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di Valeria Poletti
In seguito all’invasione russa dell’Ucraina, dopo duecento anni di neutralità la Svezia e dopo più di 70 anni la Finlandia, entrambe si candidano ad entrare nell’Alleanza Atlantica, aprendo la strada ad un aumento della presenza di truppe NATO nelle regioni del Nord Europa1. La neutralità come status cessa di avere una sua posizione all’interno del diritto internazionale. I piccoli Paesi e quelli meno armati tendono a schierarsi, all’interno dell’antagonismo Est-Ovest, con uno dei blocchi ricostituitisi, dopo la fine della Guerra Fredda e l’implosione dell’Unione Sovietica, in un gioco pericoloso nell’Atlantico e nell’Indo-Pacifico.
Un pericolo che viene da lontano
Nel 1999, la NATO ha bombardato la Serbia per sottometterla alla secessione del Kosovo. La guerra contro la Jugoslavia è stata la prima diretta a cambiare gli equilibri regionali e a mettere in crisi l’ordinamento degli Stati nazionali, è stata la prima in cui l’Occidente capitalista ha scelto di promuovere il conflitto settario – quello portato avanti dai musulmani di Bosnia e del Kosovo – e farsene strumento per disintegrare l’unità nazionale di un Paese e annullarne la sovranità.
Dopo di allora, nell'aprile 2009 l'Albania e la Croazia hanno completato il processo di adesione alla NATO e lo stesso è avvenuto per il Montenegro nel 2017. Attualmente sono in corso le procedure per l’adesione all’Alleanza della Bosnia Erzegovina. Anche il Kosovo, che ospita la base KFOR2 di Camp Bondsteel (la più grande base statunitense nei Balcani), ha recentemente chiesto di entrare come membro del Patto atlantico: secondo quanto riporta il Fatto Quotidiano, «per la presidente del Kosovo Vjosa Osmani, la crisi e il conflitto in Ucraina potrebbero estendersi alla regione balcanica, e per questo è importante che la Nato acceleri il processo di adesione all’Alleanza in primo luogo di Kosovo e Bosnia- Erzegovina.
In dichiarazioni alla tv turca TRT World, riprese dalla stampa a Belgrado, Osmani ha detto che l’Ucraina è oggi la prima linea nella difesa della democrazia, mentre i Paesi dei Balcani occidentali, in particolare Kosovo, Bosnia-Erzegovina, Montenegro ma anche Albania e Macedonia del Nord, sono la seconda linea del fronte»3.
Difficile immaginare che la Russia abbia intenzione e possibilità di condurre operazioni militari di aggressione in questa regione, dunque, evidentemente, non esiste nessuna ragione di allarme che renda “necessaria” l’adesione delle due nazioni balcaniche ad un’alleanza militare che, per sua originaria definizione, si presenta come difensiva. Dovremmo, piuttosto, pensare che la natura dell’Alleanza sia cambiata negli ultimi due decenni?
Come si evince dalla lettura del Concetto Strategico, pubblicato nel novembre 2010, la “nuova” NATO motiva la sua esistenza in particolar modo in funzione della “gestione delle crisi”, riconoscendo la propria natura di patto offensivo. È evidente come questo allargamento di prospettiva definisca un teatro operativo bellico senza confini e senza limiti4.
E, vi si dice. «L'allargamento della NATO ha contribuito in modo sostanziale alla sicurezza degli Alleati; la prospettiva di un ulteriore allargamento e lo spirito di sicurezza cooperativa hanno rafforzato la stabilità in Europa in senso più ampio. Il nostro obiettivo di un'Europa intera e libera, e di condivisione di valori comuni, sarebbe meglio perseguito dall'eventuale integrazione di tutti i paesi europei che lo desiderano nelle strutture euro-atlantiche»5.
