sabato 25 giugno 2022

Non c'è alcuna soluzione alla crisi energetica.

Inizio dalla fine e arrivo subito alla conclusione dicendo che non c'è soluzione alla crisi energetica, neppure una «soluzione minima». Nel caso dovesse emergere una società post-capitalista emancipata, essa allora smetterebbe di preoccuparsi del problema energetico, semplicemente; non lo risolverebbe diventando «più razionale» e «più efficiente» in materia di energia. 

francosenia.blogspot.com Sandrine Aumercier

Una società che mette alla sua base la penuria - come fa il modo di produzione capitalista - si auto-impone di razionare sempre più il consumo di energia, a partire dal fatto che essa si sta avvicinando sempre più a un limite assoluto. Così facendo, si condanna a sprofondare in una gestione totalitaria delle risorse, scatenando delle guerre di stabilità, e a piombare in delle crisi socio-economiche che hanno un impatto sempre più crescente... Ma questo è un limite che fa parte di quelli che sono i principi fondanti di questa società, e non si riferiscono alla natura.


La categoria «energia», è astratta così come lo è quella di «lavoro», e una volta che viene posta a fondamento delle attività umane, non può fare altro che procedere in direzione di un abisso, per effetto della sua stessa logica. Mi ci è voluto molto tempo per capirlo, a causa del fatto che il discorso sui «limiti del pianeta» si impone nella sua falsa evidenza, come se si trattasse di un problema geofisico. Ma il vero problema riguarda le premesse del capitalismo, da cui anche i cosiddetti Paesi socialisti reali non si sono mai staccati. Se mettiamo in fila, uno dietro l'altro, i diversi scenari di «transizione energetica» che si stanno contendendo la palma di vincitore, diventa chiaro come sia proprio il discorso di fondo a combinare due tendenze contraddittorie, in quanto presuppone che: 1) L'impossibile è possibile e che, allo stesso tempo, 2) Se l'impossibile nonostante tutto è impossibile comunque, allora si deve trattare di un fatto di natura (di natura umana, di natura geofisica o di entropia universale). Così facendo, ecco che smette di essere necessario dover esaminare le specificità del modo di produzione capitalistico.
Innanzitutto, in questo dibattito, ciascuno ci viene a spiegare che, dal momento che il piano dell'altra parte è impossibile, ecco che il proprio allora deve necessariamente essere migliore. Questo ragionamento è erroneo: il fatto che tu abbia torto non significa che io abbia ragione. Ad esempio, Jean-Marc Jancovici spiega assai bene il perché coprire il pianeta con pannelli solari o mulini a vento non sia né economicamente né ecologicamente fattibile; mi sembra che su questo punto lo si possa anche seguire. Ma gli antinuclearisti, da parte loro, ci ricordano assai bene quali sono tutti i problemi economici ed ecologici legati all'estrazione dell'uranio, alla costruzione delle centrali nucleari, alla loro manutenzione, alla loro sicurezza, alla gestione delle scorie, ecc. In realtà, tutti cercano solo di proporre proprio quello scenario che salverebbe la civiltà, e che alcuni chiamano «termo-industriale». Visto il disastro globale in cui ci troviamo, chi ci dovesse riuscire sarebbe certamente una sorta di eroe. Ma non esiste niente in grado di cambiare il fatto che il petrolio sta diventando sempre più difficile da ottenere, e quindi sempre più costoso da estrarre. È sorprendente come la crisi energetica, improvvisamente attribuita alla guerra in Ucraina, fosse invece già in atto da molto tempo, e ogni volta sempre riferendola a ragioni diverse: ripresa post-pandemia, indicizzazione dei prezzi dell'elettricità ai prezzi del gas, ecc. L'isterismo della crisi climatica, e ora la demonizzazione della Russia stanno opportunamente coprendo la crisi energetica iniziata negli anni Settanta. È come se questa crisi fosse dovuta a ragioni geopolitiche, e perciò ora dovessimo cambiare le nostre abitudini per «salvare il clima», dato che è sempre più evidente - anche se nessuno lo dice apertamente - che nessuno scenario di transizione regge, e non perché siamo «troppo lenti» a mettere in atto la così tanto celebrata «transizione». Tutte queste spiegazioni esterne evitano di affrontare il problema della crisi strutturale dell'energia.
