“Fioriscono partiti mediocri con leader mediocri”. Il giudizio del sociologo Domenico De Masi è impietoso: “I partiti non hanno paradigma né struttura, nascono dall’oggi al domani”.
(LORENZO GIARELLI – Il Fatto Quotidiano)
La leggerezza con cui si aggregano 30 o 40 parlamentari – da cui il record di cambi di casacca – nasconde una povertà di contenuti il cui risultato è “la fortissima astensione” che si vede a ogni elezione.
Professor De Masi, ogni tre o quattro mesi nasce un nuovo gruppo in Parlamento. Che significa?
Chiunque può creare un partitino senza neanche avere idea di dove voglia andare a finire. Il problema è la mancanza di un paradigma, delle idee di fondo: che tipo di società voglio costruire? In che modo mi distinguo dagli altri partiti? Abbiamo visto il caso di Di Maio, che pure ho sempre stimato: non avendo nulla di tutto ciò, si è presentato in conferenza stampa mettendo in fila una serie di banalità.
C’entra anche l’egocentrismo di tutti quelli che vogliono essere leader anche a costo di non avere un esercito?
Certo. Il problema è che poi diventa praticamente impossibile distinguere un partito dall’altro. Sono tutti uguali, si scornano su scaramucce quotidiane perché non avrebbero altro su cui discutere.
Si riferisce alla galassia centrista? Abbiamo Calenda, Renzi, Toti, Di Maio ad affollare quell’area politica.
Tutti partiti mediocri con leader mediocri. Non c’è una leadership fatta di pensiero: ormai fondano un partito come fosse un club di amici. Ma noto anche che c’è una platea di elettori che si accontenta di poco, non ha pretese. Dunque non servono neanche progetti chiari.
Perché un tempo il dissenso rimaneva interno ai partiti, piuttosto che sfociare in continue scissioni?
Il paragone con la Prima Repubblica è impossibile. La Democrazia cristiana, i comunisti, i repubblicani erano tutti partiti con una struttura dietro, con un mondo di riferimento. Mancando queste radici, i partiti di oggi si sfaldano subito. Il problema però è di antica data: ricordiamo che siamo nel Paese in cui le privatizzazioni neo-liberiste le ha fatte un partito di centrosinistra, negli anni 90.
Si potrebbero introdurre delle regole per arginare il fenomeno del trasformismo in Parlamento?
Non è un’anomalia solo italiana, va detto. Si potrebbe fare come in Portogallo: se esci dal partito, esci dal Parlamento. Del resto anche Di Maio teorizzava un provvedimento del genere quando era leader del Movimento 5 Stelle.
Siamo a oltre 400 cambi di casacca in 4 anni di legislatura. Anche in questo dobbiamo cercare le cause del distacco dalla politica degli elettori?
Non ho dubbi che le due conseguenze della scissione di Di Maio dal Movimento saranno la vittoria netta di Giorgia Meloni alle prossime elezioni e la forte crescita dell’astensione. Non stupiamoci se oltre il 60 per cento delle persone non va a votare, è il risultato di quello che ci siamo detti finora. A finire ai margini sono soprattutto le classi più povere, che continuano a non vedere nessuno che li rappresenta e dunque un po’ si spargono tra i vari partiti e in gran parte stanno a casa. E non è solo un problema di rappresentanza.
In che senso?
Un tempo il Partito comunista si preoccupava anche di educare le classi meno agiate, facendosi carico di una forte azione pedagogica tra le masse. Oggi ci sono 12 milioni di persone che vivono in povertà o che sono a rischio povertà, ma nessuno se ne preoccupa.
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