Quindi, l’integrazione nella NATO significa integrazione nel mondo occidentale, nei suoi valori, cioè nel suo sistema economico, naturalmente in posizione subordinata. Dal “socialismo reale” al “capitalismo reale”. Abbiamo visto cosa questo ha significato non solamente per la Jugoslavia, ma anche, ad esempio, in Romania: la corsa all’Est degli imprenditori europei (la delocalizzazione), l’importazione di manodopera specializzata a basso costo, con la conseguente svalutazione dei salari, e di quello dei lavoratori dei servizi (colf, badanti, infermiere) sottopagati in un mercato privo delle minime garanzie. Povertà e malessere sociale nei loro Paesi, precarietà e limitazione dei diritti nei nostri.
Gli investimenti in guerre e rivoluzioni colorate hanno distribuito un consistente dividendo alle borghesie imprenditoriali dell’occidente europeo, ma hanno anche promosso gli interessi strategici degli Stati Uniti, fra cui – non certo ultimo – quello dell’allargamento della NATO verso est, verso le regioni del Caspio e del Mar Nero. Regioni importanti non solamente per controllarne lo sviluppo economico e lo sfruttamento delle risorse (la transizione alla democrazia), ma proprio nell’eventualità di un confronto Occidente-Russia.
Che l’Ucraina fosse il pilastro di questa strategia era già chiaro quando, al vertice di Bucarest del 2008 della NATO, gli Stati Uniti avevano fatto pressioni affinché Georgia e Ucraina diventassero membri, contro la posizione di Francia e Germania che bloccarono la proposta.
Ancora più evidente quando, come riporta The Guardian il 3 settembre 2014, alla vigilia di un vertice della NATO, Barak Obama dichiarava: «La Nato deve assumere impegni concreti per aiutare l'Ucraina a modernizzare e rafforzare le sue forze di sicurezza. Dobbiamo fare di più per aiutare anche altri partner della Nato, tra cui Georgia e Moldavia, a rafforzare le loro difese»6. Il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, conferma che «nel corso degli anni dal 2014, ci sono molte, molte migliaia di truppe ucraine, forze che sono addestrate ai massimi livelli da addestratori della NATO, forze operative speciali, che hanno attrezzature avanzate e sanno come usarle»7.
«All'inizio di febbraio [2016], il Pentagono ha annunciato che avrebbe richiesto 3,4 miliardi di euro (3,8 miliardi di dollari) per una presenza ampliata nell'Europa orientale. Gli americani hanno in programma di stazionare attrezzature per un'intera divisione di carri armati nella regione, inclusi carri armati, artiglieria e altre armi pesanti. In caso di emergenza, un'unità di 20.000 soldati americani pronti al combattimento potrebbe essere schierata rapidamente. Inoltre, una brigata sarà di stanza nell'est della NATO, a rotazione tra le basi»8.
All’allargamento politico-economico ad est dell’Unione Europea si sovrappone la NATO, con le sue basi militari, anche per condizionare il possibile costituirsi di un esercito comune europeo.
Le due proposte presentate dalla Federazione Russa a Stati Uniti9 e NATO10 il 17 dicembre 2021 come base per una trattativa riguardo a garanzie reciproche e vincolanti per garantire la sicurezza ed evitare conflitti, non hanno ricevuto risposta.
Bisogna tenere conto del fatto che, nonostante le pressioni di Washington perché gli Alleati aumentino le proprie spese militari e la contribuzione alla NATO, gli Stati Uniti si assumerebbero comunque l’onere maggiore11 nell’eventuale difesa di Stati deboli al confine con la Russia, degli enormi investimenti attuati per presidiare i piccoli Paesi Baltici e quelli che fanno corona al Mar Nero, oltre che del supporto in armi e materiale bellico all’Ucraina. Tanto “attivismo” e impegno si può spiegare solamente con l’intenzione di un’aggressione articolata e protratta nel tempo alla Federazione Russa. Un genere di guerra che combatteranno prima gli ucraini, poi i Paesi europei della NATO….