In secondo luogo, dato che siamo fondamentalmente incapaci di salvare questa civiltà, tutti quanti gli scenari hanno perciò finito per incorporare quella che chiamerei una «clausola di decrescita», la quale ora ci spiega che ora, ovviamente, la soluzione non potrà più arrivare nemmeno senza che vi siano dei risparmi energetici. Questo aspetto è relativamente nuovo, almeno nel discorso ufficiale. Venne formulato per la prima volta negli anni '70, con il famoso rapporto del Club di Roma, in concomitanza con il lavoro di Georgescu-Roegen, insieme a un certo successo dell'«ipotesi Gaia», la quale è ben in sintonia con le tendenze New Age e integra in sé anche il pensiero cibernetico. Ma fino a poco tempo fa questo approccio è rimasto relativamente confinato negli ambiti specialistici. La situazione deve essere effettivamente peggiorata, per far sì che la necessità di una «decrescita» (per quanto sia ancora solo selettiva) diventasse in così poco tempo - diciamo che ciò è avvenuto nei 15 anni circa in cui il petrolio convenzionale ha raggiunto il suo picco - un luogo comune. Tutt'a un tratto, la marmaglia ambientalista, decrescetista, ecosocialista, ecc. si è trovata improvvisamente a essere d'accordo coi tecnocrati di ogni risma, in quello che è il loro tentativo di fare entrare l'infinito dentro il finito. Questa è anche la chiave di volta di uno scenario come quello di Negawatt. Si ammette che con l'attuale livello di consumo è impossibile continuare così, ma però se miglioriamo l'efficienza energetica, se risparmiamo, se miniaturizziamo, se ricicliamo, se innoviamo e così via, allora - ci vengono a dire - ecco che tutto sarà possibile. Questa possibilità, non solo si incardina su delle congetture fantasiose e inverosimili [*1], ma rimane soprattutto interamente determinata da una concezione neoclassica della produzione, vista in termini di stock finiti soggetti all'allocazione delle risorse, e non in termini di processi produttivi [*2], i quali non sono solo dei processi fisici entropici che non possono essere dissociati dal processo globale di produzione capitalista.
In terzo luogo, la teoria che oggi viene chiamata Collassologia (dal primo libro di Pablo Servigne e Raphael Stevens del 2015) ci dice che siamo fottuti. Ma stranamente il riformismo più sfrontato e il cinismo del «se tutto va bene, siamo rovinati» vanno di pari passo. Questo approccio si basa su un'antropologia rudimentale inaugurata da Jared Diamond e basata sullo studio dei grandi imperi premoderni scomparsi, che i collassisti liberali e i socio-umanisti sono disposti a condividere.  Appare innegabile che questi imperi non possono certo costituire per noi un modello di emancipazione. Tuttavia, è altrettanto chiaro che nessuno di essi poneva al centro del proprio funzionamento un principio di moltiplicazione astratta, che avrebbe gradualmente trasformato l'intero mondo materiale in un rifiuto, alla stregua di una creatura che si autodistrugge (l'immagine è di Anselm Jappe). Il successo dei collassisti dimostra che è stato toccato un nervo scoperto: stanno dicendo senza mezzi termini che questa civiltà non se la caverà continuando ad armeggiare con degli accomodamenti. L'unica cosa che ci rimaner da fare, secondo loro, è collassare nella «solidarietà», insomma, nella gioia e nel buon umore [*3]. Tuttavia, questi autori non escono dal paradigma geofisico che essi denunciano, dal momento che ciò che non colgono è proprio il carattere astratto dei processi di combustione termo-industriale innescati dal modo di produzione capitalistico.
