giovedì 23 giugno 2022

Lo sfratto dei libri

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Anna Lombroso per il Simplicissimus

Avete per le mani una kermesse musicale stantia che non richiama più pubblico né sponsor?  Turisti, scolaresche, comitive disertano musei e collezioni d’arte, la cui utenza è ostacolata da insensate misure di sicurezza sanitaria oltre che dall’ormai leggendaria carenza di personale, tanto che quello che non fecero i Barberini si consuma quotidianamente nella loro antica dimora restituita alla collettività in forma incompleta e estemporanea, così un giorno non è visibile la Beatrice Cenci di Reni, un giorno Narciso del Caravaggio, con tanto di tempestivo annuncio scritto a pennarello su un foglio di quaderno quadrettato?

Niente paura, la soluzione c’è e come è noto si chiama Ferragni, l’influencer mobilitata a caro prezzo per valorizzare i nostri tesori, si tratti degli Uffizi, di Sanremo, della memoria dell’Olocausto, fino al recupero di qualche ammuffita battaglia ideologica come nel caso del reggiseno, in passato oggetto di rabbiosa criminalizzazione in qualità  di simbolo di una somatica di regime monopolio esclusivo delle occidentali possedute dai demoni estetici di Perla e Victoria’s Secret e in ragione di ciò bruciato in piazza, in remoti tempi di focoso antagonismo, mentre oggi la potente manager del futile, peraltro piatta come una tavola da surf, lo oblitera proponendo la sua canottiera di origine controllata, portata a pelle.

Ci sarebbe proprio da consigliare ai napoletani di prenderla a nolo, la Ferragni, come probabilmente vorrebbe Macron per farle impersonare la Marianne 2022 dopo la débâcle,  assumendo l’ormai insostituibile biondina come  custode e paladina dei nostri beni comuni insidiati proprio da chi dovrebbe salvaguardarne qualità e valore. Come sta succedendo con l’ultima trovata del franceschiello ai beni culturali che ha in animo di delocalizzare la  Biblioteca Nazionale di Napoli dalla sua dimora a Palazzo Reale, scelta da Benedetto Croce, per trasferirla nell’Albergo dei Poveri di Ferdinando Fuga facendo posto così a un museo dedicato a Enrico Caruso.

Costo immediato dell’operazione, 100 milioni stanziati dal Pnrr, ai quali sarebbe doveroso aggiungere quelli che si accumuleranno negli anni, dall’inevitabile choc cui verranno sottoposti volumi, manoscritti, preziosi incunaboli che si sono adattati all’ambiente e al microclima nel quale vivono da anni.

Sul perché della dissennata operazione c’è poco da esercitarsi con ipotesi fantasiose. Il ministro non ha dubbi: “È una grande opportunità, si è vantato durante il summit dei 30 responsabili della Cultura del Mediterraneo, la biblioteca deve essere anche un luogo di incontro e questo può avvenire nell’Albergo dei Poveri, mentre Palazzo Reale sarà destinato tutto a Polo Museale“. E difatti sono già attivi i primi contatti per un Museo Totò e per altre personalità da celebrare in un contesto aperto, multimediale, interdisciplinare adatto a un pubblico giovane, dedito magari al culto delle divinità del mercato.

Non c’è da stupirsi: come ha scritto Montanari il progetto fa parte del piano di gentrificazione delle città d’arte, città che impone  di  sfruttare a fini speculativi spazi e location del centro storico, , troppo preziosi e fecondi per concederli a professori, studiosi, studenti “che non sbigliettano e non fanno tagliare nastri”.

E d’altra parte lo sfratto è solo una delle misure della programma di demolizione del sistema bibliotecario italiano, con tagli del personale, il rinvio di concorsi e assunzioni per garantire il turnover (la stessa Biblioteca ha visto il suo personale ridursi da 280 a 60 unità), come è stato denunciato in un documento redatto da lettori, lavoratori, studiosi, volontari e visitatori e che elenca tutte le ragioni che “sconsigliano categoricamente lo spostamento: dalla tutela dei materiali fragili e degli arredi nati per quel luogo fino allo spreco dei milioni e milioni di denaro pubblico destinato fino a ieri a migliorare la Nazionale dov’è”, una vera e propria allegoria della guerra che si sta conducendo da anni al sapere, alla conoscenza, alla cultura, in qualità di pericolosi incitamenti all’autodeterminazione, alla consapevolezza e, peggio che mai, alla libertà di pensiero, scelta e opinione.