Come diceva il suo primo segretario lord Ismay, la NATO è stata creata per «tenere fuori l'Unione Sovietica, gli americani dentro e i tedeschi giù»; dobbiamo solamente aggiungere “e la Cina lontana”12.
Lontana dall’Europa prima e dall’Africa poi. Non sapremo mai se l’apertura di trattative avrebbe potuto evitare la guerra in corso. Quello che constatiamo è che saturare l’Ucraina di armi non risponde a un intendimento di gestione della crisi, ma ad una strategia bellica. Lo conferma il fatto che, come riferisce l’ANSA il 28 maggio, «L'amministrazione Biden si sta preparando a inviare all'Ucraina armi più potenti (…), si tratterebbe in particolare di sistemi di missili a lungo raggio, Multiple Launch Rocket System o MLRS, [armi che] possono sparare una raffica di razzi per centinaia di chilometri, molto più lontano di qualsiasi altro sistema già presente in Ucraina, e secondo Kiev potrebbe essere il punto di svolta nella loro guerra contro la Russia»13. Sono sistemi d’arma che possono colpire dentro il territorio russo, non precisamente un aiuto alla difesa dell’Ucraina ma, piuttosto, un ulteriore passo verso l’escalation.
…E guarda lontano
«Il segretario alla Difesa Lloyd Austin ha affermato che l'espansione della presenza militare statunitense nell'Europa orientale è un "work in progress", aggiungendo che la questione sarà probabilmente discussa al vertice della NATO di giugno. Le truppe della NATO sono già di stanza in Lituania, Lettonia, Estonia e Polonia, con altre dovrebbero essere schierate in Ungheria, Slovacchia, Romania e Bulgaria»14. E, nel marzo di quest’anno, il Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg si esprimeva così durante una conferenza stampa: «Ora stiamo seriamente considerando un aumento significativo di quella presenza, sia in più truppe, con più difesa aerea, sia con deterrenza per difesa, attraverso la difesa, non solo inviando un messaggio di presenza NATO. Quindi, come l'hanno formulato oggi alcuni ministri, si tratta della differenza tra deterrenza per presenza o deterrenza per difesa».
In Romania è stata mobilitata per la prima volta la Response Force (NRF), una forza multinazionale tecnologicamente avanzata costituita da componenti delle Forze per operazioni speciali (SOF) terrestri, aeree, marittime e che l'Alleanza può schierare rapidamente ovunque.
Il Kosovo ha chiesto agli Stati Uniti di stabilire una base militare permanente nel Paese e di accelerare la sua integrazione nella Nato dopo l'invasione russa dell'Ucraina, come ha affermato domenica il ministro della Difesa del Kosovo Armend Mehaj. Con il previsto allargamento della base americana di Bondsteel in Albania e, soprattutto, la volontà15, più volte ribadita dalle amministrazioni statunitensi, di includere la Bosnia nell’Alleanza. Il pericolo di vedere nuovamente i Balcani al centro di un conflitto alle nostre porte di casa si fa più vicino.
Lo scontro interno alla repubblica bosniaca, nata dalla disgregazione della Jugoslavia e retta da una condivisione del potere tra gruppi etnici (serbi, croati e musulmani bosniaci)16, ricalca la divisione che esiste in Ucraina tra le comunità russofone del Donbass e il governo filo-occidentale di Kiev. La componente serba, che ha subito i bombardamenti NATO degli anni ’90 del ‘900 e che persegue disegni indipendentisti, è decisamente contraria all’integrazione del Paese nel Patto Atlantico, mentre quella musulmana ne è accesa sostenitrice. Negli anni ’90, l’allora senatore Biden fu un accanito sostenitore dell’intervento armato contro quella che era la Jugoslavia presieduta da Slobodan Milosevic e, in seguito, lo stesso è stato fautore dell’integrità territoriale della Bosnia Erzegovina. Come candidato alla presidenza nel 2020, ha chiesto e ottenuto il voto della diaspora bosniaca17. La campagna elettorale è stata condotta da Elvir Klempić, bosniaco emigrato negli Stati Uniti che, dopo il successo di Biden, ha affermato:
«Questa è una persona che conosce molto bene i Balcani e le persone intorno a lui conoscono bene la regione. Ci si può aspettare che gli Stati Uniti saranno molto più attivi nei Balcani e molto più attivi nella Nato e nella democrazia»18.