Il quarto ragionamento erroneo e tautologico, e che rappresenta la versione pessimistica del paradigma del collasso, è quello secondo cui le cose stanno così perché dovevano essere così, a causa dell'insaziabile natura umana. Questo presupposto è smentito da qualsiasi analisi storica e antropologica; ma soprattutto è proprio l'idea stessa di natura umana a essere teoricamente indifendibile. Non si può spiegare a partire dalla «natura umana» il perché qualcuno è cannibale, perché qualcuno è buddista o perché qualcun altro è un trader di Wall Street. Ciascun essere umano, in ogni epoca, assomiglia a quelle particolari relazioni sociali che una società si è data nel corso di un cieco processo storico. Tali relazioni sociali influenzano e configurano le motivazioni soggettive inconsce dell'individuo, vale a dire, la gamma limitata di posizioni che egli  può assumere, insieme a quella delle identificazioni che gli sono consentite. Se non esiste alcuna rivoluzione «chiavi in mano», ciò è dovuto al fatto che la crisi del capitalismo è globale e sistemica; e in quanto tale, è priva di un di fuori e quindi sembra non avere vie di d'uscita. Ma, come dice Marshall Sahlins nel suo testo "Un grosso sbaglio. L'idea occidentale di natura umana" [Eleuthera], questo non è dovuto alla natura umana; è tutt'al più il risultato di una storia contingente che ha prodotto le proprie condizioni di possibilità e impossibilità, condizioni che sono esse stesse in evoluzione e non ci permettono di prevedere il futuro.
Tutti questi discorsi hanno in comune il fatto di presupporre che dietro l'idea di una certa quantità finita, una certa riserva di materia ed energia, ci sia una realtà indiscutibile. Con i loro grafici e le loro statistiche, sembrano parlarci del mondo materiale. Ma questa realtà materiale proviene dall'astrazione posta all'inizio, e non viceversa. In altre parole: quando cominciamo a guardare il mondo con gli occhiali dell'energia, allora sì che siamo irrimediabilmente fottuti. Ma il problema non consiste nelle risorse energetiche, bensì proprio in questi occhiali. Cos'è che ci spinge a guardare il mondo con questi occhiali, e cos'è che ci spinge a considerare la natura come se fosse un'immensa riserva di materiali da trasformare, una riserva limitata che si sta ineluttabilmente esaurendo e che dovremmo risparmiare, oppure sulla quale dovremmo scommettere perché ci porterà quei miracolosi sconvolgimenti tecnologici che devono ancora arrivare, o addirittura per intraprendere una corsa contro il tempo? È questa qui la domanda più difficile di tutte, in quanto ci costringe a rivedere completamente le nostre categorie. Non si tratta più di mettere insieme delle soluzioni, e nemmeno di «solidarietà» o di «soddisfare i bisogni primari» (anch'essi esigenze astratte quanto i processi sociali da cui derivano), ma di capire come siamo arrivati a considerare l'intero mondo vivente come se fosse un serbatoio inesauribile di energia. Abbiamo creduto nella famosa generosità del sole, che alimentava l'euforia del progresso (insieme al suo triste gemello: il pessimismo culturale), ma allo stesso tempo abbiamo posto la scarsità come principio di tutte le attività umane. Questo principio non può che condurre l'intero mondo vivente verso un inesorabile esaurimento. In matematica, è possibile far convergere una serie infinita con una serie finita. Trasposto nel mondo reale, questo non significherebbe altro che un (relativo) prolungamento dell'agonia. Se prolunghiamo il processo di decomposizione, crediamo che la fine non arriverà. Ebbene, partendo dalle stesse premesse, la fine arriverà comunque, sia che avvenga tra 50 anni sia che avvenga tra 500 anni. L'unica differenza sarebbe che nel secondo caso io vengo personalmente risparmiato, mentre nel primo caso potrei essere colpito direttamente. Ma la durata della vita individuale non può essere un giusto metro di giudizio; in termini di tempo geologico e di durata dell'avventura umana, finisce per essere solo una fine folgorante. A ciò si aggiunge il fatto che un simile prolungamento è improbabile. Il capitalismo è caratterizzato da una crisi di fondo, la quale non fa altro che aggravarsi sempre più, e non ha nemmeno i mezzi per concedersi una tregua. Si trova a essere presa alla gola dalla realtà del suo stesso mito. È in questo che consiste la vera impossibilità,  ma negli scenari presentati nessuno lo dice.