La scelta ideologica di puntare tutto sulla cosiddetta valorizzazione, secondo un’analisi condotta da Funzione Pubblica Cgil, ha prodotto nel corso di questi anni situazioni inimmaginabili, dalla drastica riduzione dei dirigenti assegnati al settore, all’inserimento di Biblioteche prestigiose come la Braidense, l’Estense, la Palatina e la Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte alle dipendenze dei circuiti museali che hanno ben altra mission rispetto ai compiti di tutela conservazione e fruizione del patrimonio librario, dalle spoliazioni delle sedi storiche, che hanno colpito la Biblioteca Universitaria di Pisa, da dieci anni ormai smembrata nel suo patrimonio per effetto di un vero e proprio pretestuoso tentativo di spostarla dalla sua sede storica.

E per non parlare, nel quadro della drammatica riduzione degli organici, della sparizione di figure e ruoli fondamentali, come i Funzionari Bibliotecari e il personale di supporto amministrativo e tecnico, o la silenziosa dequalificazione e sparizione di  organismi essenziali e imprescindibili, come i laboratori di restauro, secondo un destino già segnato per uno dei più prestigiosi, quello della Biblioteca Nazionale di Firenze.

Di una cosa è però doveroso dare atto a Dario Franceschini  immarcescibile figura insostituibile  in tutte le più vergognose compagini governative, un’indole dozzinale che lo spinge a prezzare ogni prodotto artistico da collocare sugli scaffali del supermercato, meglio se con qualche danno, qualche oltraggio attribuibile a azzardate trasvolate o esposizioni arrischiate che ne abbassino il valore in modo da andare incontro alle legittime pretese di una clientela che esige lo sconto.

Ogni occasione è buona quindi per dimostrare che se si ha a cuore un tesoro, è meglio alienarlo, affidarlo a gente pratica che lo sappia sfruttare secondo tutte quella paccottiglia ideologica che dobbiamo soprattutto ai ministri progressisti che hanno coniato gli esecrabili slogan della propaganda che vuole fare dell’Italia un albergo diffuso e un parco tematico al servizio di una clientela selezionata.

Non vuoi investire sulla Valle dei Templi assediata da speculazioni, abusivismo, inefficienza? E che importa, lasciamo che arte e cultura stiano rinchiusi in magazzini e cantine impolverate, che colonne, capitelli, mosaici si sgretolino alle intemperie e facciamo della Sicilia, che possiede ben sei siti tutelati dall’Unesco,   il paradiso del golf, osteggiato dai radical chic misoneisti che lo criminalizzano come uno sport da ricchi annoiati e pigri, indirizzando là gli investimenti finora spesi per “tenere in piedi la cassa integrazione di Termini Imerese”, come appunto ebbe a dire l’increscioso ministro.

I musei non producono l’utile che si vorrebbe, sono macchine mangiasoldi che servono a foraggiare una pletora di parassiti?

Niente paura, la rivoluzione digitale ormai permette di tenerli chiusi, deserti di visitatori e personale promuovendo l’utenza virtuale già sperimentata con successo durante gli anni di insensata gestione pandemica, anche quella testata trionfalmente agli Uffizi sempre dall’influencer tra l’ecografia dei pupi, l’ospedalizzazione del consorte, i prodotti della cosmesi adatti a ringiovanire l’antifascismo per invogliare all’imitazione di un modello esistenziale per il quale siamo invitati al sacrificio, alle restrizioni, alla sete e alla carestia, sognando di conquistare un lusso ostentato, burino, effimero e sguaiato, imitazione di une ricchezza privata e negata a fronte di una miseria pubblica incontrastabile.

 

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