Nell’agosto del 2021, su un sito governativo statunitense leggiamo: «Nel febbraio 2021, il Consiglio dei ministri della Bosnia ed Erzegovina ha approvato la formazione di una Commissione per la cooperazione con la NATO, che fungerà da principale organo di coordinamento a livello statale per il partenariato del Paese con la NATO. (…) Gli Stati Uniti hanno fornito assistenza per oltre 2 miliardi di dollari dal 1992; l'assistenza per l'anno fiscale 2020 alla Bosnia ed Erzegovina ammonta a circa 50 milioni di dollari, inclusi i finanziamenti supplementari bilaterali, regionali e COVID»19. Stoltenberg, durante una conferenza stampa, dichiara: «allo stesso tempo abbiamo iniziato alla riunione di oggi la discussione sui cambiamenti a più lungo termine della nostra presenza, postura, deterrenza e difesa in tutta l'Alleanza ma soprattutto nella parte orientale. E oggi abbiamo una presenza nei paesi alleati orientali, abbiamo i gruppi tattici nei paesi baltici e in Polonia, abbiamo una presenza anche in Romania e nel sud-est. Ora stiamo seriamente considerando un aumento significativo di quella presenza, sia in più truppe, con più difesa aerea, sia con deterrenza per difesa, attraverso la difesa, non solo inviando un messaggio di presenza NATO. Quindi, come l'hanno formulato oggi alcuni ministri, si tratta della differenza tra deterrenza per presenza o deterrenza per difesa»20.
E, negli ultimi anni, è notevolmente cresciuta l’attenzione riservata ai Paesi balcanici dalla Cina, interessata allo sviluppo di infrastrutture per accedere ai mercati europei e ad investimenti finanziari in tutto il sud-est europeo, e dalla Russia, da sempre legata da vincoli culturali con le popolazioni serbe, con la quale Belgrado ha firmato un accordo nell’ambito dell’Unione Economica Euroasiatica. Se per Mosca la regione serba rappresenta un punto nodale di profondità strategica, per Washington è un bastione a difesa della propria egemonia sull’Europa. Con le elezioni in programma per il prossimo ottobre, il rischio è che la Bosnia-Erzegovina diventi l’anello balcanico dello scontro tra Usa e Russia21.
La guerra continuerà in Africa?
I governi europei si sono disciplinatamente incolonnati dietro le insegne della NATO a guida statunitense, né avrebbero potuto fare diversamente: il nemico comune non è la Russia in sé, quanto la minaccia rappresentata dalla rottura improvvisa degli equilibri economici e di potere globali. Equilibri già in fase di logoramento grazie allo spostamento in divenire dal cuore del mondo capitalistico alle sue arterie, dal ventre onnivoro dove si consuma la ricchezza mondiale a una parte delle membra che la producono, dall’Occidente alla Cina.
L’economia americana è strutturata sulla base dell’egemonia del dollaro e della potenza militare, ha la necessità e la possibilità di muoversi e provocare guerre seguendo strategie geopolitiche, ma le potenze europee sono ancora in continua competizione tra loro in un mondo che si avvia verso la multipolarità. La guerra in Ucraina – che è di fatto guerra contro la Russia anche in prospettiva anti-cinese – ha creato un’alleanza contingente, ma destinata a frantumarsi in conseguenza dell’inevitabile crisi dell’economia reale che la scarsità di merce energetica e l’impoverimento di massa andrà ad aggravare22, a dispetto degli enormi profitti dell’apparato militare industriale.