Le osservazioni appena fatte si basano su analisi empiriche. Resta da spiegare in che modo si articoli l'astrazione «energia» con l'astrazione «lavoro», e perché, nelle parole di Marx, «la produzione capitalistica sviluppa l’innovazione tecnologica e, con essa, la combinazione dei fattori del processo di produzione sociale, ma solo con la lenta consunzione o con l’esaurimento, al contempo, delle fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e il lavoratore.» [*4]. Marx dimostra che il valore incarnato in una merce deriva dal tempo di lavoro medio socialmente necessario per la sua produzione. Questo lavoro è definito da lui come «lavoro astratto». Ma «il valore non porta scritto sulla fronte ciò che esso è» [*5]. Non è dato dalla qualità della cosa prodotta, dalla sua necessità o dal piacere del lavoro, ma dalla sussunzione di questo lavoro sotto la media sociale del tempo necessario alla sua produzione. Non è nemmeno dato dal prezzo della merce, che riflette solo parzialmente il lavoro che contiene, poiché altri fattori di produzione e vincoli di mercato entrano nella determinazione del prezzo. Infine, il valore non è dato dall'utilità di un bene (il suo valore d'uso). Si tratta quindi di una grandezza sociale che non può essere calcolata direttamente, ma che costituisce il centro di gravità di tutte le attività economiche sotto il vincolo della redditività competitiva. Per rimanere competitivi, i capitalisti sono obbligati ad appropriarsi di un surplus di lavoro non retribuito, per reinvestirlo nel processo produttivo. Questo surplus è chiamato da Marx plus-lavoro e permette di ottenere un plusvalore.
Robert Kurz dà una definizione di lavoro astratto che parla all'esperienza quotidiana: «Oggi la maggior parte delle persone sembra come paralizzata da questa definizione, il cui significato è tuttavia semplice. Il "lavoro astratto" si riferisce a qualsiasi attività che viene svolta per denaro, nella quale il guadagno di denaro è il fattore decisivo, e dove, quindi, la natura dei compiti da svolgere diventa relativamente irrilevante». [*6] Tutti gli agenti individuali del sistema capitalistico devono, in questo senso, contribuire al processo sociale combinato di accumulazione del capitale: diversamente, non possono sopravvivere individualmente e vengono immediatamente spazzati via da un agente più efficiente. Questo è il caso del capitalista, ma è anche il caso del lavoratore, la cui forza lavoro si trova a essere costantemente messa in concorrenza con tutte le altre. Questo modo di produzione funziona come uno sprone che non dà tregua a nessuno: un sacrificio insensato per una causa impersonale e astratta. È questa la novità del lavoro sotto il capitalismo rispetto a tutte le attività svolte dall'uomo in passato. Tutti credono che con il denaro guadagnato lavoreranno e acquisteranno beni «per soddisfare i propri bisogni». In realtà, le materie prime vengono prodotte per mantenere questo processo in movimento, senza alcun altro scopo se non sé stesso. Questo è anche il caso dei beni immateriali e intellettuali, i quali vengono facilmente percepiti come se si ponessero al di sopra del lotto comune, a partire dal fatto che si immagina che in essi entri una maggiore libertà, in linea con la promozione moderna dell'autocoscienza e del pensiero come sede della soggettività.
La teoria neoclassica abbandona la teoria del valore-lavoro formulata dai precursori dell'economia politica fino a Marx, per considerare il lavoro come una delle due variabili principali che entrano, per ogni unità di produzione, nella stima del «tasso marginale di sostituibilità tecnologica». Questo approccio presuppone una combinazione ottimale di fattori di produzione, da determinare in ogni caso, e che, dal punto di vista della funzione di produzione individuale, considera il «lavoro vivo» e il «lavoro morto» come sostituibili. Il ruolo specifico del lavoro nella produzione di valore viene ignorato. Non viene del tutto ignorato, altrimenti non si passerebbe il tempo a lamentarsi del tasso di disoccupazione, ma il suo ruolo è incluso nella categoria della creazione di potere d'acquisto. Tuttavia, in barba alle analisi marxiane sulla creazione di valore proveniente esclusivamente dal plus-lavoro nei settori produttivi, l'analisi economica standard ha sviluppato una sua cosiddetta teoria soggettiva del valore che lo fa dipendere dalla vendita della produzione sul mercato, e che Marx chiama realizzazione del valore creato nel processo produttivo. Il modello marxiano insiste quindi su una quantità sociale che organizza l'intera produzione capitalistica alle spalle degli individui. Il modello economico standard, invece, è incentrato sul modello dell'equilibrio tra domanda e offerta e sui meccanismi di formazione dei prezzi.

