinteressarsene, come se la questione non le riguardasse. Mettere mano a una revisione del sistema risultante dal regime ex art. 41 bis e dall’ergastolo ostativo richiede tempi non brevi, e Cospito non può aspettare. Ogni giorno che passa aumenta, per lui, il rischio di morte. Occorre disinnescare quel pericolo con provvedimenti adeguati: per salvare una vita e perché lo richiede la coerenza con la Costituzione (che pone al centro del progetto di convivenza la persona umana e la sua dignità).
A fronte di entrambe le questioni indicate lo Stato non è un’entità astratta e inafferrabile ma si materializza in una figura precisa, con un nome e un cognome: il ministro della giustizia Carlo Nordio. È il guardasigilli, infatti, il primo titolare delle scelte politiche in tema di giustizia e l’autorità a cui compete applicare (e revocare) il regime di cui all’articolo 41 bis. Ma il ministro, solitamente salottiero e loquace, tace. Non solo, i segnali provenienti dal ministero di via Arenula sono di segno contrario e rivelano una fuga dalla doverosa assunzione di responsabilità. Da un lato, anche tramite le parole del sottosegretario Sisto, si avalla la tesi che l’eventuale revoca del regime del 41 bis compete alla magistratura e che, dunque, il ministro “ha le mani legate”; dall’altro, tramite formali diffide degli uffici dell’amministrazione penitenziaria, si tenta di impedire al medico che sta monitorando le condizioni di salute di Cospito di rilasciare informazioni sul punto a una testata giornalistica. Si tratta in entrambi i casi di posizioni prive di fondamento ed estremamente pericolose. È vero, infatti, che il potere ministeriale di revoca del regime del 41 bis non è più espressamente previsto dopo le modifiche introdotte con la legge n. 94 del 2009, ma ciò non lo ha in alcun modo intaccato, essendo «evidente che, ove muti il quadro a carico del destinatario (ad esempio per una scelta di collaborazione con la giustizia o perché muti il suo status processuale), debba intervenire revoca, senza attendere la scadenza naturale del decreto ministeriale, rientrando la facoltà di revoca nella disciplina generale degli atti amministrativi» (così, per tutti, F. Della Casa e G. Giostra, Ordinamento penitenziario commentato, 2015). Del resto, se così non fosse, si perverrebbe all’assurdo che il detenuto in regime di art. 41 bis il quale recida i collegamenti con l’organizzazione di appartenenza (per esempio collaborando con gli inquirenti e facendone arrestare tutti i componenti) dovrebbe continuare a restare, magari per anni, in tale situazione. C’è certamente un potere concorrente di revoca in capo alla magistratura in sede di controllo sulla legittimità del decreto applicativo ma si tratta di una possibilità che interviene in seconda battuta (e che, nel caso specifico, sarebbe comunque tardiva, essendo l’udienza di riesame della Cassazione, pur anticipata, fissata il 7 marzo, e dunque fra un mese e mezzo…). Per altro verso, il tentativo di silenziare l’informazione, tenendo nascosto all’opinione pubblica l’evolversi della situazione, è tipico degli Stati autoritari, oltre che gravemente discriminatorio nei confronti di una testata ritenuta vicina alle posizioni politiche di Cospito. La conseguenza è evidente: l’apertura di un ampio confronto politico sulla realtà e le prospettive del 41 bis e dell’ergastolo ostativo e la decisione sulla revoca del regime cui è sottoposto Alfredo Cospito (anche solo interlocutoria in attesa degli sviluppi giudiziari) sono nelle mani del ministro. A cui compete dimostrare se il suo (proclamato) garantismo è reale o double face, cioè diversamente coniugato per i galantuomini e per i briganti.
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