La pressione per aumentare l’approvvigionamento energetico e di materie prime (non più solamente legate allo sviluppo tecnologico) alimenterà le fiamme dei conflitti combattuti per procura con l’appoggio delle potenze europee sui fronti nord-africani e nel Sahel. Si tratta di regioni nelle quali la sfida – in particolare tra Francia, Italia, Germania e Gran Bretagna – procede dal momento dell’aggressione contro la Libia del 2011 e nelle quali la Federazione Russa opera, direttamente o attraverso i mercenari del gruppo Wagner fino a sottrarre alla Francia l’influenza sul Mali.
Come segnala un interessante articolo del Tony Blair Institute For Global Change, «l'invasione russa dell'Ucraina ha messo in luce la misura in cui Vladimir Putin è pronto ad andare per affermare la sua visione degli interessi della Russia oltre i confini del Paese. Mentre il mondo si concentra sull'ultima aggressione della Russia in Europa, le nazioni occidentali non devono perdere di vista il più ampio confronto strategico che è riemerso con la Russia negli ultimi anni in tutta l'Africa. Il voto delle Nazioni Unite (ONU) del 2 marzo – in cui 17 nazioni africane hanno votato contro o si sono astenute dal condannare le azioni della Russia in Ucraina – mostra che il Regno Unito, l'Europa e gli Stati Uniti non possono dare per scontato il sostegno africano. (…) Come parte della sua offensiva del fascino africano nel 2019, Putin ha ordinato alla Russia di cancellare 20 miliardi di dollari di debiti africani nei confronti dell'ex Unione Sovietica, un gesto che simboleggiava ciò che si stava evolvendo in una relazione reciprocamente vantaggiosa tra la Russia di Putin e l'Africa per tutta la durata di più di dieci anni»23.
Non è un caso se, come titola sul suo sito Difesa e Sicurezza, «la NATO si prepara a una missione nel Sahel». Il testo prosegue: «La NATO pensa a una eventuale missione in Sahel e si prepara a operare nel caso l’ipotesi si concretizzi. Lo fa con l’esercitazione militare Steadfast Jackal 2021 (STJA 21), organizzata dal NATO Rapid Deployable Corps (NRDC) in Italia e che comincerà il 24 novembre. (…) Il pericolo per l’Alleanza Atlantica in Sahel, altrimenti, è duplice: da una parte c’è il fatto che ISGS e JNIM continueranno la loro espansione nella regione africana, rendendo progressivamente sempre più difficile contrastarli. Dall’altra, c’è il rischio di un aumento consistente di presenza e influenza della Russia nel continente. Ciò, come già avvenuto in Mali, in quanto i governi locali hanno cominciato a rivolgersi a Mosca per chiedere aiuto contro i terroristi, non trovando sponde dal lato Occidentale. Inoltre, c’è l’elemento del flusso migratorio verso l’Europa, che deve essere contenuto a ogni costo. Tutti questi elementi rappresentano una minaccia concreta sia per l’Unione Europea sia per la NATO. Ma l’UE oggi ancora non ha la forza e la coesione politica per poter gestire in autonomia una eventuale missione di questa portata. Di conseguenza, la palla passa per necessità di cose all’Alleanza»24.
Siamo tutti arruolati
Tra gli azionisti della NATO, i lavoratori italiani stanno sostenendo un costo di circa 78 milioni di euro per assetti militari, terrestri ma soprattutto aerei e navali, che partecipano a missioni NATO a presidio dei confini orientali dell’Alleanza atlantica25. E per contribuire all’operazione di sostegno bellico all’Ucraina ci vogliono altri 187,5 milioni26. Ma siamo disponibili ad investire di più. Il dividendo sarebbe la soddisfazione morale di avere contribuito al successo della giusta resistenza di un Paese invaso contro l’invasore o quella di avere incrementato i profitti dell’industria militare27?