Ma cosa c'entra tutto questo con l'energia? Nato nel corso della prima rivoluzione industriale, il concetto di energia teorizza che se ne possa conservare una certa quantità durante la trasformazione in un sistema isolato (questa è la prima legge della termodinamica), insieme alla degradazione della qualità dell'energia, o della sua utilizzabilità, in sistemi reali aperti o chiusi (questa è la seconda legge). La sua scoperta ha segnato l'inizio della ricerca sul miglioramento dell'efficienza del motore a vapore. Il paradigma energetico presuppone l'affermazione monistica di «tutto uno spettro di forme di energia differenti, tutte reciprocamente convertibili» [*7] ma il cui substrato, che è una quantità astratta, non cambia. «Il lavoro fisico della macchina entra nella coscienza teorica, e viene codificato in quanto valore rilevante nel momento in cui questa macchina diventa tecnologicamente in grado di sostituire la forza lavoro umana.» [*8] Questa coincidenza storica, tra la promozione del lavoro economico e quella del  lavoro in fisica non è casuale. Tutto l'universo comincia a essere visto come se fosse una macchina da lavoro in cui tutti i processi lavorativi, umani e non, devono essere ottimizzati. Questa visione del mondo emerge dalla realtà dei rapporti di produzione che, come si è detto, implicano necessariamente la crescente sostituzione del lavoro umano con quello delle macchine, per far sì che il proprietario dei mezzi di produzione possa rimanere competitivo. Ci troviamo quindi di fronte a una contraddizione insormontabile: per rimanere sul mercato, il singolo capitalista è obbligato a essere sempre un passo avanti rispetto ai suoi concorrenti, in termini di innovazione tecnica, finché la nuova tecnologia non si diffonde. Questo spinge il capitalismo nel suo complesso a sostituire sempre più i settori chiave del lavoro produttivo con le macchine [*9]. Ma simultaneamente, questa logica porta allo stesso tempo all'esaurimento della creazione di valore, senza la quale la società nel suo complesso finisce per essere sempre meno in grado di riprodursi, creando così sempre più superflui che rimangono esclusi. La sostituzione del lavoro umano con quello delle macchine, e il conseguente panico tecnologico sono radicati in questa contraddizione. Non si tratta di un'inevitabilità antropica, ma è una caratteristica del capitale: «Le macchine sono un mezzo per produrre plusvalore.» [*10] La «contraddizione in processo» spinge il capitalismo sull'orlo del precipizio, innescando così la sua espansione planetaria, la distruzione di tutte le società precapitalistiche, l'estrazione sfrenata di risorse insieme a un ritmo di produzione folle. Al di là delle risorse limitate, che a volte fanno notizia, questo processo stesso ha di per sé un costo energetico; trasforma ogni vita e ogni cosa in rifiuti, vale a dire, in termini termodinamici, in elevata entropia (sempre meno energia utilizzabile). La termodinamica, comparsa all'interno del capitalismo, teorizza sia l'astratta sostituibilità su cui si basa questo modo di produzione, sia l'impossibilità del moto perpetuo, ossia il limite invalicabile contro il quale il sistema va a sbattere e si infrange. Il dispendio di energia astratta costituisce il momento unitario della sostituzione tecnica che opera nella contraddizione dinamica del capitale. La crisi energetica non è altro che la conseguenza diretta e ineluttabile di questa logica. Collocate nella relazione sociale che organizza entrambe, non è più possibile isolare l'astrazione «energia» dall'astrazione «lavoro», e bisogna ammettere che sono tutt'e due creazioni della modernità. Non è quindi possibile risolvere la crisi energetica, né all'interno né all'esterno del capitalismo, facendo riferimento alle categorie di limitazione morale e di risparmio delle risorse. Attualmente, tutto converge verso l'idea del razionamento dell'energia per i consumatori (smart cities, carbon card, credito sociale, ecc.). Questo sviluppo - che non risolverà nemmeno la crisi energetica ma che, nella migliore delle ipotesi, potrebbe prolungare l'agonia del sistema - non è affatto una soluzione, quanto piuttosto uno sprofondamento collettivo nella medesima impasse.
Le categorie di efficienza, razionalizzazione, sobrietà, ottimizzazione, ecc. derivano tutte dall'astrazione «energia» e sono indissociabili da un'altra astrazione, altrettanto legata alle due precedenti, quella della forma-soggetto moderna. Il marxismo tradizionale, il socialismo, l'ecologismo, l'eco-socialismo, mantengono l'idea di un soggetto che, liberato dalla logica dell'accumulazione, potrebbe, su identiche basi, riappropriarsi delle tecnologie sviluppate sotto il capitalismo e farne un «buon uso». Questo soggetto,  attraverso una pianificazione «comunista», potrebbe decidere «liberamente» quali sono le giuste soglie, le giuste quantità, i giusti bisogni, la giusta distribuzione, ecc.  