Il primato della contrattazione collettiva è in crisi: per questo serve un salario minimo fissato per legge, un vincolo di forza che argini la spirale della povertà.
jacobinitalia.it Anita Marafioti
Il contesto sociale attuale non dovrebbe lasciare molti dubbi sull’opportunità di un intervento legislativo in materia salariale: se è vero che la disoccupazione cresce e stiamo perdendo molti posti di lavoro, è altrettanto vero che oggi oltre all’assenza di lavoro la vera emergenza da fronteggiare è la diffusione del lavoro povero, ovvero la crescita di settori dove la retribuzione percepita non permette ai lavoratori e alle lavoratrici di superare la soglia della povertà. Anche quando il lavoro esiste, si tratta di lavoro depauperante e privo della propria causa, della propria funzione economico-sociale, quella retributiva. La priorità del governo e delle parti sociali dovrebbe essere quella di prevedere meccanismi in grado di determinare un salario che garantisca un’esistenza libera e dignitosa.
La Direttiva europea sul salario minimo
La bozza di Direttiva sulla quale è stato raggiunto un accordo l’otto giugno scorso tra Parlamento e Consiglio europeo, in attuazione del 6° principio del Pilastro europeo dei diritti sociali, si propone di introdurre misure di prevenzione alla povertà lavorativa attraverso un intervento mirato e specifico di regolazione dei salari affinché risultino adeguati a soddisfare i bisogni dei lavoratori in funzione «delle condizioni economiche e sociali nazionali, salvaguardando nel contempo l’accesso al lavoro e gli incentivi alla ricerca di lavoro». Il raggiungimento dell’accordo ha immediatamente ravvivato l’attenzione dei Governi nazionali e delle parti sociali, anche in Italia, sulla questione salariale generando un dibattito, anche all’interno della società civile, sull’opportunità o meno di una riforma in materia, soprattutto alla luce delle peculiarità del sistema italiano di regolazione dei salari.
Eppure la Direttiva stessa ci dice che il comune obiettivo di innalzare i salari può essere raggiunto dagli Stati membri utilizzando differenti strumenti e in particolare rispettando la specificità di ciascun sistema nazionale, diversificando l’ipotesi di intervento a seconda che il sistema sia basato su un salario minimo legale o sulla contrattazione collettiva, come nel caso dell’Italia.
In particolare la misura dovrebbe essere rivolta a «tutti i lavoratori che hanno un contratto di lavoro o un rapporto di lavoro quali definiti dal diritto, dai contratti collettivi o dalle prassi in vigore in ciascuno Stato membro, tenendo conto della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea». Con riferimento agli Stati nei quali il salario è determinato dalla contrattazione, come in Italia, la direttiva prevede che al fine di aumentare la copertura della contrattazione collettiva, gli Stati membri: a) promuovono lo sviluppo e il rafforzamento della capacità delle parti sociali di partecipare alla contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari a livello settoriale o intersettoriale; b) incoraggiano negoziazioni costruttive, significative e informate sui salari tra le parti sociali. Inoltre, è fissata una soglia minima di copertura della contrattazione collettiva che non deve essere inferiore al 70% dei lavoratori.
La contrattazione collettiva in crisi
Il fatto che in Italia esista un sistema contrattuale di definizione della retribuzione, invece di un salario minimo legislativamente imposto è, anche in conformità a quanto previsto dalla Direttiva Ue, la condizione da cui partire per elaborare ogni piano di riforma affinché possa ottenere una larga base di consenso e risultare applicabile nel nostro ordinamento.
Sin dalla Dichiarazione di Filadelfia del 1944 in cui per la prima volta veniva scritto che «il lavoro non è merce di scambio», fu stabilito che il prezzo e la regolamentazione della prestazione di lavoro non potessero essere rimesse al mercato, come avviene nel caso di qualsiasi rapporto commerciale di scambio, e si introdussero norme di protezione per riequilibrare le posizioni contrattuali tra il lavoratore e il datore di lavoro. In Italia, sebbene l’ordinamento del lavoro sia caratterizzato – purtroppo sempre meno – dalla presenza di norme di legge a tutela del lavoratore, non esistono tuttora leggi che vincolano all’applicazione di un minimo salariale.
La materia salariale, infatti, già da prima dell’entrata in vigore del Codice civile e della Costituzione è sempre stata regolata dai contratti collettivi nazionali di lavoro e come per qualsiasi istituto di ambito sindacale è caratterizzata dall’anomia, cioè dalla mancanza di regole esterne (statali) con prevalenza di un sistema di autoregolamentazione di tipo privatistico, a presidio della libertà di organizzazione sindacale sancita dall’art. 39 della Costituzione. La necessità di prevenire qualsiasi ingerenza statale, come era avvenuto in epoca fascista, ha spinto inoltre le organizzazioni sindacali a rinunciare anche allo status di associazioni riconosciute dotate di personalità giuridica, rendendo così inapplicabile il 4° comma dell’art. 39 della Costituzione che prevederebbe che siano applicabili a tutti i lavoratori i contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, solo ove riconosciute.
Oggi persiste il primato della contrattazione collettiva nella regolazione dei salari ma per diverse ragioni, che analizzeremo, il sistema è entrato in crisi: l’intervento della magistratura del lavoro che negli anni ha esteso i minimi salariali previsti dalla contrattazione maggiormente rappresentativa, elevandoli a parametro di giusta retribuzione sancita dall’articolo 36 della Costituzione, ha permesso di rimandare un intervento legislativo in materia salariale che però non pare più prorogabile.