A parte l’ovvia considerazione che la spesa militare (25.823.654.035 euro in Italia nel 2022, Ucraina a parte, secondo MilEx) sottrae fondi alla spesa pubblica, una politica di riarmo e di intervento nei conflitti implica una più stretta correlazione tra politica estera e politica interna, ma anche tra sviluppo industriale e organizzazione del lavoro.
La guerra è sempre stata un fattore di rilancio dell’economia, ma questo non significa che la società ne tragga benefici: privilegiare lo sviluppo dell’impresa bellica comporta favorire la ricerca e l’impiego di tecnologie sempre più avanzate, di manodopera specializzata, di impiego di risorse pubbliche nelle grandi opere a spese della collettività.
Significa, in parole povere, ristrutturazione produttiva relativamente generalizzata, concorrenza internazionale tra le maggiori holding dell’industria militare e concorrenza più intensa tra le imprese nazionali. Cioè ristrutturazione del mondo del lavoro con espulsione di massa dei lavoratori non qualificati e, dunque, precarizzazione e minore potere contrattuale per tutti in ragione dei minori profitti e investimenti e delle aziende non dedicate ai settori trainanti; significa aumento della polarizzazione sociale, politiche di austerità per la società comune e riduzione dei diritti.
Significa anche sempre maggiore specializzazione nei corsi di studio, il cui fine è già orientato a produrre competenze piuttosto che a generare sapere, finanziamento e controllo privato sull’università e la ricerca.
Significa, dunque, che l’intera società, pur non essendo formalmente in guerra, si deve conformare alle scelte politiche ed economiche di un esecutivo che attualmente si propone, a dispetto della Costituzione, come il vero centro decisionale delle scelte belliciste e il garante della dipendenza dalla NATO.
Perché una simile svolta autoritaria e anti-popolare sia assorbita e accettata (o subita) dalla società, non è solamente necessaria una campagna di convincimento fondata su informazione lacunosa, astorica e scadente e sulla enfatizzazione di principi “morali”. È anche necessaria l’assuefazione al pensiero binario, quello che rende “doveroso” schierarsi con l’una o con l’altra parte. Tutto il confronto politico viene ridotto dai mezzi di comunicazione alla spettacolarizzazione di questa dualità, impedendo di fatto la critica dell’opzione militare e la critica del nazionalismo (ora definito, mistificando, “autodeterminazione” nazionale)28.
Lo Stato della belligeranza latente ha, dunque, arruolato tutti i suoi cittadini.
Disertiamo!
Per quanto sia largamente diffuso il sentimento di solidarietà con la popolazione ucraina, nella società italiana è comunque impopolare l’idea che il Paese possa essere coinvolto in una avventura militare: tanto è condiviso il rifiuto istintivo della guerra in sé, quanto è tuttora vivo il rispetto tributato alla “Costituzione che ripudia la guerra”, quanto gli italiani sono poco inclini a giustificare l’aumento delle spese belliche fino al tetto del 2% del PIL richiesto dagli Stati Uniti e approvato dalla Camera nella seduta del 16 marzo 2022.
Grande è, però, il senso di impotenza di fronte ad avvenimenti cui sembra impossibile opporsi anche per l’assenza di un movimento contro la guerra strutturato e connesso con le lotte sociali come è stato quello che si è espresso in occasione delle aggressioni contro l’Iraq negli anni ’90 del 900 e nel 2003. È, dunque, necessario ridare vitalità e unità a quel movimento identificando gli strumenti utili per una battaglia tenace ed efficace.
Per costruire una opposizione concreta alla guerra che c’è – quella combattuta tra Russia e Ucraina alla quale si è sovrapposta la guerra tra Stati Uniti-NATO contro la Federazione Russa – bisogna, prima di tutto, uscire dalla trappola mediatica.