Ma una cosa del genere non è mai esistita, e non esisterà mai. Se alcune società - e non tutte - hanno saputo fare un uso ragionevole delle loro risorse, ciò è avvenuto per due motivi: da un lato, perché erano mosse da altri scopi (simbolici e religiosi) rispetto a quelli del «bisogno» immediato e dell'accumulo di beni; dall'altro, perché producevano senza intermediari e su piccola scala tutto ciò che era necessario alla loro sussistenza; avevano pertanto un'esperienza diretta delle conseguenze delle loro attività: erano i primi a esserne colpiti. Queste due condizioni inquadrano la possibilità di un uso parsimonioso e responsabile delle risorse. Nel contesto odierno, la possibilità di tali condizioni sembra ci sia preclusa. Molti la vedono come un insopportabile ritorno al passato, anche se si svolgerebbe necessariamente in un contesto pratico e simbolico completamente cambiato. Ma questo ostacolo feticistico non dovrebbe in alcun modo giustificare la possibilità di credere che sia possibile uscire dal capitalismo e inventare un mondo emancipato mantenendo lo stesso modo di produzione solo messo «nelle mani giuste»: infrastrutture globalizzate, divisione internazionale del lavoro, scambi monetari, pianificazione statale o sovrastatale, tecnologie moderne e bisogni materiali (cioè determinati dallo stato di produzione capitalistico che abbiamo sotto gli occhi)...  Tra le innumerevoli proposte opache che si basano sui loro stessi presupposti, cito quella dell'eco-socialista Daniel Tanuro nel suo libro "E' Troppo Tardi Per Essere Pessimisti" (2020) [Hoepli]: si tratta di realizzare «la prospettiva socialista di una società libera dal denaro, dalla proprietà privata dei mezzi di produzione, dalla concorrenza, dagli Stati, dai loro eserciti, dalle loro polizie e dalle loro frontiere. Una società in cui il lavoro astratto, fatiscente e privo di qualità scompare a favore di un'attività concreta, che crea valori d'uso, porta con sé un significato, genera riconoscimento sociale e realizzazione personale. Una società che abolisce la distinzione tra lavoro manuale e intellettuale. Una società organizzata in comunità autogestite, coordinate in modo flessibile e democratico da delegati volontari e revocabili. Una società che ha il controllo del tempo, in cui il pensiero e le relazioni sociali - cooperazione, gioco, amore, cura - sono la vera ricchezza umana.»
Come si può realizzare questo formidabile progetto? In primo luogo, ci dice l'autore, attraverso la «conquista del potere politico» da parte degli sfruttati e degli oppressi. (Pensavamo che questa carta fosse già stata storicamente giocata e screditata per sempre, ma Tanuro si limita a mettere in guardia dalla burocrazia sovietica e dalla presa del potere da parte di uno strato di «privilegiati»). E a cosa dovrebbe servire questa conquista? «Pur riducendo la trasformazione e il trasporto di materiali, il piano deve saturare la domanda di beni e servizi che rispondono ai bisogni primari, il che implica necessariamente la condivisione della ricchezza e un profondo riorientamento dell'apparato produttivo. (...) La mobilitazione, la consapevolezza, l'empowerment, l'auto-attività e il diritto al controllo a livello globale, regionale, nazionale e locale sono una condizione per il successo (...) Da un lato, non c'è vera democrazia senza decentramento e lotta ai fenomeni burocratici. D'altra parte, la pianificazione deve essere globale... Le tecnologie per le energie rinnovabili possono aiutare a superare questa contraddizione: sono particolarmente adatte al decentramento, che è addirittura indispensabile per la loro efficace attuazione, e quindi a una gestione comunitaria.»
Pertanto, questa proposta definisce l'emancipazione sulla base delle «decisioni giuste» prese dalle «persone giuste»; così non fa altro che ribadire l'illusione soggettivista moderna (che è stata fatta a pezzi dalla psicoanalisi). Sebbene Tanuro analizzi la responsabilità del capitalismo rispetto alla situazione attuale, e castighi il capitalismo verde, la sua proposta negozia il mantenimento delle infrastrutture ereditate dal capitalismo, ma «riorientate» e senza mettere in discussione nel dettaglio la realtà concreta della produzione capitalista - tutta la colpa è dell'«accumulazione capitalista», la quale tuttavia è però costituita da una faccia astratta e da una concreta, inseparabili l'una dall'altra. Quando le categorie del capitale (merce, denaro, lavoro, Stato, valore) vengono criticate da Tanuro, sembrerebbe quasi come se esse potessero essere riprese in un ennesimo «scenario di transizione». Allorché dice che «non c'è energia nucleare o OGM eco-socialista», non è assolutamente chiaro il modo in cui i mulini a vento e il dentifricio sarebbero più eco-socialisti. È questo il motivo per cui alla fine la sua proposta si divide tra pianificazione globale e «democrazia» locale, ignorando il fatto che le energie rinnovabili - presentate ovunque come la nuova panacea - non sono né ecologiche, né eque, né decentralizzate, se si tiene conto dei problemi di produzione dei dispositivi di conversione, di dove installarli, di intermittenza, di stoccaggio, ecc. In contrasto con questa proposta, va detto che non esiste alcuna emancipazione sulla base di una giustizia distributiva astratta, universale e dall'alto verso il basso. Le energie rinnovabili sono infatti in perfetta armonia con la gestione cibernetica del mondo con cui il capitalismo, consapevole della sua inesorabile entropia, cerca di sopravvivere a sé stesso; la cosiddetta «decentralizzazione» finisce per essere proprio un'appendice della centralizzazione.

