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Nel Prometeo incatenato Eschilo immagina che il protagonista elenchi i meriti che ha nei confronti dell’umanità e per i quali è crudelmente punito da Zeus. Tra i doni fatti ai viventi che li hanno trasformati da creature puerili in esseri riflessivi, «sovrani del proprio intelletto», pone orgogliosamente la scrittura: «fu mio il sistema dei segni tracciati, Memoria del mondo, fertile madre di Muse». La scrittura ha sempre svolto un ruolo fondamentale nella memoria della deportazione e lo sta assumendo sempre di più ora, quando la testimonianza orale sta a poco a poco scomparendo. Coloro che hanno vissuto la tragedia dei campi di concentramento se ne stanno andando uno ad uno. È, quindi, necessario, è doveroso consegnare a chi verrà dopo di noi una memoria documentata e completa del passato, che, utilizzando opportunamente tutti gli strumenti tecnologici a disposizione, rinunci a ogni retorica e rifugga ogni omissione. Purtroppo, invece, nel nostro Paese la retorica è assai coltivata e le omissioni stanno diventando clamorose. Ed è soprattutto sulle seconde che mi voglio qui soffermare, anche perché spesso i “vuoti” sono riempiti da un’artificiosa ricerca dell’effetto e da semplificazioni che stimolano l’adesione a superficiali luoghi comuni. Un ruolo fondamentale è svolto, certo, dai mezzi di comunicazione. Basti pensare ai titoli che vengono dati alle trasmissioni e ai telegiornali in occasione del 27 gennaio. Ma è una tendenza, come si vedrà più avanti, che si sta diffondendo anche altrove e, forse, è gradita a chi ci governa.
Il primo passo consiste nel presentare le leggi antiebraiche e la deportazione come se fossero avulse da ogni precedente evento storico. Primo Levi nella sua lettera Al Visitatore di Birkenau aveva già messo in evidenza, con la capacità di chi ha dimestichezza con la Memoria e con le Muse, l’inadeguatezza di un tale approccio: «La storia della deportazione e dei campi di sterminio, la storia di questo luogo non può essere separata dalla storia delle tirannidi fasciste in Europa: dai primi incendi delle Camere del Lavoro nell’Italia del 1921, ai roghi di libri sulle piazze della Germania nel 1923, alla fiamma nefanda dei crematori di Birkenau, corre un nesso non interrotto».
Se, poi, si compiono i corretti e necessari collegamenti fra gli avvenimenti storici, si comprende bene quanto sia inadeguata una storia della deportazione che riguardi soltanto il popolo ebraico. Non vi è alcun dubbio – sia ben chiaro – che lo sterminio degli ebrei deve avere un ruolo centrale nella narrazione del nazismo, del fascismo e della Seconda guerra mondiale. Cioè di un tempo della nostra storia in cui i bambini, i malati, i vecchi, insieme agli uomini e alle donne delle loro famiglie, furono prelevati in ogni parte d’Europa per essere sottoposti a un viaggio spaventoso che li condusse ad Auschwitz-Birkenau, a Chelmo, a Belzec, a Maidanek a Sobibor, a Treblinka per essere sistematicamente eliminati. La barbarie nazifascista, però, si avventò su molte altre persone che non possono, non debbono essere ignorate. Nei campi del sistema concentrazionario furono condotti, e in molti casi morirono, anche prigionieri di guerra, rom e sinti, testimoni di Geova, omosessuali, nonché coloro che nei vari paesi si opposero agli occupanti tedeschi: antifascisti, partigiani, organizzatori e partecipanti agli scioperi operai, persone che appoggiarono la Resistenza. E, più in generale, uomini e donne che decisero di non adeguarsi, anche con un solo gesto, agli ordini dei nazisti. Per quanto riguarda gli italiani e le italiane, i deportati nei campi gestiti dalle SS – che erano cosa differente dai campi di internamento dei militari e dai campi di lavoro – furono oltre quarantamila. Gli ebrei, quasi tutti condotti ad Auschwitz, furono quasi ottomila: ne morirono più di settemila. Gli altri, oltre trentamila, furono portati in vari campi del Reich: Dachau, Mauthausen, Buchenwald, Dora, Flossemburg, Ravensbruck; oltre 1200, tra cui moltissime donne, giunsero ad Auschwitz. Ne morirono 10.500. I dati sono stati citati per cercare di fornire un quadro il più possibile attendibile della deportazione italiana. Si deve però aggiungere che gli studiosi stanno continuando le loro ricerche per fornire sempre più accurati approfondimenti sui numeri e sui nomi.
La presenza della deportazione politica accanto a quella ebraica è stata pienamente riconosciuta nel testo votato dal Parlamento italiano al momento dell’istituzione del Giorno della Memoria. Infatti, la legge porta un titolo corretto: “Istituzione del ‘Giorno della Memoria’ in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici nei campi nazisti”. La legge sta, però, per essere modificata. Il 18 gennaio di quest’anno, al Senato è stata approvata una proposta – prima firmataria la senatrice Daisy Pirovano della Lega per Salvini premier – che attende ora l’esame e il voto della Camera. Nulla da dire sulla scelta di destinare due milioni di euro per tre anni alle scuole secondarie di secondo grado con lo scopo di favorire l’organizzazione di “viaggi nella memoria”, riservati agli studenti delle due classi terminali. È una scelta lodevole che sarà giustamente apprezzata dal mondo dell’istruzione, che oggi si trova ad affrontare non pochi problemi al momento di programmare e realizzare iniziative di questo tipo. La proposta di legge finalizza, però, i viaggi, e le relative risorse, a un solo scopo: «Far maturare la coscienza civica delle nuove generazioni rispetto all’estrema sofferenza patita dal popolo ebraico durante la persecuzione nazista della Shoah». Dell’esistenza della deportazione non ebraica sembrerebbe che gli studenti debbano essere tenuti all’oscuro e anche sui campi visitabili potrebbe delinearsi un’inquietante selezione. Per l’Italia la scelta delle scuole potrebbe essere quella di escludere le visite a campi diversi da Auschwitz? Una scelta molto limitante, che spingerebbe a scartare, ad esempio, Ravensbruck e l’approfondimento del tema della deportazione femminile e dello sfruttamento del lavoro delle donne nelle officine della Siemens. O Mauthausen, classificato dai nazisti con il numero 3, “campo di punizione e di annientamento attraverso il lavoro”, in cui furono condotti, e in gran parte morirono, tanti oppositori del regime fascista.
Viene alla mente un pensiero che si vorrebbe subito allontanare: non si vorranno così eliminare dal pensiero e dallo studio le scomode presenze di tanti comunisti, di tanti socialisti, di tanti oppositori del regime? Delle 650 persone, in particolare, che, come ci ricorda Dario Venegoni in un bellissimo articolo comparso il 26 gennaio su Domani, erano «antifascisti della prima ora, “attenzionati” fin dagli anni Venti o Trenta, spesso a lungo incarcerati, confinati, perseguitati»? Delle vittime di un regime da cui chi ci governa non riesce proprio a prendere le distanze? Sarà bene, però, allontanare questo pensiero e sperare che alla Camera si ponga rimedio – basta un emendamento di una o due righe – al vulnus che un testo siffatto recherebbe alla memoria della deportazione nel nostro Paese.
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