La retorica della difesa della nazione aggredita alla quale si deve offrire solidarietà armata, nasconde la volontà da parte dei governi europei di sostenere un regime corrotto e dispotico, affiliato agli interessi dell’imprenditoria occidentale e favorevole alla proiezione di forza delle grandi potenze americana ed europea in una regione vitale per la loro economia di rapina. La contrapposta retorica di stampo stalinista dipinge l’invasione russa come una reazione necessaria (“necessaria”, non spiegabile o inevitabile nel quadro dei giochi di potenza dei quali il regime di Putin è uno dei protagonisti) all’allargamento ad Est della NATO e compiuta in difesa delle popolazioni russofone del Donbass. Una narrazione che, oltre a sottacere il ruolo di brutale aggressore svolto dal Cremlino in Siria e in Libia, omette di esaminare la complessità dello scontro interno nelle regioni est dell’Ucraina orientale29.
La popolazione ucraina è vittima tanto di una aggressione armata dall’esterno, quanto di una oligarchia interna che – per propri interessi – ha reso possibile la guerra, quanto dei disegni imperialistici dell’Occidente.
Riempiendo di armi e dollari l’Ucraina si difende un regime contro un altro regime, non un popolo. Si usa, invece, il dramma di una popolazione per ottenere non tanto la sua vittoria, quanto la disfatta della Russia in quanto potenza competitrice. Quale scopo vogliamo raggiungere, vogliamo far vincere la NATO o fermare la guerra?
Fermo restando il diritto degli ucraini a combattere con ogni mezzo contro l’esercito invasore, sembra utile sottolineare che per fermare un conflitto come questo bisogna opporsi a tutti i contendenti e che, in solidarietà con gli Ucraini costretti a combattere sul loro territorio il nostro compito dovrebbe essere quello di fermare la NATO. Prima che le sue nuove avventure belliche coinvolgano altre regioni, non esclusa quella del Pacifico con Taiwan che potrebbe essere portata in prima linea.
La diserzione civile comincia con l’impegno a far circolare informazione corretta, ma deve articolarsi in una serie di azioni coordinate che possano vedere, nel tempo, una partecipazione di massa.
Fare pressione sul governo pretendendo la fine dello stato di emergenza, lo stop all’invio di armi al regime di Kiev, la concessione immediata dell’asilo politico ai disertori russi e ucraini (favorendo anche la fuga dall’Ucraina degli uomini adulti che vogliono sottrarsi alla leva e all’arruolamento) può essere l’oggetto di prossime mobilitazioni.
Contrastare l’inserimento dell’addestramento militare nei piani formativi delle scuole secondarie, la collaborazione tra MIUR (Ministero dell’istruzione università e ricerca) e ministero della difesa riguardo all’alternanza scuola-lavoro e gli incontri con funzionari dell’esercito nelle scuole è altrettanto necessario che opporsi al finanziamento e alla conduzione della ricerca bellica nelle nostre università30.
Un patto di mutuo soccorso contro la guerra può sostenere concretamente i lavoratori portuali e dei trasporti che, in Italia e all’estero, rifiutano di caricare le armi sui mezzi, ma anche i movimenti locali che ostacolano l’espansione delle basi militari sul nostro territorio e la realizzazione di grandi opere collegate alla movimentazione di mezzi militari.
Può essere avviata la proposta di un disegno di Legge di Iniziativa Popolare per la desecretazione dei trattati militari, per porre vincoli legislativi che impediscano l'insediamento di nuove basi USA e NATO e l'ampliamento di quelle esistenti, e ne ostacoli quanto più possibile le attività. Aprirebbe una vertenza diretta con il governo.
Necessaria sarebbe l’identificazione e la denuncia pubblica delle agenzie di contractors.
Scioperi locali di breve durata possono interessare in alternanza una quantità di luoghi di lavoro e possono scandire una campagna antimilitarista.
A più lunga scadenza, potrebbe essere organizzata una campagna di obiezione fiscale alle spese militari.
La diserzione civile come pratica antimilitarista.
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