Invocare una razionalità spontanea degli esseri umani «liberati dal capitale» costituisce l'ultimo inganno della soggettività borghese, la quale non vuole rinunciare né alle promesse del capitalismo né alla promozione del soggetto come istanza immaginaria dell'organizzazione mondiale. In realtà, questa soggettività che crede di poter rifare il mondo a partire dal proprio apriori, viene essa stessa presa per il culo dal proprio mondo. Alcune condizioni sociali implicano determinate conseguenze che sono in gran parte fuori dal suo controllo. L'unica cosa che possiamo valutare concerne quali condizioni comportano quali conseguenze. Abbiamo sempre e solo accesso agli effetti (il che apre la strada a una teoria del sintomo). Un mondo emancipato sarebbe un mondo in cui le condizioni pratiche minime per l'emancipazione vengono soddisfatte, non un mondo in cui gli esseri umani sono improvvisamente migliori moralmente perché gli speculatori e i capitalisti sono stati cacciati via. Non si tratta di riconquistare una posizione di supremazia sul mondo e sulla natura, miracolosamente «liberata». Tale concezione si trova ancora a essere inconsapevolmente determinata dall'auto-dominio maschile, che sembra implicare che siamo in grado di prendere le «decisioni giuste» in astratto, se solo ci fosse permesso di partecipare a queste decisioni. Non sarei in grado di prendere una posizione informata su dei problemi globali che coinvolgono così tanti livelli compenetrati e che riguardano così tante persone e situazioni di cui non sono a conoscenza; questo è anche ciò che mi fa dire che non c'è soluzione al problema dell'energia, perché riflette l'impasse di una visione del mondo sistemica, in cui ogni individuo schiacciato mantiene l'idea di elevarsi al punto di vista globale mentre invece viene ridotto a un mero punto del sistema. Condivido questo limite radicale con i miei contemporanei e con tutti i politici, che evidentemente non sanno quello che fanno e non capiscono i problemi fondamentali della scienza e della società più di chiunque altro; né vedo come uno scienziato, impegnato tutto il tempo a perfezionare una ricerca dettagliata, possa ragionevolmente fare una dichiarazione sulle conseguenze globali della sua azione. Questo tipo di limitazione non può essere compensata da una migliore educazione popolare o dall'aggregazione esponenziale di dati attraverso i big data, poiché ha a che fare con la posizione del soggetto nel sistema. Suggerire che la partecipazione «democratica» alle decisioni politiche supererebbe questa limitazione, non è altro che demagogia populista. Si può solo «partecipare» utilmente alla discussione di ciò in cui si è già impegnati all'interno di relazioni materiali determinate. A differenza del dualismo moderno, la condizione dell'emancipazione non è quindi né morale o cognitiva, né materialista (nel senso di soddisfare bisogni astrattamente definiti), ma strettamente politica (nel senso di costituire un nuovo rapporto sociale): si tratta di riappropriarsi, su scala locale, delle condizioni che permettono il coinvolgimento sensibile e simbolico di ogni individuo nella riproduzione collettiva. Le forme sociali che verrebbero inventate sono necessariamente diverse, imprevedibili e non pianificabili. La produzione industriale verrebbe certamente resa di fatto obsoleta, e con essa l'energia come problema. Bisogna ammettere che siamo infinitamente lontani da un tale risultato e che non si può lottare astrattamente e frontalmente contro la produzione industriale senza passare per le sue categorie costitutive. Il compito principale sembra essere quello di dispiegare le sue articolazioni e di rivelare le sue contraddizioni e le sue intrinseche impossibilità.