La contrattazione collettiva, infatti, pur garantendo alti livelli di copertura, superiori al 70% del numero complessivo di rapporti di lavoro, non si sta dimostrando sufficientemente idonea ad arginare le derive patologiche che investono gli aspetti retributivi del rapporto di lavoro. Tali problematiche traggono origine sia da aspetti salariali in senso stretto, come la concorrenza al ribasso tra contratti collettivi, sia da questioni contrattuali in generale, come nel caso della parasubordinazione e dei lavoratori esclusi dall’applicazione dei contratti collettivi.
Con riguardo al primo aspetto, negli ultimi trent’anni abbiamo assistito alla proliferazione dei contratti collettivi nazionali riferibili a una medesima categoria merceologica, proprio perchè non esiste alcun vincolo all’applicazione di un particolare contratto collettivo, e questa moltiplicazione può sfociare nell’applicazione dei cosiddetti contratti «pirata», ma anche nell’applicazione di contratti collettivi riferibili a categorie merceologiche diverse, pur all’interno del medesimo processo produttivo. Quest’ultimo è il caso delle catene di appalti e subappalti ove ai lavoratori esternalizzati vengono applicati contratti, come quelli delle cooperative sociali o multiservizi, stipulati al fine di abbassare il più possibile il costo del lavoro.
Chiarito il contesto, è impossibile non rilevare l’ipocrisia delle dichiarazioni di Carlo Bonomi, Presidente di Confindustria, che ha respinto in prima battuta l’introduzione di una legge sul salario minimo affermando che «Non è il caso dei contratti nazionali firmati da Confindustria», facendo finta di non sapere che nella maggioranza delle industrie vengono coinvolti lavoratori esternalizzati a cui sono applicati contratti con minimi retributivi inferiori rispetto a quelli applicati ai lavoratori interni.
Ad aggravare l’indebolimento della forza contrattuale del sindacato si aggiunge il fenomeno del rafforzamento della contrattazione decentrata, soprattutto a seguito dell’art. 8 del cosiddetto Decreto Sacconi del governo Berlusconi del 2011 che sancisce il primato della contrattazione di secondo livello in alcune materie con la possibilità di derogare la contrattazione nazionale.
Il sistema attuale che rinvia alla contrattazione collettiva per la determinazione del salario presenta, infine, limiti per i rapporti di lavoro con forme contrattuali precarie che si collocano fuori dal perimetro della subordinazione o per le collaborazioni coordinate e continuative, nonché per i falsi autonomi a cui non si applicano, al momento, i contratti collettivi.
Serve una legge
La valenza politica della proposta di Direttiva europea, insieme all’obiettivo che si è prefissata la Commissione europea di prevenire la povertà lavorativa, fa sperare per l’introduzione di un vincolo in forza del quale possano godere di un compenso proporzionato alla qualità e quantità del lavoro svolto tutti i lavoratori, anche se non subordinati, ivi compresi quelli genuinamente autonomi i quali, allo stato attuale, hanno ugualmente e spesso basse prospettive di guadagno, soprattutto se si tratta di giovani e donne.
In tale contesto di progressivo indebolimento contrattuale di lavoratori e lavoratrici, non v’è dubbio che lo strumento che in misura più diretta garantirebbe un miglioramento della condizione salariale sia l’introduzione di una legge che regoli il salario minimo, perché sarebbe in grado di ristabilire in modo immediato l’equilibrio contrattuale tra le parti liberando i lavoratori e le lavoratrici dalla spirale della povertà.
il ministro del lavoro Andrea Orlando, che si è dichiarato favorevole a un intervento legislativo entro l’estate, ha rilasciato dichiarazioni piuttosto generiche sulla possibile riforma del salario, dimostrando, nei fatti, di non avere pronta una proposta di legge e di non voler adottare e sviluppare la proposta che era già stata confezionata dal precedente governo Conte, a firma della ministra Catalfo, la cui formulazione prevedeva l’estensione dei minimi retributivi dei contratti collettivi a tutti i contratti di lavoro, con l’indicazione di una soglia minima di 9 euro lordi l’ora. Diverse proposte sono arrivate poi dalla società civileper l’applicazione di un salario minimo a tutti i rapporti di lavoro nella misura prevista dai contratti collettivi nazionali comparativamente più rappresentativi e in ogni caso non inferiore a 10 euro lordi l’ora.
Come reso chiaro dalle cronache degli scorsi mesi, in un mondo in cui l’inflazione torna a intaccare il potere d’acquisto dei lavoratori, una riforma del salario minimo dovrà prevedere, inoltre, un’indicizzazione automatica e trimestrale rispetto all’aumento dei prezzi per contrastare l’inflazione. Restiamo quindi in attesa dell’approvazione definitiva del testo della Direttiva, nella consapevolezza che i tempi appaiono maturi per un passaggio a un sistema integrato di regolazione dei salari, che, senza affidarsi esclusivamente alla legge, dia un supporto alla contrattazione collettiva nazionale affinchè assuma centralità e torni a essere uno strumento a sostegno di lavoratori e lavoratrici.
*Anita Marafioti é avvocata del lavoro del Foro di Torino e attivista di Up-su la testa! e Comunet-Officine Corsare
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