- Sandrine Aumercier - 15 giugno 2022 - Pubblicato su  Grundrisse. Psychanalyse et capitalisme

Questo testo costituisce la versione scritta della presentazione del libro "Le mur énergétique du capital" (edizioni Crise & Critique), che si è tenuta presso Mille bâbords (61, rue Consolat, 13001 Marsiglia) il 5 giugno 2022.

NOTE:

[*1] Per una critica delle incoerenze di simili scenari, si veda:  https://cpdp.debatpublic.fr/cpdp-ppe/file/1596/analyse_negawatt.pdf

[*2] La novità essenziale apportata da Georgescu-Roegen è quella di mostrare l'intima articolazione dei processi economici con le leggi della termodinamica: tuttavia, egli non è stato in grado di storicizzare questa relazione, e quindi rimane dipendente da una concezione antistorica dell'economia e da una concezione «realistica» dell'energia.

[*3] Di fatto, la solidarietà non si può decretare, se non quando si vogliono evangelizzare le folle, e quello che osserviamo oggi è piuttosto l'imbarbarimento delle relazioni sociali e geopolitiche.

[*4] Karl Marx, Il Capitale, Libro I.

[*5] Ivi.

[*6] Robert Kurz, « Mit Moneten und Kanonen », jungle.world, 09/01/2002.

[*7] Werner Kutschmann, « Die Kategorie der Arbeit in Physik und Ökonomie », dans Leviathan, Sonderheft 11, 1990. Online : https://grundrissedotblog.wordpress.com/2022/06/01/la-categorie-de-travail-dans-la-physique-et-leconomie/

[*8] Ivi.

[*9] È importante distinguere tra lavoro produttivo e improduttivo, poiché la diminuzione del lavoro produttivo può essere accompagnata da un aumento delle attività logistiche o di assistenza che non creano necessariamente valore. Si veda una buona presentazione di questo problema in Jason E. Smith, "Les capitalistes rêvent-ils de moutons électriques", Éditions Grevis, 2021. 

[*10] Karl Marx, Il Capitale, Libro I.

fonte:  Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

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